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  • Dopo la separazione, il gesto simbolico di una casa tutta per sé diventa canzone

    Relazioni che logorano fino a svuotare l’identità. L’ISTAT registra un aumento delle separazioni e dei break-up post-pandemia; i social moltiplicano i contenuti su “come uscire da un rapporto tossico”. In questo scenario, si inserisce la storia del cantautore pugliese d’adozione lombarda Melmeat: dopo un anno e mezzo di silenzio e terapia, l’artista sceglie di trasporre in musica il proprio “Ricominciare”, raccontando nel suo nuovo singolo la fine di una relazione che – come canta nel testo – lo «ha solo divorato» e la scelta simbolica di ripartire da una casa tutta per sé.

    Un gesto concreto che, oggi più che mai, parla ai Millennials. Secondo l’Osservatorio Immobiliare Nazionale, negli ultimi cinque anni è cresciuto del 23% il numero di under 40 che acquistano casa vivendo da soli, spesso dopo una separazione. Una tendenza che racconta un cambiamento nei modelli di vita e che trova in “Ricominciare” il suo accompagnamento sonoro ideale: un brano che intreccia vicenda personale e fenomeno sociale, passando dal buio («Fuori è buio, dentro me si gela») alla consapevolezza («Un nuovo mondo invade il mio corpo, pura polvere di felicità, io sospiro la serenità»).

    Dietro il nome Melmeat c’è Emiliano Melcarne, musicista che ha scelto di interrompere ogni attività artistica per oltre un anno, dedicandosi a un percorso di ricostruzione personale. Il testo segue la parabola della rinascita: dalla presa di coscienza di un amore che ha tolto più di quanto abbia dato, fino alla decisione di dire no e ripartire. La chiusura, con «Ho iniziato a dire di no, è la mia svolta, voglio amarmi sempre di più», non è solo conclusione di un brano, ma l’inizio di un nuovo modo di vivere.

    Il messaggio si innesta in un contesto culturale che sta riconoscendo l’importanza della salute mentale e della capacità di stabilire confini sani nelle relazioni. Negli ultimi tre anni, il numero di under 35 che ha intrapreso un percorso di supporto psicologico è cresciuto del 32%. In questo quadro, “Ricominciare” non si limita a raccontare la fine di una relazione amorosa, ma restituisce dignità a un tema spesso ridotto a frasi motivazionali, trasformandolo in testimonianza diretta.

    «Sorridevo all’esterno – dichiara Melmeat -, ma dentro ero fermo. Ho capito che non potevo più affidare la mia vita a qualcun altro. “Ricominciare” è stata la promessa che ho deciso di fare a me stesso: imparare ad amarmi, e se non sai farlo, non vergognarti di chiedere aiuto.»

    Scritto dallo stesso Melmeat a quattro mani con Daniele Piovani e prodotto da Andrea Caldera del North Waves Studio, “Ricominciare” nasce da un anno e mezzo di vissuto e ne porta le sfumature ritmiche: una partenza scura e introspettiva, un centro che apre alla luce, un finale deciso. Arrangiamenti essenziali accompagnano parole che non cercano di abbellire la verità, ma la raccontano così com’è.

    Come il gesto di acquistare una casa solo per sé, il brano è insieme punto d’arrivo e nuovo inizio: un modo per dire che si può perdere molto, ma ritrovare sé stessi non ha prezzo.

    Dopo una relazione che ha prosciugato energie, tempo e identità, Melmeat fissa in una traccia il punto di rottura di un legame che lo ha costretto a mettere in secondo piano sé stesso. Da lì è iniziato un percorso di risalita fatto di scelte piccole ma decisive: rimettere in ordine la propria quotidianità, recuperare passioni accantonate, imparare a dire “no” senza sensi di colpa. Gesti che, una volta sommati, hanno segnato il passaggio dall’immobilità al movimento, dal restare fermi al tornare a camminare nella propria direzione.

    “Ricominciare” si ferma proprio su quella soglia, nel momento esatto in cui il passato è ancora vicino ma non ha più il potere di trattenerci. L’artista racconta di un presente che si sta ricostruendo e di un futuro che non ha fretta di arrivare: perché, ricominciare davvero, non avviene in un colpo solo, ma nel tempo necessario a imparare a (ri)conoscersi e restare fedeli a sé stessi.

  • Roma, 19 ottobre: debutta il format Standing Ovation

    Un ex teatro trasformato in club, un pubblico selezionato – non per esclusività ma per desiderio di partecipazione e ascolto attivi – e un palco pensato per vivere la musica come esperienza totalizzante.

    Nasce così Standing Ovation, il nuovo format musico-sociale che debutta in Italia – dopo il successo dell’anteprima internazionale a Parigi – il 19 ottobre 2025 all’Ellington Club di Roma, con un obiettivo preciso: riportare al centro la qualità artistica e dare spazio a progetti capaci di unire spettacolo e impegno, estetica e messaggio.

    Madrina della serata sarà Gigí – al secolo Giorgia Papasidero -, cantautrice dall’animo italo-francese che ha calcato palchi internazionali da New York a Dubai, portando l’italianità in una dimensione globale. La sua discografia intreccia afro-pop-soul e radici mediterranee, con testi in cui la donna non è vittima, ma guerriera: una presenza forte e autonoma che rivendica il diritto a un linguaggio femminile radicato nel presente e nella libertà d’espressione.

    “Standing Ovation”, presentato da Right Thing Agency, sostiene l’associazione Les Espoirs Féminins, impegnata in progetti educativi e formativi per donne in condizioni di vulnerabilità. Il loro lavoro trasforma il concetto di speranza in percorsi concreti di emancipazione, indipendenza e autonomia. Il legame con il progetto non è formale, ma sostanziale: la voce di Gigí e il messaggio dell’evento raccontano la stessa idea di forza femminile come risposta alle difficoltà sociali e personali che ancora oggi limitano la libertà di molte donne nel mondo. Parte del ricavato sarà devoluto all’associazione, rendendo l’evento un’azione concreta di impegno e solidarietà.

    Ad aprire la serata sarà Rei Jahden, artista internazionale che fonde reggae, afro e spiritualità in una ricerca musicale che attraversa continenti e culture. È lui l’ideatore del format e della sua impronta curatoriale.

    Alla conduzione, l’attore Fabius De Vivo, mentre sul palco una formazione composta da musicisti con esperienze di tournée mondiali (Europa, USA, Africa) renderà l’atmosfera ancora più completa e immersiva.

    «Standing Ovation – dichiara Gigì – nasce dal desiderio di creare uno spazio di eccellenza, in cui la musica non sia soltanto ascoltata ma vissuta in tutte le sue sfumature. È un sogno che diventa realtà: dare voce ad artisti e progetti capaci di mettere insieme raffinatezza, passione e messaggi forti.»

    Il format ha come obiettivo quello di non essere solo una serie di live selezionati, ma un progetto curato nei minimi dettagli che mette al centro l’artista e il suo immaginario. Ogni serata è ideata come un percorso: dalla line-up alla luce, dalla scelta della location alla scaletta, fino alla relazione con il pubblico.

    Il debutto romano è solo la prima tappa. Standing Ovation è pensato per essere itinerante e adattarsi ad altri contesti in Italia e in Europa, mantenendo intatta la sua identità: musica come esperienza sensoriale, consapevole e condivisa.

