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  • Chi aspetta ama due volte: Marino Alberti lo racconta in “Ho Aspettato”

    Ha calcato i palchi con Loredana Bertè, Emma Marrone, P.F.M. e Patty Pravo. Ha firmato brani prodotti con musicisti di livello internazionale come Faso (Elio e le Storie Tese), Lewie Allen (Sam Smith, Elton John) e Riccardo Kosmos (Achille Lauro). Oggi, dopo oltre 2,5 milioni di stream accumulati con i suoi ultimi lavori, Marino Alberti torna con un nuovo singolo che non celebra l’amore, ma lo mette in pausa. “Ho Aspettato” è una ballata sospesa, delicata e tagliente al tempo stesso, che racconta l’amore atteso, idealizzato, proibito – quello che, pur non accadendo, resta addosso e si sedimenta più di qualsiasi storia vissuta.

    Una canzone che non si concentra sul sentimento dichiarato, ma su quello trattenuto, inespresso. Che non parla di relazioni concluse, ma di quelle rimaste irrisolte, consumate solo in parte. Un brano che punta dritto a una domanda che molti evitano: quanto tempo possiamo restare fermi ad aspettare un ideale di amore che forse non arriverà mai?

    Una narrazione che si lega a un vissuto comune e trasversale: quello di chi, in un’epoca iperconnessa, si sente più solo che mai. L’amore come antidoto alla solitudine, che si proietta sull’altra persona, anche senza conoscerla davvero.

    Una forma di attesa silenziosa che, nella frenesia contemporanea, appare quasi paradossale, ma trova riscontro nei dati più recenti. Secondo l’Istat, infatti, oltre il 45% degli italiani tra i 30 e i 50 anni ha dichiarato di aver vissuto almeno una relazione immaginata o idealizzata, spesso mai concretizzata. Una tendenza che racconta molto del nostro tempo: connessioni sempre più virtuali, sempre più incerte, dove si finisce per amare un’idea più che una persona.

    In un periodo storico in cui anche pulsioni ed emozioni passano attraverso chat effimere e fantasie digitali, “Ho Aspettato” si interroga su quanto siamo ancora disposti a restare — anche da soli — davanti alla porta di un amore che non bussa.

    È in questo contesto che “Ho Aspettato” diventa un documento, uno spaccato attualissimo. Una voce fuori campo che non vuole e non pretende di spiegare, ma sceglie di dare spazio a ciò che spesso resta relegato ai margini: amori imperfetti, incompleti, non ricambiati. Non cerca di risolvere il paradosso, ma lo nomina. Lo attraversa, lo canta. E nel farlo, restituisce dignità a quell’amore “minore”, troppo spesso ignorato perché a senso unico.

    «Aspettare è una forma di amore che nessuno celebra – dichiara l’artista –. Non volevo raccontare una storia riuscita, perché quelle si raccontano da sole. Volevo volgere lo sguardo a chi ha aspettato in silenzio, amando senza sapere se sarebbe mai bastato. Forse è questo l’amore che ci segna di più: quello costruito nella mente e vissuto nel cuore, senza mai riuscire a portarlo alla luce. Un amore che non si chiude, che resta aperto. E forse, proprio per questo, insegna tanto, su di noi e sulla nostra capacità di donare senza chiedere nulla in cambio.»

    La produzione, firmata dallo stesso Alberti, conserva l’essenzialità di un brano scritto con pudore e urgenza. Una melodia circolare, che gira intorno a poche parole, a pochi accordi, come se lo scorrere del pezzo volesse imitare quello dell’attesa: lento, reiterato, sospeso.

    Da qui nasce anche il senso del testo, un testo per chi ha amato, ama o amerà. Un testo che non cerca di compiacere, di offrire risposte o verità assolute, ma accompagna. E in un tempo che chiede sempre certezze immediate, accettare l’incertezza è già una forma di libertà.

