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  • Quando la memoria diventa musica: l’omaggio di Andrea Galderisi, figlio di “Nanu”, per lo scudetto Hellas

    C’è una storia che non smette mai di far battere il cuore dei tifosi. È quella dello scudetto dell’Hellas Verona, conquistato nella stagione 1984-1985: un evento unico nel calcio italiano, perché nessun’altra squadra di una città non capoluogo di regione ha mai vinto la Serie A. Un’impresa irripetibile, scolpita nella memoria collettiva.

    A 40 anni da quella vittoria leggendaria, a riaccendere l’emozione ci pensa Andrea Galderisi, figlio di Giuseppe “Nanu” Galderisi, attaccante simbolo di quella formazione, con una canzone che è insieme omaggio familiare, inno sportivo e atto d’amore per la città: “Verona il tuo nome è leggenda”.

    «Ho scritto pensando a mio padre, certo. Ma anche a tutto quello che mi ha trasmesso parlando di Verona e di quegli anni straordinari. Le sue parole, i suoi racconti, sono diventati la mia voce. È come se quella squadra vivesse ancora, oggi, attraverso ciò che ha lasciato nei cuori di chi c’era – e anche di chi non c’era.»

    Così racconta Andrea, che ha trasformato i ricordi di famiglia in un progetto che tiene insieme affetto e memoria storica, con uno sguardo che va oltre il campo da gioco, parlando contemporaneamente a più generazioni.

    Prodotta e co-scritta da Mitch (Giovanni Mencarelli), DJ di punta di Radio 105 – “Verona il tuo nome è leggenda” nasce “a pugno”, come si dice in gergo: ogni verso è tratto dalla voce di Nanu, dai suoi aneddoti, dal sentimento con cui ha sempre descritto quella stagione memorabile.

    «Quando Andrea mi ha parlato dell’idea, ho avuto subito la pelle d’oca – dichiara Mitch –. Non era solo una canzone, era un pezzo di storia che tornava a vivere. Volevamo che ci fosse tutta l’energia di quegli anni, ma anche l’intimità di un figlio che parla al padre. E Verona meritava un inno così: sincero, sentito, vivo.»

    Il brano – che riaccende lo spirito irripetibile del Verona 1985, quando una squadra data per outsider si prese la vetta del calcio italiano contro ogni pronostico – è stato accolto con entusiasmo dalla città e dalla tifoseria. L’Hellas Verona lo ha condiviso sui propri canali ufficiali, riconoscendone il valore simbolico in un anno carico di significato: quarant’anni dallo scudetto e una salvezza in Serie A arrivata tra mille difficoltà, che ha riacceso l’orgoglio della piazza.

    Profondamente toccato anche Giuseppe Galderisi, che così ha commentato:

    «Andrea mi ha fatto un regalo che non dimenticherò mai. Ho sempre cercato di raccontargli cosa ha rappresentato quella stagione per me, ma sentire quelle parole diventare musica… mi ha commosso. È un filo che lega con amore passato e futuro. Per me, Verona è casa. E oggi sento che lo è anche per lui, attraverso questa canzone.»

    “Verona il tuo nome è leggenda” non è non vuol essere un’operazione nostalgica: è un inno che guarda avanti, che parla di identità e passione, di orgoglio e appartenenza. Tra i tifosi già si rincorre la speranza che questo nuovo canto possa portare fortuna, com’è accaduto in passato con altri inni diventati emblema di radici e coesione, unendo una città attorno alla sua squadra.

    Un ricordo che non sbiadisce. Una città che continua a crederci. Una voce che riaccende la leggenda.

  • Tre ragazzi campani si chiudono in un garage. Ne escono con un EP autoprodotto che racconta cosa significa avere vent’anni oggi. Senza cercare di piacere a tutti i costi

    «Ci siamo fatti una promessa: chiudere la porta e restare con le canzoni». “16m²” sono le dimensioni esatte del garage dove i La Maitresse si sono chiusi per ripartire da zero. Niente comfort, niente aspettative. Solo loro tre, qualche strumento e un’urgenza espressiva da liberare.

    Ci sono debutti che nascono da un contratto, da un talent, da una strategia editoriale. E poi ci sono quelli che nascono dal silenzio. “16m²”, il primo EP dei La Maitresse, è l’esatto opposto di un esordio costruito a tavolino: non nasce da un piano, ma da una frattura.

    Nel 2023, il trio napoletano si ritrova senza un progetto, azzerato da una fine inattesa e senza un piano di riserva. Dopo quattro anni di percorso condiviso, ciò che resta è un punto interrogativo. Niente label, niente pubblicazioni imminenti. Solo una stanza, poi un garage. E il bisogno bruciante di non smettere. Il risultato è un disco che somiglia a chi lo ha scritto: vulnerabile, lucido, disilluso. Ma anche pieno di immagini pop e intuizioni che non si vedono spesso in un debutto.

    C’è chi li definirebbe elettropop, chi canzone d’autore in formato Gen Z. Ma i La Maitresse rifuggono le etichette. E non si vergognano di avere due anime: quella cantabile, accessibile, nazionalpopolare. E quella più laterale, più spigolosa, che vuole uscire dagli schemi.

    «In noi vive un dilemma battistiano – affermano -. Una parte di noi vuole essere nazionalpopolare, l’altra vuole rompere gli schemi. Ma il pop non è compromesso: è colore.»

    Il nome stesso della band – ispirato a una maîtresse incontrata in una situazione grottesca e teatrale – è figlio di un’identità musicale fuori dalle formule. La loro è una scrittura visiva, che parte da riferimenti generazionali precisi (da Vasco a “Dancing Queen”, da Coltrane ai tiramisù da frigorifero) per raccontare con disillusa ironia quel territorio intermedio tra i venti e i trent’anni, dove tutto è in bilico: relazioni, futuro, appartenenza.

    Nel DNA della band c’è anche l’irriverenza e la malinconia della Napoli contemporanea: colta, disincantata, musicale per natura. Una città che non fa da cornice, ma che condiziona il suono, il linguaggio. Non è un dettaglio del contesto: è una variabile costante nel modo in cui scrivono, suonano e pensano.

    Ed è lì, in quella zona fatta più di dubbi che di certezze, che prende forma un nuovo inizio. Ma non arriva all’improvviso: ha la voce di una canzone.

    E quella canzone, è “ADRIANAAA”, la prima a rompere il silenzio. Dopo un lungo periodo di blocco, finalmente qualcosa si muove.

    «Eravamo a pezzi. O smettevamo, o ci chiudevamo in un garage a fare canzoni. Abbiamo scelto il garage. E abbiamo iniziato a cucire le crepe, una strofa alla volta. Ore spese a dare personalità a ogni suono. Per la prima volta, abbiamo curato tutto da soli.»

    È così che nasce “16m²”, un EP autoprodotto in ogni parte creativa – eccetto mix, mastering e batterie finali – che suona artigianale e preciso al contempo, come se l’imperfezione fosse diventata – finalmente – una scelta estetica consapevole, e avesse trovato il suo posto nel suono.

    Ogni brano ha un’identità autonoma, ma insieme costruiscono un percorso coeso, fatto di immagini, contrasti e piccole confessioni. Una stanza dopo l’altra, una canzone alla volta.

    A seguire, tracklist e track by track del disco.