    Informazioni pratiche:
    Quando: 19 ottobre 2025 – ore 20.30
    Dove: Ellington Club, Via Anassimandro, 15, Roma
    Ingresso su invito o con ticket riservato
    Ticket: €25 (inclusi consumazione + finger food)
    Prenotazione: https://standingovationshow.com/

    Line-up:
    – Opening Act: Rei Jahden
    – Main artist: Gigí
    – Conduce: Fabius De Vivo
    – Accompagnamento: band internazionale

  • “Oltremare (Live Session)”: il colore profondo dell’anima in sei tracce

    Non tutto ha bisogno di essere aggiustato. Nel corso degli anni, forse, abbiamo peccato di perfezionismo, e in un mercato che rincorre costantemente produzioni iper-lavorate e pulizia assoluta del suono, il cantautore e polistrumentista MANUEL sceglie la strada meno spianata, meno veloce e forse la più coraggiosa: pubblicare un EP che resterà per sempre così com’è stato registrato, dal vivo. Nessuna versione in studio, nessuna sovraincisione e qualche sorpresa come l’utilizzo della Loop Station. “Oltremare (Live Session)” è un lavoro scritto e prodotto dallo stesso MANUEL – all’anagrafe Manuel Sanfilippo -, che fissa sei canzoni in un’unica esecuzione: solo voce, chitarra e pianoforte. Ed un video di mezz’ora che le traspone sul piano visivo.

    Siamo diventati bravi a tagliare, velocizzare, levigare, e dove la quotidianità segue sempre più spesso i ritmi di un algoritmo e tutto dura pochi secondi, MANUEL sceglie di rallentare, e di mostrare la musica per com’è realmente, senza aggiunte superflue. Un contenuto lungo, silenzioso, che non che non cerca di imporsi, di mettersi in fila nel traffico di contenuti forzando la mano alla frenesia che ci ha inghiottiti. Ma resta lì, per chi decide di aprire e concedersi il tempo di tornare ad ascoltare. Ad ascoltarsi.

    È difficile fermarsi. Lo è in generale, lo è ancora di più oggi.

    Ogni giorno siamo esposti a migliaia di stimoli visivi, sonori, emotivi. Saltare da un contenuto all’altro è diventata un’abitudine, uno scorrere senza sosta che ci lascia pieni di cose e poveri di presenza.

    C’è un nome per tutto questo: si chiama tecno-overload, o sovraccarico cognitivo, e in certi casi prende anche una forma clinica, denominata Internet Addiction Disorder (IAD). Ma anche senza etichette, la sensazione è familiare a molti: non riusciamo più a stare. Né su una pagina, né dentro una canzone.

    “Oltremare (Live Session)” si oppone a questa corsa. Non con un pensiero nostalgico, ma con un obiettivo di verità: perché certe cose si sentono solo prendendosi il tempo di rimanere in ascolto. In silenzio. E perché rallentare è l’unico modo per capire davvero cosa sta succedendo. Dentro e fuori di noi.

    L’EP segna inoltre la chiusura del percorso “Acoustic Only”, che ha portato MANUEL a sperimentare una dimensione intima e raccolta. Questi sei brani non entreranno nel suo primo album in studio attualmente in preparazione: rimarranno così, fissati in una versione unica e irripetibile. Canzoni nate in anni diversi, mai pubblicate prima, che trovano ora la loro forma definitiva: essenziale, spogliata, radicata nella genuinità del momento.

    L’arrangiamento ridotto a voce, chitarra acustica e pianoforte richiama l’atmosfera, il coinvolgimento e la spontaneità del live: respiri, pause, imperfezioni che diventano linguaggio. Il linguaggio di chi non finge e non maschera, di chi ha scelto di mostrarsi senza protezioni.

    Al fianco di Manuel, il Maestro Matteo Stella, che ha co-firmato gli arrangiamenti e lo accompagna al pianoforte nell’intera sessione.

    Il videoclip intero, ripreso durante le registrazioni del disco e in uscita sul canale YouTube dell’artista il 30 settembre, è stato diretto e filmato da Lorenzo Ilariucci, con la fotografia di Mattia Tomasetti (Foto, Video e Light Design), sound engineering a cura di Stefano Conti e location management di Davide Matera. Un team di esperti che, insieme al fotografo Francesco Genovese che ha realizzato la copertina dell’EP, ha reso il progetto possibile, trasformando un’idea in un contenuto concreto e fruibile. Il risultato è un lavoro che supera il concetto tradizionale di videoclip per diventare un set dal vivo in cui la musica è lasciata libera. Libera di esistere, con la stessa intensità e purezza dell’istante in cui è stata eseguita.

    Temi come l’amore, la natura, il viaggio interiore e la necessità di lasciar andare si intrecciano lungo la scaletta, attraversando sei paesaggi interiori che non chiedono di essere interpretati, ma vissuti.

    «“Oltremare” è tutto ciò che non si vede ma si sente – spiega Manuel -. È il colore del profondo, quello dell’oceano, ma anche dell’anima. È ciò che esiste oltre il visibile, oltre l’amore che finisce, oltre il dolore che resta, oltre i corpi, oltre le parole, oltre ciò che ci siamo detti…E anche oltre ciò che non abbiamo mai avuto il coraggio di dirci. È un viaggio nell’invisibile. È la carica che ti spinge in profondità solo per insegnarti a risalire. È la somma di tutte queste canzoni: un cammino che parte dal dolore ma si apre alla luce, che attraversa la tempesta per tornare a casa. Dove casa non è un luogo…ma una verità: quella che possiamo trovare solo in noi stessi, riappropriandoci del nostro tempo e della capacità di ascoltare e ascoltarci.»

    “Oltremare” è un concept EP che non corre dietro alle regole del mercato: rimane fermo, immobile, come un istante che non si replica. È il silenzio prima del risveglio, il respiro lento dell’anima nel buio. È la soglia del non ancora, il mistero sacro dell’attesa. L’inizio di un viaggio senza mappe, dove il cuore si perde per ritrovarsi, fragile, indomito, vero.

    Qui non si giunge per restare, ma per prepararsi a volare. Perché “Oltremare” è il luogo dove l’anima, con occhi chiusi, impara a vedere.

    A seguire, tracklist e track by track dell’EP.

    “Oltremare (Live Session)” – Tracklist:

    1. Unico
    2. Mare e Terra
    3. Sulla Luna con Me
    4. Soli insieme
    5. My Own Love
    6. Oltre

    “Oltremare (Live Session)” – Track by track:

    Unico”. Manuel si espone, si mette a nudo: ciò che ha vissuto l’ha ferito, ma anche forgiato. Le cicatrici diventano insegnamenti e l’indifferenza verso il giudizio altrui una forma di liberazione. Quando tutti sembrano remare contro, ciò che conta davvero è restare in piedi, rimanendo sé stessi. C’è una determinazione feroce che si evince tra le parole: scegliere il difficile, puntare al bersaglio, abbracciare l’essenza complessa della vita, anche quando nessuno può capire il peso che ci si porta dentro.  Nel silenzio, l’anima si accende. Cammina oltre il visibile, sopra i confini del mondo, cercando un senso che non si misura in logica ma in assoluta presenza nel qui e ora. In questa ricerca, scopre che la sofferenza è stata maestra. Che le ferite hanno inciso vie segrete verso la consapevolezza. C’è una scelta conscia, e al contempo quasi mistica, nel seguire il percorso più arduo: non per orgoglio, ma per desiderio di verità e scoperta.  Anche ciò che è invisibile agli occhi è reale per chi sente; e chi sente davvero, fino in fondo, sa che tutto, anche il dolore, è stato necessario per tornare a sé. Sii come il vento, invita Manuel. Libero, inarrestabile, spirituale. Senza forma, eppure in grado di muovere ogni cosa.