    Una canzone per chi ha amato in silenzio, per chi ha rimandato, per chi ha tenuto acceso un sentimento senza sapere se avrebbe mai avuto un seguito. Per chi ha cercato amore vero e non solo idealizzato. Per chi ha voluto credere, pur sapendo.

    Con questo nuovo progetto, accompagnato dal videoclip ufficiale diretto da Nicola “G. Man” Togni, Marino Alberti si conferma tra i cantautori italiani più attenti a ciò che accade dentro e fuori le canzoni.

    «La vita è un battito e non bisogna mai aspettare – conclude -. Ma una sola cosa al mondo vale davvero la pena di essere aspettata. L’Amore.»

    “Ho Aspettato” ci invita a riconoscere il valore delle attese, anche quando sembrano inutili. Perché, in fondo, tutti siamo stati lì: a sperare, a proiettare, a inseguire un sentimento che forse era solo nella nostra mente, ma che ci ha fatto sentire vivi.

  • Scrivere anche quando nessuno legge: la rivoluzione di “Anche se piove (platinum version)”, il nuovo singolo della 17enne Shaza prodotto da Roberto Costa

    “Ti amo” ripetuto 14 volte senza pausa, come un mantra, come un urlo silenzioso. Sussurrato, urlato, scritto nell’acqua e cancellato dalla pioggia. Si apre così la platinum version di “Anche se Piove”, il nuovo singolo della giovane cantautrice comasca Shaza, che segna il suo esordio discografico ufficiale con Watt Musik Records, sotto la produzione di uno dei nomi più rilevanti della musica italiana: Roberto Costa.

    Una dichiarazione ostinata e fragile, un atto d’amore gettato nel vento, che in questa nuova veste prende forma grazie alla produzione di Roberto Costa: bassista, arrangiatore e produttore di riferimento della scena nazionale, che ha plasmato il suono di Lucio Dalla, al suo fianco per oltre trent’anni. Nel suo percorso anche Ron, Ivan Graziani, gli Stadio, Luca Carboni, Matia Bazar, Mina e Gianni Morandi. Una carriera che attraversa decenni di musica italiana, oggi al servizio di una nuova generazione.

    Quella di Shaza è la lettera mai letta di una ragazza che si sente invisibile. Lo si intuisce da un dettaglio, un inciso tra i versi lasciato quasi in disparte, eppure impossibile da ignorare: «Gli scrive una lettera ma l’acqua la scioglierà». È la voce di chi aspetta senza farsi notare, di chi ama senza clamore, senza essere visto. Una protagonista maldestra e disarmata, goffa e sincera, che rincorre un amore distratto e inciampa nel tentativo di spiegarsi, di farsi sentire. Le parole ci sono, ma si perdono. Come se non bastassero mai.

    «Anche se piove e scompaiono le mie parole, il mio amore per te non muore». Una dichiarazione che non chiede risposta, e che trova forza proprio nel silenzio. Perché anche quando tutto svanisce, l’amore resta. E scriverlo — anche se nessuno lo leggerà — è già un modo per non perdersi, per restare fedeli a ciò che si prova. Perché certe parole, anche se si dissolvono, dicono di più di chi le ha scritte che di chi le riceve.

    Con questa Platinum Version, Shaza rilegge una canzone già pubblicata nel 2023, affidandola alla sensibilità musicale di Costa. Ne nasce una ballata a mezz’aria tra esitazione e coraggio, dove l’arrangiamento lascia spazio al respiro del testo, senza forzarlo. È un passaggio di crescita, di maturazione consapevole, che racconta una diciassettenne capace di usare la musica per nominare ciò che non trova posto altrove. Con una nuova lucidità: quella di saper scegliere le parole, e il modo giusto per farle arrivare.

    In un’epoca in cui si parla di iperconnessione ma cresce l’isolamento tra i giovani, “Anche se Piove (platinum version)” diventa la voce di chi non viene ascoltato, portando al centro una dinamica fin troppo comune tra gli adolescenti: l’amore non corrisposto, l’invisibilità percepita, il bisogno di esprimersi anche quando non si attende una risposta. Secondo l’ISTAT, infatti, oltre un terzo degli adolescenti italiani tra i 14 e i 19 anni ammette di sentirsi spesso escluso nei contesti sociali. Un disagio che si acuisce ancora di più quando si parla di sentimenti.