    “16m²” – Tracklist:

    1. Dimmi che hai preso il verme
    2. Missile
    3. Dieta
    4. ADRIANAAA
    5. Bandiera
    6. 0Positivo!
    7. A Porte Chiuse

    “16m²” – Track by Track:

    Dimmi che hai preso il verme”. Un’apertura scomposta e imprevedibile. Il titolo surreale nasconde una narrazione ossessiva, intima, che scorre su un tappeto elettronico che si apre e si richiude. È il lato più obliquo e viscerale del progetto, e anche uno dei più sperimentali.

    Missile”: una hit mancata e proprio per questo riuscita. Una storia di gelosia postmoderna tra trenini mentali e tacchi rossi, su un groove che mescola Abba e ansia sociale. La leggerezza, qui, è solo apparente: c’è sotto un carico emotivo che pesa, ma non schiaccia.

    Dieta” è il pezzo più ironico, ma con un doppio fondo malinconico. Una relazione che passa per frigo, palestra e tentativi falliti di auto-controllo. È un dialogo in forma di sitcom, che riesce a raccontare il quotidiano senza banalizzarlo.

    ADRIANAAA”. Una scena da commedia americana anni Duemila (“autostrada e John Coltrane”), un dialogo stralunato, un synth-pop che guarda agli MGMT e a Battiato. Ironica, precisa, poetica nel suo modo sbilenco.

    Bandiera”: una ballad sintetica e dolente, che condensa l’identità della band. Qui i La Maitresse smettono di giocare e mettono in mostra la loro anima più fragile. Il ritornello resta impresso nella mente, anche dopo un solo ascolto.

    0Positivo!” è una riflessione generazionale vestita da pezzo pop: c’è dentro tutta la stanchezza di chi si sente fuori fuoco, ma anche la forza di chi continua a provarci. Un pezzo che potrebbe finire in una playlist, ma anche in un dancefloor di un club.

    A porte chiuse”, infine, è la chiusa perfetta. Intimo, claustrofobico, scritto in prima persona e spogliato di filtri. È una lo specchio della solitudine di una generazione iperconnessa ma sempre più distante.

    “16m²” è un disco che parla a chi è in transizione. Un disco per chi si sente in bilico, sospeso: tra adolescenza e maturità, tra coraggio e rinuncia, tra identità e maschera. Non pretende di dare risposte, né soluzioni. Ma non rinuncia a cercarle. E lo fa con un linguaggio nuovo, ibrido, credibile. I La Maitresse scelgono l’ambiguità, il dettaglio, l’incompiutezza. E proprio per questo suonano veri.

  • Un feat che unisce generazioni e culture: è uscito “Napoli Tirana di Stresi e Clementino

    Due voci, due città, due storie che si incrociano sullo stesso beat. “Napoli Tirana” è il nuovo singolo di Stresi, leggenda vivente del rap albanese, in collaborazione con Clementino, tra i più rispettati liricisti della scena italiana. Il brano fa parte di “Archimed (Episode 2)”, il nuovo album di Stresi, prodotto dall’etichetta romana Techpro Records.

    “Napoli Tirana” è il punto di contatto tra due città che condividono una lunga storia di scambi culturali, migrazioni e affinità artistiche, l’incontro perfetto tra due mondi che si riconoscono e si rispettano. Il legame tra Napoli e Albania non è solo musicale: è storico, umano, più vivo che mai. “Napoli Tirana” lo celebra con le parole, con barre che danno voce al suono crudo del cemento. La terra di Partenope e quella delle Aquile si ritrovano al centro di una nuova mappa culturale, fatta di musica che supera barriere, confini e parla a più generazioni.

    «Questo brano rappresenta tutto quello in cui credo: rispetto tra le scene, fratellanza vera, e musica che racconta senza filtri, senza patine – spiega Stresi -. Con Clementino è stata una sintonia immediata. Due stili diversi, ma la stessa fame, la stessa strada. Questo è solo l’inizio.»

    Stresi, con alle spalle oltre vent’anni di carriera e milioni di ascolti, è considerato uno dei pesi massimi della scena non solo in Albania, ma in tutto il mondo albanofono. Quando Clementino ha ascoltato il brano per la prima volta, non ha avuto dubbi: “Entro in studio subito”. L’intesa è stata istantanea, naturale. Il risultato? Una traccia che miscela dialetti e metriche, punchlines e vissuto, creando un banger iconico che unisce le piazze di Napoli e Tirana, due mondi paralleli, attraversati dalla stessa urgenza espressiva. Un pezzo che sa di rispetto, lealtà e asfalto, sottolineando la collaborazione tra due culture che si specchiano, si riconoscono e si arricchiscono a vicenda.

    “Archimed (Episode 2)” – L’album

    Con “Archimed (Episode 2)”, Stresi firma un progetto ambizioso e multiculturale che mette in dialogo Mediterraneo, Balcani e America Latina. Un mosaico di linguaggi, estetiche e identità differenti, che conferma la sua volontà di abbattere le barriere geografiche e sancisce l’ambizione di un artista in grado di rinnovarsi senza mai perdere il legame con le proprie radici.

    Tra le otto collaborazioni di rilievo, oltre a quella con Clementino, spicca “Ma Belle” con Aka 7even, artista tra i più amati del panorama pop-urban italiano. Una ballad intrisa di dolcezza e disincanto, cantata in italiano e francese, in un sottile equilibrio di malinconia e identità stilistica. Aka 7even e Stresi trovano una connessione insolita ma efficace, dando vita a un brano inaspettato, che aggiunge nuove sfumature, nuovi colori alla dimensione narrativa del disco.

    Noizy, pioniere della scena rap albanese, apre il concept con “Mama”. Un ingresso frontale, ruvido, che ne chiarisce subito tono e direzione, parlando di verità, difficoltà e riscatto. In un mondo in cui i “veri” sono rari e i “falsi” ovunque, “Mama” mette al centro la lealtà, le difficoltà del quotidiano e la consapevolezza di chi ha imparato a cavarsela da solo perché sa da dove viene.

    Deny K, tra i nomi più affermati del rap colombiano, porta la sua estetica urban-latin in “Aventurera”, intrecciando spagnolo e albanese in un flusso immediato e magnetico. Il risultato è un mix di riferimenti alla Medellín criminale e a un’identità che si muove tra zone grigie, velocità e caos. Stresi si presenta come bandito, mentre Deny K aggiunge un tocco latino e melodico che rende il pezzo visivo e ballabile. “Aventurera” è una corsa tra strade, soldi e libertà precaria: una delle tracce più dinamiche e internazionali dell’album.

    Bay T, celebre artista kosovo-albanese di Mitrovica, si unisce a Stresi in “Kriminal”, un pezzo teso e incalzante che fa da specchio alle contraddizioni delle strade e della società. Il titolo è chiaro, il flow ancora di più. È un brano seduttivo, costruito su immagini sensuali e atmosfere cittadine. Stresi racconta un amore passionale, nato in Albania ma con un respiro internazionale, in un gioco suadente tra inglese e albanese. Bay T firma un ritornello magnetico che conferma la sua attitudine da hitmaker. Una traccia fluida, imprevedibile, in cui il crimine è solo quello del cuore.