    Mare e Terra”. C’è un amore che non ha bisogno di parole, che vive nello sguardo, nel riflesso di due occhi che si cercano. L’altro non è solo qualcuno da amare, ma un luogo in cui ritrovarsi, riconoscersi, vivere oltre il semplice atto di esistere. Quell’ E mi troverai del testo non è solo una promessa: è la volontà di esserci, con una presenza totale. L’amore qui non è lineare, né tranquillo. È fatto di tempeste e quiete, come la natura stessa. Due esseri che si muovono come nuvole e lampi, che si scontrano e poi si placano, che si cercano anche nella distruzione. Ogni esplosione è seguita da un rinnovamento, ogni bacio è una tregua sacra tra elementi opposti. In questa danza tra caos e tenerezza, nasce una domanda: “Tu credi in me?” É la fede che salva, che tiene salde le radici anche quando passa un tornado. L’identità di coppia si rivela nella natura: l’albero che cambia ma resta sé stesso, l’oceano che urta la roccia ma non si spezza. Così sono i due protagonisti della narrazione: mare e terra, apparentemente inconciliabili, eppure destinati a toccarsi. Nonostante i cambiamenti, nonostante i conflitti, ciò che rimane è l’essenza, la connessione sincera, spirituale e invincibile. Un amore elementale, eterno, come le forze che regolano il mondo.

    Sulla Luna con Me”. C’è una lentezza sacra in questo amore. Il tempo si dilata, il corpo si muove lento, mentre l’anima resta intrappolata nel profumo di chi non c’è più, ma non se n’è mai andato. L’assenza non è vuota, è presenza che echeggia. E la distanza non è solo spazio, è desiderio di elevarsi per sentire ancora. Nel cuore del testo c’è un invito: “Vieni sulla luna con me”. Un richiamo dolce e mistico verso un luogo altro, fuori dalla realtà, dove l’amore non conosce fine, dove il tempo non distrugge, ma conserva. È lì che le anime si sfiorano ancora, si consolano, si ritrovano. È un rifugio celeste, dove perfino il buio smette di fare paura. Il quotidiano, con i suoi dettagli apparentemente banali – un divano, una scultura fatta insieme – diventa sacro. Le mani che si stringono sono simboli vivi di ciò che è stato, e che, in un certo modo, è ancora. L’amore è diventato memoria, arte, presenza tangibile. Eppure, ci sono domande che restano sospese, parole che non trovano risposta, promesse intrecciate come fili invisibili tra due cuori lontani. E poi, quell’atto supremo di verità: spogliarsi delle paure, mostrarsi nudi, completamente autentici. Non solo nel corpo, ma nell’anima. L’amore qui è una dimensione spirituale, fuori dal tempo. È un altrove – la luna – dove l’intimità è pura, dove si assapora l’essere, e non solo lo stare insieme. Dove l’amore è un atto di fede, e il buio diventa luce condivisa. Un invito eterno a raggiungersi, anche se non si è più vicini. Un amore che non chiede di restare sulla Terra, ma di volare — insieme.

    Soli Insieme“. L’assenza dell’altro cambia il volto alle cose: perfino il mare, nella sua immensità, non è più lo stesso. L’anima ferita cerca guarigione proprio lì, dove una volta ha imparato a immergersi — nelle onde, nell’amore, nel ricordo. Come un rituale silenzioso, il protagonista torna all’acqua non per dimenticare, ma per sentire. Per capire se qualcosa, dentro, è ancora vivo. Non c’è più rabbia. Solo cenere, fuliggine: tracce di un incendio che ha lasciato escoriazioni profonde. Eppure, in mezzo a tutto questo, si fa strada la volontà di ritrovare la propria identità, di salire su una barca, leggera come la risata di un bambino e tornare ad essere libero, pirata di un mare che ora naviga da solo… Ma con una nuova energia a muoverlo. C’è poesia nella confusione, tenerezza nella rinuncia. Il corpo è ancora ferito, l’anima cauta. Non è ancora tempo per altri approdi, né per nuovi orizzonti. Il timone è lasciato al vento: segno di fiducia, più che di resa. La tempesta è passata, ma ha lasciato dietro un cuore spoglio, consegnato come offerta. Eppure, in tutto questo, c’è una verità: “Siamo soli, ma insieme”. Una contraddizione solo apparente, perché le anime che si sono amate davvero restano connesse anche nel silenzio, anche nella distanza. C’è una forma di presenza che perdura, come luce riflessa tra due solitudini che si riconoscono. Un amore che non ha bisogno di parole, né di ritorni. Solo di essere ricordato e onorato, nel silenzio condiviso.

    My Own Love”. È la voce di chi ha amato così tanto da perdere sé stesso. L’altro torna, promette di essere cambiato, piange, ha paura.  Ma chi parla non è più lo stesso. E nemmeno chi ascolta. C’è un conflitto acceso e al contempo delicato tra il bisogno di sapere se chi ci troviamo davanti è effettivamente cambiato e la consapevolezza che forse non ci si è mai davvero lasciati. L’amore non è solo affetto: è sacrificio, fusione totale, fino a dimenticare i confini tra un corpo e l’altro. “I’m not leaving yet“: una dichiarazione che non ha niente di razionale. È un atto di fede. “My own love doesn’t belong to myself without you”: questa frase è il centro spirituale del brano. L’amore non è più possesso, ma offerta. Un dono che, una volta fatto, non può essere ritirato. Sotto la malinconia si muove qualcosa di più vivo: il desiderio di vedere, di conoscere davvero chi si è diventati. Di scoprire se, dietro il dolore, esiste ancora uno spazio dove due anime possano incontrarsi: non come un tempo, ma forse più vere, più intere. Anche se il rischio è perdersi di nuovo.

    Oltre”. Un viaggio di coscienza e liberazione, un cammino su un filo sottile, fragile come la vita stessa, sotto un cielo in tempesta. Ma senza più paura di cadere.  Il pericolo non spaventa, il rumore si spegne, e in quel silenzio, si manifesta qualcosa di sacro: la voce della propria terra interiore, del cuore che batte forte, non per ansia, ma per vita. C’è un desiderio ben definito: andare oltre l’immagine, oltre ciò che si ripete, oltre ciò che trattiene. È una chiamata a vivere pienamente, a toccare l’orizzonte non con gli occhi, ma con la propria interiorità. Manuel riconosce finalmente sé stesso anche nell’altro: entrambi autentici, incapaci di fingere, connessi alla natura. C’è verità nella loro vulnerabilità e questa verità, è libertà. Gli occhi lucidi, come opere d’arte animate, guardano un mondo che corre, che scivola. Ma che, in fondo, è un miracolo da custodire. Ogni attimo è irripetibile, e la vita, adesso, è un diamante che brilla. Alla fine, il brano diventa una promessa mantenuta: la paura cessa di esistere, il cuore si apre, l’essere si rinnova. Si rinasce. Ora. Oltre.