    Un terreno comune che Shaza conosce bene:

    «Questa canzone nasce da quella sensazione di urlare qualcosa che però non viene ascoltato – racconta –. Ho sempre pensato che, anche se il mio messaggio si perdesse nella pioggia, valesse comunque la pena scriverlo. Perché certe parole servono prima di tutto a chi le dice.»

    “Anche se Piove (platinum version)” si fa simbolo di chi scrive lettere senza risposta, di chi ama senza far rumore, di chi lotta per un’emozione, anche quando tutto sembra suggerire il contrario.

    Shaza non è solo una cantautrice. Studentessa al liceo artistico di Appiano Gentile (CO), coltiva la musica parallelamente all’arte visiva, e questo approccio si riflette nella costruzione dei suoi brani: ogni parola è scelta come un colore su tela, ogni suono è un dettaglio che compone un’immagine.

    Questa visione attraversa anche il videoclip ufficiale del brano, prodotto da Antonio Isaldi per IsyFilm e diretto da Jordan BK, che trasla sul piano visivo quell’universo interiore fatto di attese, lettere sciolte dall’acqua, treni persi. Un’estetica che richiama la malinconia romantica di un certo cinema europeo, tra le atmosfere sospese di Kieslowski e i silenzi narrativi di Rohmer.

    È da questo intreccio tra musica e identità che nasce un percorso nuovo: a diciassette anni, Shaza firma con una label indipendente che scommette sul valore narrativo e creativo del progetto. Non un’operazione costruita a tavolino, ma l’inizio di un cammino che affonda le radici nella verità di chi scrive per orientarsi, anche perdendosi dentro il proprio disordine.

    «Non canto mai qualcosa che non ho provato davvero – spiega l’artista, in conclusione –. Per me scrivere è come trattenere il respiro finché non trovi la parola giusta. E quando arriva, senti che puoi ricominciare a respirare.»

    Con “Anche se Piove (platinum version)”, il messaggio arriva senza fragore, ma resta. Esistono ancora canzoni che non cercano di convincere, ma semplicemente di esserci. Anche se piove.

  • “Animale ‘e Città” di Eric Mormile: un brano per raccontare le piccole gioie che resistono al logorio della vita moderna

    C’è un momento preciso, in ogni weekend, in cui le strade iniziano a cambiare ritmo. I turni finiscono, i tram si svuotano, e una città che corre tutto il giorno si concede una tregua: è l’ora in cui ognuno torna ad essere semplicemente se stesso. È in quell’attimo che si inserisce “Animale ‘e Città“, il nuovo singolo di Eric Mormile, cantautore e polistrumentista napoletano, già riconosciuto per una cifra raffinata, consapevole e sempre in dialogo con le proprie radici.

    In un’Italia che spesso confonde il tempo libero con un lusso da meritarsi, “Animale ‘e Città” restituisce centralità e dignità al diritto al riposo: concedersi un momento di leggerezza, qualunque sia il proprio lavoro, percorso o condizione. È un brano che fotografa quella transizione settimanale in cui il dovere cede, anche solo per poco, il passo al piacere, e in cui è necessario, per il nostro equilibrio, reclamare il diritto a stare bene, almeno per una sera. Con la sua penna immaginifica, da sempre in grado di unire introspezione, profondità, ironia e concretezza, Mormile racconta la città nella sua veste più vera: quella fatta di stanchezza, risate, attese e libertà temporanee. Il fine settimana diventa così lo spazio in cui si ritrova un’umanità viva, spesso invisibile nei giorni feriali.