    In “Marihuana”, Lumi B – storico membro del collettivo KAOS – e Flor Bana – artista albanese noto per la sua penna viscerale – affiancano Stresi in un banger a tratti visionario, che alterna crudo realismo e immagini rarefatte. L’attitudine street è chiara e dichiarata fin dal primo verso: «Nuk jom VIP i estradës, po VIP i mahallës» («Non sono un VIP dello showbiz, ma della mia strada»). Lumi B e Flor Bana accompagnano Stresi in una traccia che parla di rispetto vero, quello guadagnato fuori dai riflettori. “Marihuana” è un titolo provocatorio, ma il senso è evidente: ciò che conta è la credibilità nei quartieri, non quella patinata.

    Internacional” riflette l’anima transnazionale del progetto. Con Nido, producer e musicista albanese, e di nuovo Flor Bana, Stresi firma una traccia che attraversa lingue e ritmi, fondendo influenze latine, mediterranee e urban in un’architettura sonora che abbatte ogni confine. Una canzone che racconta il viaggio di un’identità in movimento, capace di abbattere barriere culturali con il linguaggio universale della musica.

    2Ton, con oltre un miliardo di visualizzazioni su YouTube, porta il suo carisma in “Kallabllak”, termine che in albanese indica una “folla”, “affollato”. E il brano è esattamente questo: un club banger in piena regola, pensato per incendiare il dancefloor.

    L’album si chiude con quattro tracce completamente firmate da Stresi: “Ajo” (in italiano “Lei”), un brano intimo, che si rivolge a una figura femminile amata e lontana, in cui melanconia e rispetto sono in perfetto equilibrio; “Autobiografia”, che, come suggerisce il titolo, è una lettera a cuore aperto, una confessione. Stresi si racconta, tra vittorie e cicatrici; “Sa T’kam Dasht” (in italiano “Quanto ti ho amato”), una riflessione sul passato, su un amore ormai finito. Un testo che scava nella nostalgia, senza indulgere nella retorica; e “Sta Fali” (in italiano “Ti perdono”), un brano secco e consapevole, dove il perdono non è una resa, ma la scelta lucida di chi decide di chiudere i conti senza rinunciare a se stesso. Un poker finale che restituisce la voce dell’artista in forma pura, senza filtri né featuring. Qui il racconto si fa soffuso, riflessivo, diretto. È la parte più personale del disco, dove Stresi si prende tutto il tempo e lo spazio per essere semplicemente se stesso.

    “Archimed (Episode 2)” parla a più scene, unendo realtà apparentemente lontane, ma attraversate dallo stesso bisogno di espressione. È un album intriso di identità, appartenenza, dialogo. Un lavoro che guarda all’Italia con consapevolezza e volontà di radicarsi.

    L’Albania si conferma così un mercato musicale in forte espansione, e Stresi uno dei suoi protagonisti più credibili anche fuori dai confini nazionali. Techpro Records, label capitolina che ha cresciuto tante generazioni di artisti occupandosi con cura dei loro progetti e della loro immagine, si posiziona come ponte tra Roma e Tirana, tra Sud e Est, tra strada e cultura. Al centro di tutto, c’è la voce di Stresi: diretta, vera, internazionale.

    Stresi è il baricentro di un disco che oscilla tra confessione e denuncia, romanticismo e concretezza. Un artista capace di esporsi, raccontarsi, stare nella verità delle sue parole. Un artista che sa dove stare, cosa dire e come dirlo. Senza filtri. Senza maschere. Con consapevolezza. E una voce che non chiede spazio: se lo prende.

    “Archimed (Episode 2)” – Tracklist:

    1. Mama (feat. Noizy)
    2. Aventurera (feat. Deny K)
    3. Kriminal (feat. Bay T)
    4. Marihuana (feat. Lumi B & Flor Bana)
    5. Internacional (feat. Nido & Flor Bana)
    6. Ma Belle (feat. Aka 7even)
    7. Napoli Tirana (feat. Clementino)
    8. Kallabllak (feat. 2Ton)
    9. Ajo
    10. Autobiografia
    11. Sa T’kam Dasht
    12. Sta Fali

  • Lara Serrano e la parola che salva: “Parole Sciolte”, il suo primo album

    C’è una generazione che per ritrovare se stessa ha iniziato a cantare a bassa voce. Lara Serrano lo fa da anni, e oggi quella voce si raccoglie in “Parole Sciolte”, l’album d’esordio della cantautrice genovese classe 1998. Dopo una serie di brani pubblicati, tra cui “Follia” e “Tra il dejavu e l’amnesia”, Lara torna con un progetto che conferma la direzione della sua scrittura consapevole, e la capacità di dare un senso a ciò che spesso resta sullo sfondo senza indulgere nella retorica, raccontando ciò che solitamente si tace, con un linguaggio che non cerca protezione né alibi.

    Concepito come un lungo dialogo – a tratti clinico, a tratti lirico – tra sé e la propria memoria, “Parole Sciolte” è insieme cronaca e testimonianza sincera di chi ha imparato a sopravvivere ai giorni storti scrivendo tutto quello che non riusciva a dire. Tra versi che sembrano appunti terapeutici e immagini che somigliano a fotogrammi sfocati ma essenziali, necessari per capire dove si è passati, l’album si snoda tra dolorose evidenze e piccole rivoluzioni quotidiane, tenendo sempre al centro la parola come atto liberatorio.

    «Ho iniziato a scrivere perché non riuscivo a parlarmi. O almeno, non in modo diretto – spiega l’artista -. Questo disco nasce dalla necessità di restare viva anche quando tutto il resto cadeva. È il mio modo per mettere in fila i “Fra(m)”menti, citando un brano del disco -, per cercare connessioni anche dove sembrano impossibili.»

    Otto tracce, nessun riempitivo. “Parole Sciolte” è un disco compatto, coerente, curato fin nei minimi dettagli. Un progetto che si ascolta come un flusso di coscienza, disordinato solo in apparenza, perché ogni strofa rappresenta una svolta narrativa.

    Nel brano d’apertura, “Intro”, Lara si affida a una domanda che incornicia e attraversa tutto il progetto: «Mi posso fidare della versione delle tre delle persone o no?». Una frase che resta addosso, come uno di quei pensieri che tornano nei momenti in cui il silenzio fa più rumore. Ed è proprio lì che prende forma l’album: in quel punto sospeso tra chi eravamo e chi stiamo ancora cercando di diventare. È uno sguardo consapevole, forse stanco, a tratti inquieto, ma sempre vivo. È lo sguardo di chi scrive per non perdersi. Non è arrendevole. Non è amaro. Non è cinico. È uno sguardo che prova a fare ordine, senza fingere che sia tutto a posto.

    Nella title track “Parole Sciolte”, quello stesso sguardo si traduce in immagini che non hanno bisogno di spiegazioni: «Siamo il quadro più bello ma senza cornice, quasi quasi mollo tutto e poi divento felice». È un modo per dichiarare che, a volte, mollare non significa arrendersi, ma scegliersi.

    In “Iride”, l’amore viene raccontato come ciò che resta «quando i sogni d’odio sono in bianco e nero», mentre “Nuvole e Paranoia”, che è forse la traccia più cinematografica del concept, il linguaggio si muove tra citazioni figurative e registri diversi, accostando Hayez e Goya, che convivono nella stessa strofa, con una naturalezza spiazzante. «Sto come a un concerto ma in testa ho un teatro, metto insieme respiri per poi rompere il fiato». Un brano che alterna scenari familiari, ritmi ordinari e richiami culturali, tenendo insieme caos ed equilibrio, gesto e pensiero, con chirurgica precisione.