  • “Silenzio Assenzio” di Lara Serrano: la voce che nasce da ciò che non si dice

    Ci sono rapporti che ci svuotano mentre ci fanno sentire pieni. Sono quelli che restano addosso e si imprimono sottopelle anche quando finiscono; quelli che tornano nei pensieri, negli hotel, nelle città che li hanno visti nascere. È da lì che ha preso forma “Silenzio Assenzio”, il nuovo singolo di Lara Serrano, che dopo l’EP “Parole Sciolte”, pubblicato in primavera, sceglie di non ripartire, ma proseguire. Proseguire da quelle storie che non vanno dimenticate, ma guardate in faccia, finché non si capisce che lasciarle andare non è una sconfitta. È amor proprio.

    Con questo progetto, la cantautrice genovese classe 1998 intercetta un tema che la sociologia definisce “relazioni liquide”: legami che non si interrompono in maniera netta, ma si lasciano evaporare. È la stessa condizione descritta da Zygmunt Bauman, che parla di “società liquida”, dove i rapporti diventano precari come gli oggetti di uso comune, rispecchiando la logica del consumismo e un crescente desiderio di libertà individuale a scapito dell’impegno e della stabilità.

    In Italia, secondo i più recenti dati di Censis e Istat (2024), oltre la metà dei giovani adulti dichiara di aver interrotto una relazione senza un vero confronto: allontanamenti progressivi, silenzi che si dilatano fino a diventare assenza.  “Silenzio Assenzio” nasce dentro questo vuoto, causato dalle parole che non arrivano, ma mette a fuoco la capacità — e la necessità — di scegliere il silenzio non come via di fuga, ma come modo per proteggersi, come spazio di dignità.

    Le prime righe del brano introducono una trama fatta di contraddizioni, tra ciò che indugia e ciò che spinge ad andare oltre. Fino ad un verso ben preciso: «Mi devi un tramonto a Roma, alla terrazza del Pincio a cantare a squarciagola». Roma diventa così una metafora mai consumata, e il tramonto che “mi devi”, una promessa mancata, una scena mai vissuta che si trascina come un debito lasciato in sospeso con sé stessi. Lara Serrano sceglie la Città Eterna come sfondo di un amore che non ha saputo esserlo, trasformandola in un non-luogo del sentimento.

    La scrittura della cantautrice ligure si regge su un equilibrio prezioso: fedele alla sua cifra stilistica, già riconoscibile nei precedenti progetti, ogni parola è concreta, ma non rinuncia alla suggestione. Così, nel ritornello, prende forma la frase che dà il titolo al brano: «Ti lascio in un silenzio denso, in un silenzio assenzio». Qui si gioca la chiave del singolo: il silenzio come condizione scelta, non subita, e l’assenzio come immagine di ciò che brucia, stordisce, ma non si dimentica. Una doppia lettura che rende la canzone un brindisi amaro a ciò che è stato.

    Il riferimento all’assenzio richiama anche una lunga tradizione letteraria, da Baudelaire a Verlaine, in cui questa sostanza era simbolo di alterazione e lucidità al tempo stesso: qualcosa che ferisce ma che apre la coscienza. Lara Serrano ne fa una rilettura contemporanea, mettendo in scena l’idea di una relazione che si chiude senza gesti eclatanti, ma con un sorso amaro, con la chiarezza che resta quando il sipario cala e le luci si spengono.

    Lara spiega così il significato del brano:

    «Alcuni silenzi parlano più di mille parole. Questa canzone è un viaggio dentro quelle assenze che sanno di vertigine, come un sorso di assenzio: bruciano, stordiscono, ma non si dimenticano. È una dedica al confine fragile e sottile tra ciò che rimane e ciò che non c’è più. Nasce dall’amor proprio e dalla consapevolezza che alcuni rapporti, a volte, vanno chiusi anche contro la volontà delle persone coinvolte.»

    Oggi, in un contesto – musicale e non – che tende ad amplificare l’enfasi delle emozioni spingendole al massimo del volume, Lara Serrano sceglie la via più difficile: ridurre, togliere, restituire alla sottrazione il suo valore. “Silenzio Assenzio” è un brano che non si aggrappa alle certezze, ma testimonia un passaggio: quello in cui il silenzio diventa più eloquente di qualsiasi spiegazione.

    Quando chi parla sembra voler sovrastare per vincere sull’altro, Lara Serrano sceglie una pausa per ascoltarsi come forma di libertà. Non per sparire: per lasciare andare e restare intera.

    “Silenzio Assenzio” non è una canzone sull’amore. È una canzone sulla scelta di non spiegare. Di non rincorrere. Di non chiedere nulla.

  • “SognoSommerso”, il brano di Al Vox che dà voce ai giovani compressi dall’ansia

    In un presente che ci vuole sempre lucidi, performanti e vincenti, Al Vox sprofonda con grazia. E lo fa a modo suo, con un brano psichedelico, minimalista e visceralmente umano. In “SognoSommerso” (PaKo Music Records/Believe Digital), il cantautore genovese restituisce al sogno il suo valore originario: non fuga dalla realtà, ma terreno in cui resistere e ricominciare. Un paradosso che dialoga con la letteratura, la filosofia e con la condizione di una generazione che nel mondo onirico cerca ancora il proprio respiro.

    Un gioco di parole, certo, ma anche un frammento autobiografico che oggi si fa canzone: non per raccontare la marginalità con rabbia o recriminazione, ma per riconoscerla come parte di un processo vitale. Essere sommersi, per Al Vox, non è una condanna: è una condizione interiore da cui può nascere qualcosa. Magari un sogno. Magari un brano.

    Ed è qui che il vissuto personale si intreccia con il contesto sociale. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, tra i giovani europei tra i 18 e i 29 anni, il rischio di sintomi di ansia o depressione è fino all’80% più elevato rispetto agli adulti, un segnale dell’urgenza generazionale del disagio interiore. Inoltre, uno studio comparativo peer-review condotto da un team internazionale guidato dalla ricercatrice italiana Marta Delvecchio (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), e pubblicato nel 2023 sulla rivista scientifica Healthcare, rivela che gli studenti italiani (18-21 anni) mostrano livelli significativamente più alti di ansia rispetto ai coetanei statunitensi e cinesi. In questo scenario di insicurezza, solitudine e pressione permanente, il sogno affiora come atto salvifico, una boccata d’aria nel mare della fatica.

    Al Vox rovescia il cliché del sogno romantico: qui non è evasione, ma strumento concreto per restare a galla. Una consapevolezza raccolta in adolescenza, come lui stesso afferma, che oggi si trasforma in ritmo e frase. Un’immersione narcisisticamente gentile, ma comunque benefica.

    «Al liceo dicevo: non sono un artista emergente, ma sommerso. È da lì che nasce il titolo. Per me sognare è come respirare sott’acqua. Non lo fai per evadere, lo fai per non morire. Non è solo questione di arte: è qualcosa che ti tiene in piedi. Io sogno anche solo guardando un riflesso sul vetro. E quando tutto sembra fermarsi, è proprio in quel frangente che si può provare a riemergere.»

    Per Al Vox, il sogno non è un vezzo poetico ma una forma di resistenza, quella di un cantautore, produttore e musicista che da anni percorre sentieri obliqui nel panorama italiano, disobbedendo alle formule e ai luoghi comuni. Un modo per prendere le distanze da una definizione che riduce il percorso creativo a una fase di passaggio, come se il valore di un artista si misurasse solo nella capacità di “venire a galla”. In realtà, essere sommersi significa riconoscere il tempo dell’attesa, del dubbio, della ricerca.