    Quello di Eric è un canto alla normalità che resiste, tra precarietà e speranza, l’espressione di un desiderio semplice e collettivo di svago che accomuna operai, studenti, disoccupati e professionisti. “Animale ‘e Città” tratteggia con lucidità quella condizione condivisa da molti, in cui la libertà coincide con poche ore rubate al tran tran settimanale. Il testo mette al centro il diritto, spesso trascurato, al tempo libero, anche quando la realtà economica è incerta: «comme na foto ferma ‘o tiempo int’ ‘e rresate pure ‘e chi nun tene ‘a mesata» («Come una fotografia che ferma il tempo dentro le risate anche di chi non ha lo stipendio»).

    Nato nel 2018, il brano ha trovato la sua forma definitiva oggi, all’interno di un nuovo corso artistico in cui Mormile ha deciso di lasciare da parte le narrazioni più cupe per abbracciare una visione luminosa e costruttiva.

    «Questo brano è un invito a concedersi il diritto di deviare, almeno una volta a settimana, da tutto ciò che ci incatena – spiega l’artista -. La felicità non è un privilegio di pochi, ma un bisogno comune, che passa anche da una risata in buona compagnia.»

    Dal punto di vista musicale “Animale ‘e Città” attinge alle sonorità morbide e solari del Soft Rock americano di matrice Yacht Rock, un genere molto in voga in California tra l’inizio degli anni 70 e la prima metà degli anni 80, oggi rivalutato, anche tramite la ridenominazione, come manifesto sonoro di un’epoca sospesa tra edonismo e ricerca di equilibrio. Tra le influenze dichiarate, spiccano Toto, The Doobie Brothers, Steely Dan e Pages. Riferimenti scelti non solo per stile ma per affinità emotiva: il brano, che sarà inserito nel nuovo album del cantautore partenopeo, in uscita nei prossimi mesi, è infatti ispirato da un viaggio in California che ha lasciato un’impronta indelebile nel suo immaginario. La copertina è un elaborato grafico a cura dello stesso Mormile, realizzato a partire da una foto scattata da Ocean Jaramillo, cugina di secondo grado dell’artista, durante quell’esperienza.

    Nel periodo in cui scriveva “Animale ‘e Città”, l’artista attraversando un passaggio di vita importante, come lui stesso racconta:

    «Avevo bisogno di rimettere ordine tra chi ero e chi stavo diventando. Scrivere questa canzone mi ha aiutato a capire che anche le parentesi leggere hanno valore. A volte la libertà è solo potersi permettere di ridere con chi ami.»

    Ad accompagnare la release, il videoclip ufficiale girato a Bagnoli, uno dei quartieri più simbolici della Napoli contemporanea, oggi al centro dell’attenzione per i continui sciami sismici che colpiscono l’area flegrea, scelto dall’artista per ricordare che anche nelle zone ferite della città si può continuare a vivere, a creare e a sorridere.

    «Tenevo molto a mostrare un’altra faccia del territorio – prosegue Eric – quella della sua vitalità, della sua gioia, della sua forza. Qui non ci sono solo tragedie, ma persone che vivono, ridono e si stringono l’un l’altra.»

    A rafforzare questo messaggio, la presenza di amici e persone care nel video – volti familiari che diventano parte integrante della narrazione, regalando autenticità e calore alle immagini. Tra i partecipanti compaiono Elvira Fiore, Elia Isaia, Enrico Rolfi, Salvatore Morra, Antonietta Di Marzo, Nirmal Tremolaterra, Attilio Apa, Ettore Mariotti e Manuela Mari.

    «Ho voluto coinvolgere le persone a me più care in questo video, perché la città è fatta prima di tutto da chi la attraversa ogni giorno con dignità e ironia.»

    Un cameo collettivo che trasforma il videoclip in un album di “famiglia urbana”, sincera e spontanea.

    La produzione musicale è firmata dal Maestro Nino Pomidoro, mentre il video porta la regia di Michele De Angelis per Midea Video. Il testo, come da tradizione per l’artista, è stato supervisionato dal Maestro Salvatore Palomba, autore della celebre “Carmela”. Mormile si è impegnato in prima persona su tutte le tracce strumentali e vocali, lavorando minuziosamente sulle armonizzazioni, ispirate alla timbrica calda e piena di Michael McDonald.