    Non manca una riflessione sui legami che aiutano a rimettere insieme i pezzi, anche solo per un momento. In “Palchi più Alti”, Lara dedica il brano a chi, pur sentendosi piccolo tra giganti, riesce a ritrovarsi in un applauso. È una dichiarazione d’affetto senza retorica, fatta di immagini leggere e immediate – «far castelli di lenzuola», «portare l’estate» – che raccontano la bellezza di chi sa essere rifugio. In “Fra(m)menti”, invece, la scrittura si fa più intima e scomposta. Il titolo stesso suggerisce una doppia lettura – “frammenti” e “fra menti” – che apre a un discorso sull’identità e sul pensiero che non si allinea, che inciampa, si perde, si confonde. Un brano che fa percepire il senso di smarrimento, identitario e mentale, che percorre il testo. Lara disegna un “quadro clinico” con le parole, raccontando il disallineamento tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, tra domande senza risposte e pensieri che sfuggono. «Mi sono persa fra menti, inciampo nei fili logici»: un flusso che intreccia autoironia, dolore, e la consapevolezza di non avere più un vero colloquio con se stessa. È il brano più vertiginoso del disco, quello in cui la confusione diventa il linguaggio principale e l’identità si scompone senza perdere la propria urgenza.

    L’album si chiude con “*Outro”, una lettera senza indirizzo che fa da testamento, resoconto, bilancio lucido, necessario, dove Lara canta: «E chiedo scusa a me stessa se ho una laurea in giurisprudenza, ma è solo dalla musica che aspetto sentenza». Una chiusura asciutta e diretta, che riprende lo stile viscerale che accompagna tutto il progetto.

    «Non scrivo per insegnare niente a nessuno. Scrivo perché è l’unico modo che ho per restare ferma mentre tutto intorno si muove troppo in fretta – conclude Lara -. Questo disco è fatto di cose che non ho mai saputo dire ad alta voce, ma che non potevo più tenere dentro. E anche se non so dove mi porterà, so che doveva uscire esattamente così.»

    “Parole Sciolte” è un album che non chiede approvazione, ma attenzione. Non cerca risposte facili, né soluzioni preconfezionate. È un lavoro che sceglie la strada più difficile: quella dell’ascolto impegnato. Tra sogni storti, immagini oblique e domande lasciate a metà, Lara Serrano disegna un percorso narrativo compatto, inevitabile, e fortemente coerente con il tempo in cui è nato.

    Non per dimostrare qualcosa, ma per dirsi: “questa parte di me esiste, e ha avuto il coraggio di farsi sentire.”

    “Parole Sciolte” – Tracklist:

    1. Intro
    2. Parole Sciolte
    3. Iride
    4. Nuvole e Paranoia
    5. Tra il Dejavu e l’Amnesia
    6. Palchi più Alti
    7. Fra(m)menti
    8. Outro

  • Giuseppe Campagnani tra i candidati al Tenco con un album che sfugge le formule

    C’è un tempo per curare gli altri e uno per provare a guarire se stessi. Giuseppe Campagnani, classe 1994, lo sa bene. La sua “Nuova Vita” – che dà anche il titolo al suo disco d’esordio – comincia nei luoghi meno rumorosi: una sala d’attesa, un pianoforte, un taccuino. Non cerca i riflettori. Ma c’è qualcosa – nel suo modo di scrivere, di raccontare, di non affrettarsi – che ha cominciato a farsi notare. L’album, in uscita il 30 maggio 2025, è entrato tra i candidati alla Targa Tenco 2025 nella sezione Opera Prima.

    Un esordio in punta di piedi, ma dalle fondamenta solide: Campagnani arriva alla musica con un approccio colto e personale, maturato nel tempo. Laureato in Medicina, iscritto al Conservatorio di Cagliari, ha scelto di costruire il proprio progetto in autonomia, con il supporto dell’arrangiatore russo Anton Mikhailov. Il risultato è un disco introspettivo e artigianale, capace di intercettare la grande tradizione cantautorale italiana e fonderla ad elementi di musica classica, con la sensibilità di un’autorialità contemporanea che non ha fretta di stupire. Un percorso atipico, fuori dal circuito, fuori dagli algoritmi. Eppure, in queste nove tracce, c’è più attualità che in molti dischi “di tendenza”. Non solo nei temi – la nostalgia, le relazioni, il desiderio di ripartire da sé – ma nel modo in cui vengono trattati: con pudore, consapevolezza, distanza dalle formule.

    Il concept si sviluppa come un viaggio. Non come astrazione retorica, ma come dato di fatto: l’attesa, il perdono, la capacità di lasciar andare, la decisione di restare.

    Già dal brano apripista “Il Treno”, primo singolo dell’album, si avverte il respiro intimo della scrittura: «La vita scorre senza sosta come un treno senza freni». Una traccia che parla del tempo che scorre e sembra sfuggirci, ma che, nel suo inesorabile procedere, riserva attimi di meraviglia. Perché c’è chi viaggia in prima classe e chi resta nelle file abbandonate. Ma c’è anche chi – pur nell’oscurità – smette di guardare fuori e inizia a guardarsi dentro.

    Quella dell’artista, è una scrittura che vive nel suo tempo, personale, ma capace di parlare a tutti. È figlia di una poetica fatta di slittamenti lievi e punti fermi.

    In “Cadono le stelle”, i ricordi diventano astri in discesa libera e la malinconia un prato su cui ci si adagia volentieri, trovando conforto nell’osservarli da lontano, come se il dolore fosse un posto in cui sostare, per contemplarli ancora un po’.

    “Non è andata così” sfiora la disillusione senza scivolare nella retorica o nell’autocommiserazione, con una delicatezza mai evasiva. È una fuga momentanea, il tentativo di rimanere aggrappati, vicini a ciò che si è perso. Ma il ritorno è inevitabile, e necessario. La canzone parla chiaramente di un amore finito, del desiderio di riscrivere il finale, e del tentativo – profondamente umano – di trovare una speranza anche nel fallimento. L’espressione «questa volta sarà diverso», rappresenta quel bisogno di crederci ancora, nonostante tutto. Ed è in questo tipo di sincerità disarmata che l’ascoltatore riconosce non solo un valore raro, ma anche qualcosa che manca altrove.

    C’è poi “Dammi la mano”, una fuga a due cuori e quattro mani «da un mondo imperfetto» e, forse, l’unico antidoto all’individualismo sfrenato e all’indifferenza dell’oggi – «saremo al riparo da ingiustizie sleali, da egoismi cordiali» -. In tempi segnati da solitudini strutturali e inutili retoriche, Campagnani afferma qualcosa di semplice ma dirompente: la felicità non è una conquista individuale.

    In “In Viaggio”, due compagni percorrono una strada senza arrivo, condividendo segreti sotto cieli stellati. È un brano che mette al centro il tempo presente, l’importanza del momento vissuto: «Ogni giorno un’avventura, una storia da raccontare». Il viaggio non è solo tema, ma linguaggio: ciascuna strofa è una tappa, ogni pausa una possibilità. Un racconto che richiama l’infanzia del mondo, e forse anche quella dell’Io.