    Questa visione prende corpo nel linguaggio stesso del brano: immagini surreali («un insetto che fa festa», «Dante all’inferno voleva Beatrice, io non voglio un’attrice») e libere associazioni che sembrano affiorare dal subconscio. Il lessico reiterato («sognosommerso» scandito in loop) somiglia a un canto che sospende il tempo, mentre l’accompagnamento psichedelico e minimale apre una dimensione in cui la parola echeggia e la mente può tornare a prendere fiato.

    Sotto il velo – solo all’apparenza leggero – del testo, si nasconde un messaggio concreto: anche quando non ci si sente all’altezza, anche quando manca l’aria, sognare resta una delle poche azioni accessibili a tutti. E vale la pena difenderla.

    Ma quanta capacità di sognare ci resta? È questo il quesito, il filo che attraversa tutta la canzone: dall’urgenza di una generazione compressa da ansia, burnout, pressioni invisibili, il sogno arriva come atto vitale. Non retorico, ma in grado di riempire quell’istante in cui ci si riscopre vivi. È una domanda che riguarda tutti, senza eccezioni.

    “SognoSommerso” si rivolge a chi si sente confuso, stanco, disallineato. Non si lascia incasellare. È un ibrido tra cantautorato e spoken word, tra ironia e meditazione, tra realtà e surrealtà. Non è un brano facile. Ma è un brano essenziale. Un brano che sceglie la lentezza alla fretta del consumo. In un periodo storico in cui molte persone si sentono “sommerse” — da aspettative, precarietà, paura del fallimento — questo pezzo suggerisce che si può ancora cercare qualcosa infondo, anche quando tutto sembra scuro. Perché sognare non è un lusso: è il respiro minimo che ci impedisce di sopravvivere in apnea.

  • Antonio Marzo canta la fragilità e la forza di un Paese in mutamento

    A volte, per raccontare un cambiamento, serve partire dalla pioggia. Una pioggia lenta, quasi surreale, che cade sui ciottoli del centro di Bologna e su una voce che da tempo non cercava canzoni. È lì che nasce “Com’è lucida la città”, il nuovo singolo del cantautore e autore teatrale Antonio Marzo: una ballata scritta all’indomani dello scoppio della guerra in Ucraina – «la prima scintilla», dice – e tornata in studio dopo anni di silenzio discografico. Marzo non firma un omaggio a la Dotta, ma qualcosa di più sottile e complesso: un tentativo di restituire l’identità mutevole di una città – e di un Paese – che ha smesso di nascondersi. Un modo per dire che l’Italia è cambiata. Che ha perso la sua timidezza. E che forse, lo abbiamo fatto anche noi.

    Scritta camminando tra le vie lavate dal giorno e inondate di riflessi, in un centro storico che sembrava restare in apnea per non smarrire i propri tratti, mentre l’eco di un’Europa fragile entrava nelle case, nei silenzi, nelle domande di tutti, “Com’è lucida la città” è il risultato di un’urgenza concreta: mettere ordine in ciò che resta, tra la cronaca del mondo e il groviglio dei pensieri.

    Bologna, in questo brano, non è sfondo né protagonista.
    È specchio, margine, punto di partenza e pretesto per parlare a un’Italia che si interroga: sulle sue città, sulla sua identità, sulle sue parole.

    È l’inizio di un nuovo sguardo – personale e musicale -, che parte proprio da qui: dal bisogno di tornare ad osservare le cose senza doverle per forza spiegare. Un’Italia che cambia, mentre prova a riconoscersi nei suoi borghi antichi, nei suoi dettagli, nella nuova grammatica dei luoghi.

    Ma cosa significa, oggi, raccontare un Paese che cambia?
    E cosa succede quando quel cambiamento lo sentiamo anche dentro di noi – negli occhi, nei passi, nella voce?
    È da queste domande che prende forma il brano. Non come risposta, ma come modo per rimanere dentro le cose, per trattenere quello che altrimenti andrebbe perso.

    Una necessità tornata a farsi spazio dopo la reunion degli Embargo – gruppo storico progressive-rock con cui Marzo aveva condiviso la stagione più fertile della scena alternativa bolognese. Non per ripetere il passato, ma per dare voce al presente, a ciò che nel frattempo è cambiato: dentro e fuori. Più che di nostalgia, si tratta di un bisogno di sintesi: tenere insieme ciò che è mutato e le tracce di ciò che è sopravvissuto allo scorrere del tempo, trovando per entrambi una lingua nuova. E scrivere. Non per spiegare, ma per tenere insieme le fratture. E non perdersi, imparando ad osservare da un altro punto di vista.

    «Le canzoni hanno ricominciato a bussare quando tutto sembrava incerto: fuori e dentro di me – racconta Marzo -. ”Com’è lucida la città” è nata camminando sotto la pioggia. L’ho scritta pensando a Bologna, ma non solo. È un brano che parla di come i luoghi ti cambiano, e di come tu, a un certo punto, impari a guardarli con occhi nuovi. È successo anche a me.»

    Tra i ciottoli del centro, i muri rossi, lo «spicchio di marmo rosa» e il suono lento della pioggia, ha preso vita una riflessione non malinconica ma consapevole. La città è diventa la perfetta metafora di un’epoca futura possibile, in cui finalmente non si avrà più il timore di chiamare le cose con il proprio nome.

    Nel testo, linee semplici ma mai ingenue («La gente non corre veloce, si è accorta che si può stare bene») accompagnano l’ascolto fino a una chiusura che non simboleggia una resa, ma un appello civile. Un invito che parte da Bologna e si estende a tutte le città italiane che oggi rischiano di smarrire il proprio centro – simbolico e reale – nel frastuono del cambiamento:

    «Bologna non ti dimenticare chi sei, non ti scordare cosa vuoi, per rimanere così, bella così

    Antonio Marzo è un artista laterale, ma mai marginale. Non è un esordiente. E nemmeno un outsider da ridurre a categoria, incasellandolo con facili etichette. È un autore che ha scelto la coerenza alla rincorsa, e la continuità a ogni possibile effimera esposizione. Dal teatro-canzone alla canzone d’autore, ha tracciato un percorso ibrido e personale, sempre in ascolto e sempre in dialogo con il proprio tempo.

    Dopo il recente spettacolo “Storia semiseria di una rockstar mai nata” – presentato a Bologna lo scorso febbraio, con un sold out in teatro -, l’uscita del singolo segna l’inizio del nuovo ciclo discografico “Oltremarzo”: un album scritto tra le pieghe della quotidianità e le crepe di nuove inquietudini. Canzoni che partono dalla città per interrogare il presente, l’identità, la possibilità di restare sé stessi in un’epoca che cambia tutto – tranne le domande.

    «Non sono mai stato uno che insegue palchi grandi – conclude Marzo -. Ma non mi sono mai fermato. Le mie canzoni si muovono tra l’ironia e la malinconia, come sguardi obliqui sul mondo: disillusi, ma mai privi di speranza.»

    Prodotta da Giancarlo Di Maria, con mix e mastering a cura di Marco Borsatti, “Com’è lucida la città” vede la partecipazione di Iarin Munari alla batteria, Marco Dirani al basso, Mattia Tedesco alla chitarra, e lo stesso Di Maria alle tastiere.