    “L’Arcobaleno” è una presenza silenziosa. È la delicatezza di chi resta accanto, nei giorni grigi, senza chiedere nulla in cambio: «E nei tuoi giorni grigi, io sarò accanto a te per consolarti». Una ballata essenziale, in cui l’affetto si manifesta nei piccoli gesti, nei dettagli che non si impongono, ma curano. Come un arcobaleno che spunta dopo la pioggia, la canzone ci ricorda che a volte basta esserci per fare la differenza.

    In “Guarda Avanti”, Campagnani chiede di non voltarci, di non cedere. È un incoraggiamento sussurrato: «Io sarò lì, di’ solo una parola». Una promessa silenziosa rivolta a chi vacilla, a chi ha bisogno solo di un segnale per ripartire. Tra labirinti e albe che si intravedono, il brano assume un valore particolare oggi, nel tempo dell’incertezza permanente, invitandoci a resistere, a proseguire, anche quando sembra più semplice fermarsi.

    “Perdonerai” è il punto di maggiore sottrazione. Poche parole, molte ellissi: «Parole consumate che non serve usare più». La canzone agisce per levare, non per aggiungere. Campagnani canta la il dolore che accompagna una rottura e la speranza di un perdono reciproco declinato al futuro. E, proprio per questo, fosse impossibile da raggiungere. Un brano che nasce dal bisogno di comprendersi, di riconoscersi: non ci sono recriminazioni, né salvatori. Solo due sguardi che si cercano, anche se in ritardo.

    E infine, la title track “Nuova Vita”. Una rinascita che arriva sottovoce, dopo un tempo buio, con immagini naturali e simboliche: «La natura si risveglia e si espande intorno a noi. I dolori del passato sembrano svanire ormai». È un brano sulla forza silente ma impetuosa della vita che ricomincia, a prescindere da quanto sia stata forte la tempesta del giorno prima. Non è redenzione, è tregua. E, a volte, basta.

    «Questo disco è nato in una fase di transizione della mia vita – dichiara Campagnani -. Ho sempre scritto canzoni, ma non ho mai pensato che avrebbero visto davvero la luce. Poi ho capito che le cose più fragili sono anche quelle che vale la pena condividere. Lavorare su “Nuova Vita” è stato un modo per fermarmi, fare ordine, e ritrovare una direzione. Anche se imperfetta, è mia. E mi somiglia.»

    Il disco si muove per immagini, atmosfere, dettagli. Ogni brano conserva una sua autonomia narrativa, ma fa parte di un disegno più ampio, in cui il tempo della vita coincide con il tempo dell’ascolto.

    La candidatura alla Targa Tenco non è solo una tappa simbolica: inserisce “Nuova Vita” in un contesto culturale che ha sempre riconosciuto alla parola cantata il potere di incidere nel pensiero comune, di non essere solo forma, ma contenuto vivo, capace di interrogare il presente e attraversare coscienze, tempi, domande. Tra burnout generalizzato, estetiche forzate e storytelling costruiti, un disco che parla di cura, discrezione e scelta interiore ha un impatto più rilevante di quanto si possa immaginare. Perché se è vero che la musica può salvare, come si dice spesso, “Nuova Vita” non lo afferma deliberatamente: lo suggerisce, lo lascia emergere tra le righe. E questo è uno dei suoi meriti maggiori.

    L’album è nato senza pressioni, tra le stanze della cura e quelle dell’introspezione, seguendo un tempo lento, più vicino alla scrittura che alla produzione. Ma a renderlo speciale non è la geografia della produzione. È la voce – sommessa, ma ferma – di chi non ha urgenza di piacere. Solo urgenza di comunicare, di esprimersi.

    È un disco che non rincorre le playlist: nessun ritmo forzato, nessun ritornello studiato per TikTok, nessuna estetica algoritmica. “Nuova Vita” sceglie un’altra strada: rallenta. Si prende il tempo di dire bene quello che ha da dire.

    Campagnani non parla di sé per cercare approvazione. Parla di sé per parlare con l’altro.

    «Non cerco una platea, ma un ascolto. Anche solo uno. Ma vero», conclude.

    E forse è proprio questo che rende il progetto così credibile. Non si può falsificare ciò che nasce da un’urgenza sincera. Ciò che ci somiglia.

    “Nuova Vita” non è – e non vuole essere – solo un bel debutto discografico. È la dimostrazione, la prova tangibile che, ancora oggi, si può fare canzone d’autore senza essere nostalgici né conformisti. È la conferma che la parola, se usata con precisione e rispetto, ha ancora un peso.

    Oggi, dove la musica viene spesso usata per dimenticare, Campagnani la usa per ricordare. Per fare ordine. Per ricominciare.

    “Nuova Vita” – Tracklist:

    1. Il Treno
    2. Cadono stelle
    3. Dammi la mano
    4. In Viaggio
    5. Non è andata così
    6. L’arcobaleno
    7. Guarda avanti
    8. Perdonerai
    9. Nuova Vita

  • I LUMIED sfidano l’algoritmo con un brano che invita a guardarsi dentro

    C’è chi corre per arrivare primo. Chi per stare al passo. E poi c’è chi si ferma, si guarda dentro e sceglie di non rincorrere nessuno. Di non uniformarsi. Di camminare, e arrivare intero. Con il nuovo singolo “Fuori Tempo”, i LUMIED riflettono sul diritto di non adeguarsi, di scegliere un ritmo personale, libero dalle aspettative esterne.

    Costruito su un impianto pop impreziosito da venature funky, il brano mette a fuoco una delle fragilità più condivise dalla Gen Z e dai Millennials: sentirsi disallineati rispetto al tempo degli altri. Un senso di inadeguatezza che è cresciuto in parallelo all’affermarsi di modelli identici, algoritmi omologanti e velocità non sostenibili.

    Secondo uno studio pubblicato dall’American Psychological Association, il 91% dei giovani tra i 18 e i 29 anni sente la pressione di raggiungere traguardi prestabiliti entro determinate età. Un numero che racconta molto più di una generazione insicura: racconta un mondo che ha dimenticato l’importanza di ascoltare il proprio tempo.

    Il testo è esplicito sin dai primi versi: «Non sarò un clone, non diventerò un doppione, seguo il mio cuore e nessuna convenzione». In queste parole c’è il rifiuto netto di una traiettoria disegnata da altre mani, di modelli preconfezionati, di schemi standardizzati, di aspettative silenziose che condizionano le scelte personali. “Fuori Tempo” è una risposta, e anche un’alternativa: quella di scegliere il proprio ritmo e riconoscersi nelle proprie unicità. Non è solo opposizione: è la scelta consapevole di un’identità costruita per sottrazione, più che per adesione.

    E quando Luana canta: «Vivo sempre fuori tempo, non so quello che c’ho dentro, ora questo è il mio momento, tiro fuori il mio talento», la voce si fa intima, quasi diaristica. Qui non troviamo resistenza, ma ricerca: il tempo “fuori” è lo spazio in cui provare a capirsi, più che dimostrarsi. Una presa di posizione sottile, ma determinata. E per questo urgente.

    «Non sarò un clone, non diventerò un doppione, seguo il mio cuore e nessuna convenzione»: qui la scrittura trova un raro equilibrio tra immediatezza e chiarezza. È un verso che non alza la voce, ma non indietreggia. Parla di scelte, non di slogan. Il tema ritorna nel ritornello: «Sono fuori tempo ma, ma chi l’ha detto?». Una domanda semplice, che smonta la pretesa che esista un tempo giusto per tutti. Con una leggerezza che non toglie significato. Lo amplifica.

    «Abbiamo scritto questa canzone per tutte le persone che si sono sentite fuori posto, fuori fase, “fuori tempo” almeno una volta nella vita – raccontano i LUMIED –. Per chi non ha ancora realizzato tutto quello che ci si aspettava da lui, per chi ha cambiato strada, per chi ha dubitato di sé, per chi non ha paura di essere diverso. Pensiamo che l’identità sia un percorso, non un’etichetta: e questo brano ne è la colonna sonora.»

    La produzione resta fedele al senso del brano: niente virtuosismi, ma un andamento solido, che tiene insieme movimento e spazio. Il groove funky lascia respirare le parole, mentre l’arrangiamento cresce senza fretta, fino al bridge: «Come il mare quando sale. Sei selvaggio, non ti fai domare».

    Il finale non esplode, ma si compatta in una formula che sembra quasi trattenere il battito: «Fuori schema, fuori tempo».

    “Fuori Tempo” è uno strumento per danzare al proprio ritmo, per rivendicare il diritto di non dover giustificare il proprio passo. In un sistema che ci vuole competitivi, veloci, sempre performanti, il trio crea un controtempo musicale e simbolico che diventa un margine di libertà. Senza sensi di colpa per le deviazioni, le pause, le sbordature.

    «Abbiamo sentito il bisogno di fermarci e dirci la verità: non siamo macchine da risultati – concludono i LUMIED -. Ognuno ha il suo passo, e anche quando sembra che tutti stiano correndo più di te, forse stai semplicemente camminando nella direzione giusta.»

    Dopo il plauso della critica per i singoli “Samurai” e “Hawaii“, i LUMIED proseguono un percorso coerente, fatto di canzoni che tengono insieme la realtà e il modo in cui, consapevolmente o meno, si sceglie di affrontarla. Anche “Fuori Tempo” non cerca scorciatoie: osserva, registra, prende nota di qualcosa che riguarda molte più persone di quanto sembri.

    È un brano che parla a tutti perché non fa sconti alla retorica generazionale. Ed è proprio per questo può arrivare anche in chi, a qualsiasi età, ha sentito il bisogno di rallentare e proseguire ad un’andatura diversa.

    Il trio sarà presto in tour con date estive in fase di definizione, e “Fuori Tempo” sarà al centro della scaletta.

    Perché la libertà, oggi, potrebbe iniziare proprio da una scelta controcorrente: non arrivare primi, ma arrivare interi.

  • “Watch Me Now” è l’EP di debutto di Bennyvi. Musica che osserva, prima di parlare

    Un gelato che si scioglie al sole, un amore che si consuma tra giochi di potere, il bisogno di essere visti senza filtri: sei tracce che definiscono il perimetro sonoro del primo EP di Bennyvi, “Watch Me Now” (Delma Jag Records). Un disco che inquadra il tempo in cui viviamo attraverso uno sguardo obliquo ma lucido, diretto ma attento, quello di chi non ha paura di vedere troppo né di raccontarlo senza concessioni. Una raccolta essenziale di ciò che non ha più intenzione di tacere, scritta con la sensibilità di chi osserva prima di parlare.

    La giovane cantautrice ticinese di origini venete, già apprezzata dalla stampa italiana ed europea con i singoli “Gemini” e “I Know What You Are”, prende posizione con un progetto in cui coesistono maturità precoce e urgenza di trovare un proprio spazio, in un tempo che premia l’omologazione e spinge ad aderire a modelli prefabbricati. “Watch Me Now” è il suo primo atto discografico: una presa di parola, non una posa.

    “Watch Me Now” è un diario musicale da sfogliare, un’istantanea che coglie un diverso frammento di vita, attraversando sonorità pop, indie ed elettroniche. L’EP si apre con “Gemini”, che si misura con la doppiezza e la manipolazione nelle relazioni, e si chiude con “Bla Bla Baby”, ritratto ironico della frenesia comunicativa contemporanea. In mezzo, intuizioni, disillusioni e una ricerca ostinata di leggerezza.

    Con “Like Gelato”, focus track del disco, Bennyvi inaugura l’estate con una traccia luminosa e immediata che invita a rallentare, a godersi l’istante e a riscoprire il valore delle piccole cose. Un bisogno confermato da uno studio internazionale del 2024 condotto da YouGov, che evidenzia come oltre il 62% dei giovani europei senta la necessità di “staccare” dalla pressione sociale e digitale per riconnettersi a una dimensione più semplice e reale.

    «Scrivere e registrare “Watch Me Now” è stato come raccogliere le pagine più significative del mio percorso fin qui – racconta Bennyvi -. Ogni brano nasce da qualcosa che mi ha smosso dentro, che meritava di essere detto. Non è perfetto, non vuole esserlo. Vuole essere vero.»

    Il 23 maggio, in concomitanza con l’uscita dell’EP, Bennyvi ha presentato “Watch Me Now” in un concerto speciale allo Studio Foce di Lugano, accompagnata da un ospite d’eccezione: la cantautrice e co-autrice Skyler Wind. Un debutto live che ha aperto il dialogo con una scena pop europea sempre più attenta alla scrittura e alla verità del racconto.

    «Non volevo nascondermi dietro maschere o cliché – conclude l’artista -: “Watch Me Now” è il mio modo di dire che sono qui, così come sono.»

    Niente filtri, niente sovrastrutture: Bennyvi parte da ciò che conosce meglio, il quotidiano, e lo mette in musica. Un approccio che intercetta un bisogno crescente, rilevato da diverse ricerche, di nuovi sguardi che illuminano zone lasciate ai margini, senza mediazioni. Nuovi punti di riferimento culturali e identitari, mentre si moltiplicano le domande su cosa significhi appartenere, riconoscersi, prendere posizione.

    In una scena in cui sempre più artisti scelgono di sottrarsi alle logiche algoritmiche, cercando nuovi linguaggi fuori dagli schemi e dai trend, “Watch Me Now” si inserisce in una corrente che privilegia la narrazione personale, diretta e sincera come chiave di relazione con gli altri. Il lavoro di Bennyvi si avvicina a quello di una nuova ondata di cantautrici europee che usano la musica per restituire una lettura critica e intima del presente, come ad esempio la tedesca Paula Hartmann o la francese November Ultra, con cui condivide l’attenzione ai dettagli e alla dimensione interiore non filtrata.

    “Watch Me Now” è il punto da cui Bennyvi sceglie di esporsi, senza retorica e senza paura di mostrarsi nella sua interezza. Un gesto semplice, eppure raro. Il resto, è tutto da scrivere.

    “Watch Me Now” – Tracklist:

    1.Gemini
    2. Know What You Are
    3. People Like You
    4. Like Gelato
    5. That’s Fine
    6. Bla Bla Baby

  • “TUTTIQUESTIPERCHÉ”: DEIRA dà voce a chi si sente fuori posto

    Ci sono domande che non facciamo mai ad alta voce. Non perché non contino, ma perché ci tengono svegli la notte. “Perché corro sempre? Perché non riesco a stare nel presente? Perché invecchiamo? Perché rovinare tutto quando sembra andare bene?”. Domande che non pretendono risposte, ma che definiscono una generazione che fatica a concedersi pace. Da qui nasce “TUTTIQUESTIPERCHÉ”, il nuovo singolo di DEIRA, disponibile dal 23 maggio per Delma Jag Records in co-produzione con Firstline Production.