    “Com’è lucida la città” non descrive Bologna. Ci entra in punta di piedi.
    In un momento in cui molte città italiane diventano oggetto di narrazione estetica, turismo aggressivo o storytelling d’occasione, riducendosi a fondali da cartolina, questo brano sceglie la strada opposta: non abbellisce, non denuncia, non semplifica. Racconta. Domanda. Invita a riflettere. E lo fa con un tono a mezz’aria tra diario e canzone civile, restituendo alla città — e al Paese intero — l’opportunità di essere luogo, spazio di vita, non solo meta da promuovere.
    Un punto da cui si può ancora partire.
    E tornare.
    Senza sentirsi fuori posto.

  • Maelle Pascal, quando il corpo diventa vibrazione sonora

    La sala è raccolta, il pubblico in ascolto. Quando arriva il ritornello di “Narayana”, la voce di Maelle Pascal si innalza, come un’invocazione, e la platea risponde all’unisono, trasformando il concerto in un coro spontaneo. Non era previsto, non era scritto. Ma in quel preciso istante, il progetto rivela la sua natura: un rito, una nuova forma di performance che intreccia musica, spiritualità e corpo.

    “Narayana”, nella tradizione sanscrita, è uno dei nomi di Vishnu, principio che pervade ogni cosa. La cantautrice torinese Maelle Pascal ne ha fatto il centro di un lavoro che si muove al confine tra sound healing, arte rituale e linguaggio contemporaneo. Unendo strumenti ancestrali, mantra e ambienti sonori, il brano invita a rallentare, a ritrovare presenza in un tempo che viviamo troppo spesso al passato o al futuro, ad entrare in connessione con sé stessi attraverso vibrazioni e movimento.

    Il tema è quanto mai attuale. La mindfulness e pratiche affini sono ormai diffuse anche in Italia, con milioni di persone che dichiarano di praticarle almeno occasionalmente. secondo l’ultimo Rapporto Censis-Eudaimon (febbraio 2025), l’11,3 % del campione dichiara di manifestare interesse verso la meditazione e pratiche di consapevolezza di sé.

    Inoltre, il sound healing, ovvero l’uso del suono come strumento di benessere e riequilibrio, è oggi oggetto di crescente attenzione anche da parte delle neuroscienze e di istituzioni culturali. Dai festival dedicati alle arti performative fino agli spazi di meditazione cittadina, le pratiche sonore trovano sempre più applicazione come linguaggi capaci di coniugare arte e benessere. A livello globale, le playlist di musica meditativa, sono tra quelle in maggiore crescita: le piattaforme streaming segnalano una crescita costante delle playlist dedicate a meditazione, relax e sound healing, sempre più utilizzate come spazi sonori quotidiani. “Narayana” intercetta questa tendenza con una proposta che non si limita alla fruizione digitale, ma trova la sua massima espressione dal vivo: un’esperienza in cui la musica incontra la danza in una dimensione corale e immersiva, superando i confini del concerto tradizionale.

    Il debutto ufficiale, avvenuto lo scorso 29 giugno 2025 in occasione di un importante gala a Borgaro Torinese (TO), ha visto l’artista esibirsi in una performance danzata, unendo voce e corpo in un’unica cornice. L’evento, documentato dalla TV locale GRP, è stato accolto con entusiasmo dal pubblico, confermando la vocazione trasversale del progetto.

    «Con “Narayana” – dichiara Pascal – voglio creare luoghi, rifugi sonori che aiutino le persone a riconnettersi con sé stesse. Non è solo musica: è un’esperienza meditativa, una forma di cura.»

    Cantante, danzatrice, autrice e interprete poliglotta, Maelle Pascal lavora da anni sulla contaminazione di linguaggi, intrecciando canto, movimento e ricerca interiore. Con “Narayana” ha dato vita e voce a un progetto che riflette le esigenze del presente: trovare spazi di verità in un tempo accelerato, usare la musica come strumento di benessere, dare forma a esperienze che parlano di cura, accettazione e fiducia.

    Quello che porta in scena è un’arte che si colloca tra culture e sensibilità diverse, capace di dialogare tanto con il pubblico dei festival quanto con chi cerca nella musica un luogo di meditazione. Una forma ibrida e nuova, che unisce l’antico e l’attuale, il rito e la contemporaneità, e che trova nella scena live la sua espressione più compiuta.

  • Un Paese senza riferimenti culturali: DannyZ canta ciò che manca

    «Con tutto il male che Dio m’ha portato, l’ho trasformato ma senza peccato». Una frase che da sola basta a definire il tono di “Occhi Chiusi”, il nuovo singolo di DannyZ: un brano che sceglie il rap non per ostentare, ma per affrontare le contraddizioni di chi cresce senza certezze, in un Paese in cui i giovani hanno perso i riferimenti tradizionali e cercano nuove forme di significato, nuove parole per definirsi.

    In un’Italia di riferimenti culturali e sociali che per i più giovani sembrano sgretolarsi — famiglia, religione, lavoro — il rap si conferma una delle poche forme espressive capaci di tenere il passo. Secondo recenti dati ISTAT (2022) – meno del 19% della popolazione italiana frequenta regolarmente luoghi di culto; tra adolescenti e ventenni la quota scende intorno al 12%. Ma la ricerca di spiritualità e significato, non scompare: si sposta altrove. Nei social, nell’arte, nella musica. E il rap, che secondo FIMI resta, insieme al pop, il genere più ascoltato in Italia, diventa sempre più spesso un luogo di introspezione. Dove si scrive per raccontarsi e si racconta per non sparire. E si ascolta, per sentirsi capiti. Da questo quadro si evince quanto il genere stia sempre più prendendo piede non solo come forma di intrattenimento, ma come linguaggio identitario e culturale di una generazione che cerca voce, spazio e legittimazione.

    E proprio in risposta a questo bisogno di nuovi linguaggi — dalla scuola alla politica, fino alla TV — il rap, soprattutto la sua vena malinconica e riflessiva, sta vivendo un’evoluzione significativa, tornando a farsi spazio come strumento di racconto e consapevolezza. Non è una funzione nuova: il rap nasce da lì, da una scrittura che prende parola dove le istituzioni tacciono. Ma oggi, con il venir meno dei canali di ascolto tradizionali, quella funzione si radicalizza. Il risultato è una narrazione che non cerca di piacere ad ogni costo, ma la verità; che non parla per una generazione, ma dentro una generazione. Una scrittura che assorbe frustrazioni, rabbia, disillusione, solitudine — e le rimette in circolo sotto forma di racconto. A volte crudo, spesso più vero del previsto.

    Non è un caso che molti critici abbiano accostato il rap contemporaneo alla scrittura diaristica: un registro che parte dall’intimità per farsi specchio sociale. Da Pavese ai rapper di oggi, la spinta resta la stessa: annotare frustrazioni, desideri e paure non per sé, ma perché diventino riconoscibili da altri.

    Per chi non ha strumenti, reti, possibilità concrete, il rap resta uno degli ultimi spazi di espressione possibile. Una forma di cultura, una narrazione alternativa, che non ha bisogno di mediazioni, esiste anche fuori dai canali ufficiali e si prende lo spazio che non le viene dato.
    DannyZ lo ha scelto — o forse è il rap che ha scelto lui — proprio per questo: perché non aveva altri modi per raccontarsi, per farsi ascoltare. “Occhi Chiusi” è anche questo: il tentativo di rendere un’esperienza personale qualcosa che altri possano riconoscere come propria, pur non essendola. Qualcosa che trovi eco fuori da sé, che si apra, senza diluirsi. Non per rappresentare tutti, ma per dire “ci sono anch’io”.

    Ferite personali e parole che cercano una forma di pace. Con “Occhi Chiusi”, l’artista romano porta questo bisogno di senso al centro. «Ho fame vera, non solo di cash», scrive, contrapponendosi al mainstream dell’ostentazione. E ancora: «Parlano troppo ma non sanno niente, di chi scrive con i nodi in pancia, di chi punta tutto senza garanzia, per un posto dentro la discografia». Un passaggio che condensa il senso di precarietà, il bisogno di riconoscimento, la fatica di provarci davvero. Una generazione che non ha certezze, ma continua a bussare per un posto, una voce, una chance.

    Sempre più studi accademici e saggi, inoltre, parlano di rap come di una nuova forma di espressione spirituale: non nel senso religioso del termine, ma di linguaggio in grado di raccogliere il bisogno di senso e trasformarlo in qualcosa che parli a tanti, anche quando nasce da uno. Un legame, un riconoscimento reciproco. “Occhi Chiusi si colloca esattamente in questo filone. Non c’è esibizione, millanteria, né compiacimento: c’è la fede laica di chi ha attraversato il buio senza spegnersi («Ho visto il buio senza spegnermi, ho stretto i denti per difendermi») e ha trasformato le cicatrici in qualcosa che somiglia a una medaglia. DannyZ non è interessato al flex, ma al rispetto. La sua non è una ricerca di flash o gloria effimera, ma di parole che possano rappresentare chi le ascolta.

    Il brano conferma la crescita di un sound maturo e curato, con una produzione che guarda alle atmosfere dell’urban francese (PNL, Lomepal, Dinos) e alla scrittura introspettiva di artisti come slowthai o loyal karner. Una linea sonora che si muove in sintonia con la tendenza globale delle playlist sad rap e melancholy rap, cresciute del 30% negli ultimi due anni su Spotify. “Occhi Chiusi” si ascolta per quello che dice, ma anche per la sua densità sonora, che lo posiziona tra le proposte di maggior spessore della nuova scena urban italiana.

    «”Occhi Chiusi” parla della mia corsa verso i sogni, anche quando intorno c’è solo confusione e incertezza. Racconto i momenti di buio, le delusioni e le volte in cui mi sono sentito perso, ma anche la forza che ho trovato per rialzarmi. Voglio che chi mi ascolta si senta meno solo, e capisca che anche nelle notti più dure c’è sempre un modo per andare avanti.» – DannyZ

    Già definito dai media come “il rapper che ha imparato a camminare due volte”, DannyZ oggi porta la sua storia oltre l’etichetta. Non è più solo il ragazzo che ha superato la disabilità: è una voce credibile della scena italiana, che trasforma la fatica in parole e il dolore in suono.

  • RayRiver canta la sua liberazione dalle dipendenze: “Angel Jeanne” è il suo debutto ufficiale

    Ogni anno, in Italia, oltre 40mila morti sono legati al fumo. L’alcolismo colpisce milioni di persone in silenzio. RayRiver era uno di loro. E da quella soglia buia, dalla fatica quotidiana di uscirne, nasce “Angel Jeanne”, un brano che racconta – in forma musicale e teatrale – l’incontro con una guida che lo ha riportato alla vita. E lo fa in una chiave insolita: quella del pop d’opera.

    RayRiver – compositore, regista e autore classe 1993 – apre così il suo percorso artistico, con un linguaggio musicale ibrido e intimo, dove il cantautorato pop incontra la scrittura sinfonica e l’immaginario scenico. “Angel Jeanne” è una ballata che segue la logica narrativa, in cui la storia autobiografica di un salvataggio diventa architettura musicale.

    Un sound fuori dal tempo, che fonde melodie contemporanee e orchestrazioni classiche. In un panorama musicale che spesso privilegia l’omologazione sonora, RayRiver sceglie di partire da sé stesso e dal suo vissuto, componendo una canzone che sembra uscita da un’opera moderna, con elementi che richiamano tanto la musica sinfonica quanto le colonne sonore teatrali dei musical più amati.

    “Angel Jeanne” è una ballad per voce, archi e fiati, che si sviluppa su un respiro cinematografico, con un crescendo orchestrale che accompagna il percorso interiore del protagonista, fino alla sua rinascita. Un esempio raro di scrittura colta e personale, in cui ogni singolo passaggio è parte di una narrazione precisa, realizzata e resa con cura e rigore.

    Dalla dipendenza alla rinascita, quella cantata dall’artista faentino d’adozione bolognese è una storia vera, condivisa da molti giovani. Il testo è la lettera a cuore aperto di un ragazzo smarrito che cerca risposte umane, ma trova invece una guida straordinaria: Angel Jeanne, fondatrice dell’Accademia di Coscienza Dimensionale, una scuola gratuita di meditazione e arti psichiche che negli ultimi dieci anni ha coinvolto migliaia di persone in percorsi di consapevolezza e trasformazione. Tra queste, c’è anche RayRiver, che dichiara:

    «Mi ha salvato da un tunnel di dipendenza da alcol e sigarette, insegnandomi il senso del coraggio quotidiano, della disciplina e dell’amore.»

    Ma Angel Jeanne non è solo la protagonista della sua guarigione: è anche il simbolo di un modo diverso di pensare l’arte. Un’arte che nasce dal vissuto, che si prende cura del proprio tempo, che prova a offrire un’alternativa concreta al disincanto e al cinismo. In questo senso, la canzone diventa anche uno spazio di restituzione: ciò che è stato ricevuto – in termini di aiuto, insegnamento, trasformazione – torna al mondo sotto forma di musica, parola, vibrazioni.

    Nel brano convivono due livelli narrativi: quello individuale del riscatto, e quello comune, collettivo, del messaggio. Non è un caso che la figura di Angel Jeanne, reale e riconoscibile, sia anche raccontata come un personaggio mitico: nel testo, è fuoco che appare nel gelo, luce che si manifesta quando tutto sembra perduto. È un’immagine quasi surreale, ma fortemente radicata nella realtà. Ed è proprio questo doppio registro – tra biografia e suggestione – a rendere il pezzo raro nel panorama italiano.

    «I don’t want to feel pain anymore. I would never want to scream that I’m alone again.»
    («Non voglio più sentire dolore. Non vorrei mai più gridare di essere di nuovo solo.»)

    In questa frase, straziante ma al contempo intrisa di speranza, si concentra tutto il senso del pezzo: la ferita della solitudine, che trova tregua solo nell’incontro. Una condizione condivisa da molti, soprattutto tra i più giovani: secondo il Rapporto Censis 2024, il 51,8% delle persone tra i 18 e i 34 anni soffre di ansia o depressione, mentre il 32,7% ha sperimentato attacchi di panico. A questo si aggiunge un contesto in cui il 18,7% degli italiani fuma regolarmente e oltre 8 milioni hanno comportamenti a rischio con l’alcol. Raccontare questo spaccato in musica, senza retorica né pietismo, è una delle scelte più forti del progetto.

    In un mondo dove l’arte viene spesso svuotata del suo significato, RayRiver sceglie di comporre per gratitudine, per bellezza e per necessità espressiva, come lui stesso afferma:

    «Credo che la musica debba rendere felici. A volte con un ritmo, a volte con una riflessione, ma sempre lasciando qualcosa. Per me, questa canzone è il dono più sincero che potessi fare.»