    Un brano che non parla di amori perduti o rivalse, ma di qualcosa di più personale e disarmante: il modo in cui ci sabotiamo quando vorremmo solo vivere in pace con chi siamo.

    A precedere questa uscita, un percorso in costante definizione: dalla semifinale romana del contest I Visionatici, dove ha ottenuto la collaborazione con l’etichetta svizzera Delma Jag Records, fino alla doppia sincronizzazione nella celebre serie statunitense The Kardashians di “Lividi di gioia” e “Un Segnale dal Cielo”. DEIRA ha attirato l’attenzione per una scrittura che scava, che affonda nelle contraddizioni personali senza compiacimento, e per un’estetica scarna e diretta, priva di effetti.

    “TUTTIQUESTIPERCHÉ” racconta il momento in cui smettiamo di aspettarci che siano gli altri a sistemarci, e iniziamo, con fatica, a prenderci in carico.

    «Le lacrime ti scendono ma le puoi asciugare solo tu.»

    Non c’è volontà di insegnare, né di spiegare. Solo il tentativo di restare dentro a quei pensieri che di solito lasciamo passare in silenzio, quelli che ci assediano e che, troppo spesso, teniamo sotto pelle.

    A dirlo è la stessa DEIRA, con parole semplici, senza difese:

    «Questa canzone parla di tutte le volte in cui non riusciamo a volerci bene. Quelle in cui ci sabotiamo senza nemmeno accorgercene. E se invece imparassimo ad avere più fiducia in noi stessi? Se smettessimo di giudicarci con tanta durezza? Forse la vita sarebbe più leggera, e potremmo sentirci liberi anche quando sbagliamo. Questa canzone è nata così: come un modo per darmi una possibilità. Per non restare fuori da me stessa.»

    Nel testo si rincorrono destabilizzazione, smarrimento e tentativi di restare in piedi. Le parole non spiegano, registrano. Sembrano scritte per ricordarsi che si può sbagliare senza dover chiedere scusa. Versi che arrivano come appunti lasciati a metà, raccolti in un momento in cui tutto sembra immobile – «Sai che davvero non mi importa se mi perdo un’altra volta. Sai, rinasco anche stavolta.» -.

    È la presa d’atto che a volte si cade, e basta; che la caduta non è sempre un disastro: a volte è solo il passaggio obbligato per imparare a tenersi in piedi senza chiedere il permesso. E che da lì, comunque, si può ripartire.

    Con “TUTTIQUESTIPERCHÉ”, DEIRA consolida una cifra stilistica riconoscibile e personale, che sfugge alle categorie di genere. La sua scrittura si muove con disinvoltura tra indie-pop, elettronica minimale e forma diaristica, senza mai sembrare in posa.

    Classe 1999, vicentina, DEIRA, all’anagrafe Erica Meneguzzo, ha scelto la scrittura come modo per restare. Per rimanere presente, anche quando il presente sfugge. Dal palco del Noise Wave Festival a quello del Reset Festival – Glocal Sound, passando per le finali regionali di Arezzo Wave e le aperture a Chiamamifaro, il suo percorso non cerca la vetrina, ma un senso. Non segue strategie, ma necessità.

    Con l’esposizione internazionale ottenuta grazie all’inserimento di due suoi brani nella serie The Kardashians, DEIRA non ha cambiato se stessa, né la sua direzione, che resta essenziale, tagliente, intima, senza concessioni.

    Non per spiegarsi. Ma per provare, ancora una volta, a restare dentro le cose. Anche quando fanno male. Anche quando sembrano troppo grandi.

    La sua scrittura fatta di contrasti, e una presenza scenica spiazzante nella sua semplicità, le permettono di costruire, passo dopo passo, una traiettoria coerente, libera da definizioni, mossa da un’unica urgenza: fare pace con se stessa. Anche solo per un attimo. Anche solo attraverso una canzone.

  • “Where’d You Go Someday”: una ballata rock che chiede conto al nostro silenzio

    «Il coraggio è l’impronta delle paure». C’è una generazione che ha smesso di reagire. Che abbassa lo sguardo, anche quando a crollare sono i diritti, anche quando a pagarne il prezzo sono i figli. È da questa crepa nel tessuto sociale che parte “Where’d You Go Someday”, il nuovo singolo di Piero Campi, cantautore tarantino d’adozione fiorentina e da anni parte attiva della scena bolognese. Un brano ruvido, diretto, costruito su un sound rock asciutto e internazionale, prodotto e suonato al basso da Marco Schnabl (Think Ahead Studio) con la collaborazione del producer statunitense Analog Tears (Diego Carlo Magno, da Seattle) che ha curato le chitarre e di Andrea Rizzi alla batteria.

    Dopo l’album d’esordio “Tutto Tace”, il cantautore pugliese rompe il silenzio, chiedendo un nuovo sguardo sul presente. Un presente in cui l’indignazione si è fatta sussurro e la ribellione una posa estetica. Campi rimette al centro una domanda scomoda: che fine ha fatto il coraggio? E lo fa con una scrittura che non cerca scorciatoie, ma affonda nei paradossi dei giorni nostri:

    «Parlano di rivoluzione, ma si è fermi come coglioni!»

    In poche righe, una fotografia lucida e spietata. “Where’d You Go Someday” si nutre di contraddizioni, denunciando una generazione in bilico tra memoria e stallo, tra la voglia di cambiare e la paura di fallire ancora. Senza proclami, ma con onesta concretezza.

    «Non volevo un brano che consolasse – spiega l’artista -. Ho scritto questo pezzo in un momento in cui mi sembrava che tutto stesse scivolando nel silenzio: le proteste, i diritti, la coscienza civile. Mi sono chiesto se anche io stessi iniziando a far parte di quel silenzio. È da lì che è nata questa canzone.»

    Una denuncia, ma anche un esame di coscienza. “Where’d You Go Someday” è attraversato da immagini nette e parole dure, capaci di cogliere un’apatia che si è fatta normalità. Non c’è retorica, ma una richiesta implicita di responsabilità, soprattutto verso chi verrà dopo, nei confronti di «un figlio in attesa di un mondo senza eroi».

    Perché, come spiega lo stesso Campi, «Siamo diventati spettatori anche quando si tratta del futuro dei nostri figli». Un’affermazione che assume i tratti di un monito, in una contemporaneità in cui l’indifferenza sembra prevalere. E se, come recita il verso-mantra della traccia, «il coraggio è l’impronta delle paure», allora questa canzone è il tentativo di non farle dissolvere nell’abitudine, restituendo loro presenza e memoria.

    “Where’d You Go Someday” si inserisce perfettamente in un momento storico segnato da un crescente senso di impotenza generazionale. Secondo un recente studio del Pew Research Center, il 57% dei giovani adulti si dichiara “rassegnato all’idea che le proteste non servano a cambiare nulla”. Dato che si riflette in una cultura in cui la rinuncia ha preso il posto della lotta e in episodi recenti, come la sospensione di 17 studenti a Milano per un’occupazione pacifica di un’ora, o le minacce legali rivolte all’artista Badiucao per le sue opere politicamente provocatorie. In questo contesto, Campi non propone soluzioni, ma prova almeno a riaccendere una coscienza collettiva sopita: «Posso ancora immaginare questo mondo senza odiare».