    Originario di Faenza e residente a Bologna, RayRiver è un artista completo: compositore, autore, regista. Dopo gli studi con il Maestro Tommaso Ussardi e un lungo percorso da autodidatta, ha sviluppato uno stile che intreccia la vocalità pop con le architetture della musica classica, in una sintesi che richiama il musical colto e la drammaturgia contemporanea. Attualmente è impegnato nella promozione del suo primo cortometraggio, “Nel silenzio ricordai Angel Jeanne”, selezionato e premiato in diversi festival nazionali e internazionali e reduce dalla recente partecipazione ad un evento collaterale dell’82esima Mostra del Cinema di Venezia.

    Con “Angel Jeanne” RayRiver non solo si presenta al pubblico, ma definisce una direzione. Quella di una musica che non si accontenta di essere ascoltata: vuole essere vissuta.

  • “Kiss Kiss”: il debutto che lega due vite e due continenti

    Era il 2017 quando, a Lagos – la città più popolosa della Nigeria – una giovane donna scrisse poche frasi su un foglio. Le ripeté più volte, come a voler fissare un pensiero nella testa, e le chiuse in un cassetto. Sette anni dopo, per puro caso, quelle righe attraversarono un continente e arrivarono nelle mani di Massimo Zoara, noto produttore italiano e fondatore dei B-nario, che leggendole ne rimase colpito e scoprì con sorpresa di essere amico della persona a cui quelle parole erano dedicate. Da quell’intreccio di coincidenze è nato “Kiss Kiss”, brano con cui la cantautrice nigeriana CnttY porta sul pentagramma un legame che attraversa tempo e confini, unendo due Paesi e due momenti di vita.

    CnttY, al secolo Osamwonyi Cynthia, è nata a Lagos e cresciuta a Benin City, in una famiglia proveniente da due stati nigeriani: madre originaria di Benin City, padre dello Stato del Delta. La musica è entrata presto nella sua vita: a 5 anni cantava e ballava, a 12 era già parte del coro cattolico della Santissima Trinità. È in questo contesto che ha sviluppato una connessione istintiva con il canto, vissuto come un linguaggio naturale. Nel 2017, in un momento personale delicato, scrisse quelle righe incentrate sul contatto fisico e sull’assenza di parole: “Kiss Kiss” ha preso vita così, da un pensiero semplice, quasi ingenuo, ma capace di trattenere in poche sillabe un’intera storia, fatta più di silenzi che di spiegazioni.

    L’incontro con Zoara ha trasformato quelle frasi in un brano compiuto. Forte di una carriera che lo ha visto fondare i B-nario e collaborare con alcuni tra i nomi più rilevanti della scena italiana, il produttore ha cucito su di esse un arrangiamento ad hoc, pensato per lasciare spazio alla voce e al ritmo interno delle parole, senza sovrastrutture.

    «La mia collaborazione con Zoara è iniziata in un momento molto significativo della mia vita – dichiara CnttY -. Nel 2017, sentii l’ispirazione di scrivere per racchiudere i miei sentimenti più profondi. Quel testo, intriso di emozioni e sincerità, è arrivato a Zoara nel 2024: lui era ed è amico della persona di cui mi ero innamorata, che oggi è mio marito. Quando ha ascoltato le mie parole, ne ha colto subito il potenziale e la sua reazione mi ha sorpreso, ma soprattutto mi ha incoraggiata a credere nel mio lavoro. Grazie alla sua fiducia e al suo supporto, ho trovato la motivazione per proseguire e trasformare quell’idea in un progetto concreto. L’incontro tra le nostre visioni artistiche ha creato un legame speciale, spingendomi ad aprirmi a nuove possibilità e portare la mia musica verso un pubblico più ampio.»

    Volutamente minimale, “Kiss Kiss” si sviluppa come un dialogo: la produzione gioca sull’alternanza tra presenza e sottrazione, sostenendo la voce di CnttY con interventi leggeri ma definiti. Il reiterarsi della parola “kiss” funziona come elemento ritmico, rendendo il testo un pattern che scandisce l’intera traccia, in un equilibrio calibrato, dove ogni suono è scelto per amplificare il senso di attesa e di intimità. Il risultato è un pezzo che conserva la spontaneità del testo originale, trasformandola in un racconto unico, personale, ma al contempo capace di fare da collante tra due mondi apparentemente lontani.

    “Kiss Kiss” si regge sulla ripetizione come scelta stilistica, non come mancanza di contenuto. Ogni “kiss” è percussione, accento, battito. La struttura si sviluppa per stratificazione sottile, aggiungendo piccoli elementi sonori che aprono e richiudono l’atmosfera. La comunicazione avviene più attraverso il contatto che affidandosi alle parole, facendo sì che sia il linguaggio non verbale il vero nucleo del brano.

    L’alternarsi di scene quotidiane – il ritorno a casa, la notte a letto – e i gesti fisici che sostituiscono il dialogo trovano nella lingua inglese un alleato naturale. La scelta di scrivere “Kiss Kiss” in inglese risponde alla volontà di mantenere un respiro internazionale, superando i confini linguistici e intercettando pubblici di culture diverse, sfruttando la lingua più utilizzata sulle piattaforme globali di streaming e nei mercati musicali cross-country.

    “Kiss Kiss” è, prima di tutto, il racconto di un viaggio: una canzone nata in Nigeria, conservata per anni, riemersa in Italia grazie a un legame personale inatteso. Una storia che dimostra come la musica possa attraversare tempo e spazio trasformando un frammento privato in una storia da condividere.

    Accompagnato dal videoclip ufficiale girato al Torsellini Vetro di Gavirate (VA) sotto l’attenta direzione di Fabio Bastianello, “Kiss Kiss” porta con sé non solo la voce di CnttY, ma anche la fotografia di un incontro capace di dare nuova vita al passato.

    Il video, presentato in anteprima nazionale su Sky TG24, si arricchisce della presenza di un cast eterogeneo, pensato per tradurre in immagini la dimensione internazionale del brano. Franklin Santana, noto modello e attore venezuelano, porta sul set la fisicità e l’attitudine delle culture metropolitane; accanto a lui, il phonetics coach Steve Dapper – figura di riferimento nel training linguistico per performer – ha contribuito a mantenere intatta l’autenticità del cantato in inglese. La parte coreografica si affida alla viralità di Indira Giudice, ballerina e creator di TikTok che trasforma i movimenti in linguaggio pop contemporaneo. Completano il mosaico Federico Ascanio Vaccani, giovane trapper in ascesa, la performer Sabrina Rissone, interprete della “sexy woman”, ed Enrico Suarez, che con il suo carisma da “macho man” offre al video un contrappunto sensuale e teatrale.

    Il risultato è un racconto corale che amplifica la natura ibrida di “Kiss Kiss”, mescolando intimità e spettacolo, vita privata e rappresentazione scenica.

    In un momento in cui la scena afrobeats e le sonorità nate in Africa stanno conquistando le classifiche mondiali, “Kiss Kiss” – con la produzione esecutiva di Luigi Carano e Massimiliano Angarella – porta nel flusso globale una prospettiva personale, nata da un episodio privato e arrivata fino a qui senza forzature. È la prova che, anche nell’era della saturazione musicale, certe canzoni trovano la loro strada semplicemente perché hanno qualcosa di vero da raccontare.