    Ad accompagnare il brano, il videoclip ufficiale, presentato in anteprima nazionale su Sky TG24 e girato negli spazi scuri e simbolici dell’Ottostudio di Bologna, sotto l’attenta direzione di Cristian Spinelli. Al centro della scena, lo stesso Campi, una figura in controluce attraversata da un fascio di luce. Nessun effetto narrativo, solo un’immagine: quella di una via d’uscita possibile, ma non garantita.

    Un’unica inquadratura, una regia minimale ed emblematica, in cui l’immobilità diventa messaggio: la via d’uscita non è scenografica. È una possibilità. Ma per scorgerla, bisogna alzare lo sguardo, proprio come suggerisce il testo:

    «Basterebbe solo alzare lo sguardo, o almeno provare ad avere il coraggio.»

    Piero Campi nasce a Taranto nel 1982. La musica è da sempre il suo linguaggio privilegiato: dagli esordi con i Dharma, band protagonista della scena pugliese premiata in numerosi festival, fino al percorso solista che lo porta a Bologna. Qui incontra Lucio Dalla, che lo incoraggia a riscrivere partendo da una voce più personale e diretta. Da allora, il suo stile si evolve, tra rock viscerale e una scrittura che non cerca compiacimento, ma verità.

    Nel 2008 il singolo “Parole” entra nei circuiti nazionali di Virgin RadioRadio 105 e Kiss Kiss. Seguono partecipazioni a progetti collettivi, come “Aut – Artisti Uniti per Taranto” contro l’inquinamento ambientale, e diversi riconoscimenti da parte della critica e della stampa.

    «Non cerco eroi, e non mi interessa farmi ascoltare a tutti i costi – conclude -. Ma credo che oggi ci sia bisogno di qualcuno che dica ad alta voce quello che molti pensano. Se anche uno solo si riconosce in questa canzone, per me ha già fatto il suo giro completo.»

    “Where’d You Go Someday” non è un canto di protesta. È un gesto di responsabilità. Non solleva bandiere, ma domande. E nel farlo, ci costringe ad ascoltare ciò che il rumore ha coperto troppo a lungo: il nostro silenzio.

  • Dalla luce delle feste al vuoto improvviso: la cornice malinconica di “Film Romance”

    «All’improvviso, siamo diventati niente». Da questa frase, raccolta durante una conversazione tra amici, prende forma “Film Romance”, il nuovo singolo di Mario Signorile, già conosciuto con lo pseudonimo Mocky. L’artista ha scelto di firmare con il proprio nome, lasciandosi alle spalle un alias che per anni ha accompagnato la sua attività creativa. Una decisione semplice, sobria, ma significativa: dire le cose come stanno, anche in musica.

    “Film Romance” è stato scritto dallo stesso cantautore, attore e regista pugliese in un periodo di apparente festa: le giornate che precedono il Natale. Una stagione di luci, unione e rituali condivisi che, per molti, diventa anche occasione di bilanci, nostalgie, questioni rimaste in sospeso e ferite ancora aperte.

    Proprio su quel contrasto, Signorile realizza un brano che non racconta solo una fine, ma il modo in cui la metabolizziamo mentre ci siamo dentro. Quello che ci diciamo per non vederla arrivare, e quello che ci raccontiamo mentre la viviamo. “Film Romance” parla di come idealizziamo i rapporti, di quanto restiamo legati a un’immagine più che a una persona. E del momento in cui tutto si spegne, senza una scena madre, solo con la domanda: «E ci fa male. O mi fa male?». È la distanza tra le aspettative costruite su modelli idealizzati e la realtà di storie d’amore che, spesso, si sgretolano senza rumore, lasciando solo il peso dei non detti.

    La struttura del brano è dichiaratamente cinematografica: frammenti di quotidianità si intrecciano a citazioni pop – «Come Ted e Robin, come Ross e Rachel» -, componendo un racconto che si muove con naturalezza tra il piano intimo e quello collettivo, tra la playlist personale e l’immaginario condiviso di una generazione cresciuta con le serie TV.  Il videoclip ufficiale, in uscita nei prossimi giorni, rafforza questa dimensione: un protagonista che rivede su videocassetta la propria storia d’amore, mentre lo spettatore scopre che quei ricordi sono proiezioni mentali. Un loop emotivo da cui, a un certo punto, sceglie di uscire.

    «Ho scritto questa canzone in un momento di grande malinconia – spiega l’artista -. Parlando con un’amica, ho sentito il bisogno di mettere in musica quel senso di vuoto improvviso che segue la fine di qualcosa in cui avevi creduto. Mi sembrava assurdo come tutto potesse sparire così, senza un vero epilogo. E invece, ogni addio è un sipario che cala su uno spettacolo che pensavamo infinito.»

    Il testo procede per immagini secche, nitide, taglienti: «Cammino chino ma tu non ci sei, storia antica come i musei». Nessuna concessione alla retorica.

    Verso dopo verso, viene descritto quello che resta: il disorientamento, la fatica di riassorbire l’assenza. Fino all’ultima battuta, che apre una possibilità:

    «E mi ricordo che m’hai insegnato, che dietro il sipario c’è un nuovo spettacolo».

    Quello di Mario Signorile non è un racconto fine a se stesso. “Film Romance” tocca un punto centrale della nostra contemporaneità: l’incapacità diffusa di elaborare la fine di un rapporto senza attribuirle il valore di un fallimento. Oggi, dove le relazioni amorose vengono spesso sovraccaricate di aspettative sociali e narrative, questo brano restituisce dignità anche alla chiusura, ricordando che, proprio come a teatro, dietro ogni finale può esserci un inizio.

    La carriera di Signorile è una sintesi creativa coerente tra musica, regia e scrittura. Dopo il successo delle web serie “Odio il Mio Migliore Amico” e del fan film “The Last of Us Forsaken”, che gli sono valsi diverse candidature e premi nel circuito indipendente, ha esordito nella musica nel 2024 con il singolo “Io“, seguito da “Non ci scotta più” e “Sorriso sulle labbra“. Con “Film Romance”, l’artista affina una scrittura che non rincorre effetti né soluzioni consolatorie, ma sceglie la precisione del dettaglio per fermare in un testo quel punto cieco in cui tutto cambia, senza bisogno di proclami.

    «Nessuna storia d’amore è come nei film – conclude -, eppure tutti ci siamo ritrovati a viverne una come se lo fosse. Questo brano è il mio modo per salutare quella parte di me che ancora si aspettava un finale scritto da altri, e iniziare finalmente a scriverlo con le mie mani.»

    “Film Romance” non è la classica canzone su una storia d’amore giunta al capolinea, ma la fotografia nitida, satura e disincantata del momento preciso in cui ogni rapporto diventa reale: quando il sipario cala e siamo costretti a scrivere da soli il nostro finale. Con questa canzone, Mario Signorile abbandona ogni idealizzazione romantica e riscopre il valore delle storie vere: imperfette, lontane dai copioni televisivi. Perché, dietro ogni addio, c’è sempre una nuova possibilità.