    Quella cantata da Eric è una città che ride nonostante tutto, che si concede alla spensieratezza per sopravvivere. La Napoli che emerge non è quella cartolina, né quella delle tragedie, ma quella reale: fatta di quartieri, di turni che finiscono tardi e di gente che balla con le tasche vuote ma il cuore acceso.

    «Con “Animale ‘e Città” – conclude Mormile – ho voluto cantare non solo il desiderio di evasione, ma il diritto a coltivare le proprie piccole oasi di benessere, senza sentirsi in colpa o fuori tempo. In una società che corre troppo e pretende sempre di più, abbiamo il dovere di ricordarci che ogni tanto fermarsi non è un lusso, è resistenza.»

    Con questo singolo, Eric Mormile conferma la direzione di un nuovo progetto musicale che verrà svelato mese dopo mese nel corso del 2025, un percorso che celebra i piaceri quotidiani attraverso un sound solare, internazionale e personale.

    Un messaggio semplice, ma di grande valore. Che parla al lavoratore che sogna la birra del sabato sera, al precario che aspetta il venerdì per sentirsi parte del mondo, al ragazzo che balla per dimenticare il colloquio andato male. A tutti coloro che vivono la città senza arrendersi. È questa coralità che rende “Animale ‘e Città” una canzone non solo attuale, ma necessaria, che ci ricorda che il tempo per noi stessi non è un lusso, è un diritto, e che a volte, la vera libertà consiste ne darsi il permesso di ridere.

  • Un brano sul ghosting che non cerca colpevoli, ma racconta chi resta: Niko e “Anime Perse”

    C’è un modo di perdersi che non fa rumore. Non è il litigio, non è il dramma di un addio. È il silenzio che cala improvvisamente, lasciando solo domande senza risposta. Relazioni interrotte senza spiegazioni, amicizie dissolte senza un perché. “Anime Perse” (INDACO/Altafonte Italia/ Needa Records), il nuovo singolo di Niko, è il racconto di un’esperienza generazionale: il vuoto lasciato da chi scompare senza voltarsi mai indietro.

    Un telefono che non squilla più. Un messaggio letto a cui non è seguita risposta. Un’assenza che si fa presenza costante. Chi è rimasto, prima o poi, ha provato a mettere in fila gli indizi. Cosa ho detto di sbagliato? Cosa ho fatto? Quando è cambiato tutto? Spesso, però, non c’è un momento preciso. Solo un filo che si spezza e svanisce, lasciando dall’altra parte qualcuno che ancora stringe l’estremità.

    Nel linguaggio contemporaneo, questa dinamica ha un nome preciso: ghosting. Non riguarda solo l’amore, ma ogni tipo di legame e relazione. Secondo uno studio pubblicato dal Journal of Social and Personal Relationships, il 65% delle persone tra i 18 e i 34 anni ha subito almeno una volta nella vita un’interruzione improvvisa e ingiustificata di un rapporto. Un gesto che oggi avviene con un clic. Bloccare un numero, smettere di seguire un profilo, sparire senza dire nulla. Una scelta che diventa sempre più normale, ma che lascia segni e destabilizza chi la subisce. Secondo gli psicologi, il ghosting attiva nel cervello le stesse aree del dolore fisico. Il nostro istinto più primitivo lo legge come un abbandono improvviso, un allontanamento dal branco. Eppure, nel mondo iperconnesso, è diventato la forma più comune di distacco. Un fenomeno amplificato dai social, che ridefinisce il modo in cui le persone si relazionano e si separano. Non c’è un confronto, non c’è una chiusura, solo un vuoto difficile da riempire.

    Eppure, per quanto sia ormai diffuso, se ne parla poco. Il ghosting viene spesso liquidato come una questione privata, un effetto collaterale del nostro tempo. Ma cosa succede quando diventa un’abitudine collettiva, quando cambia la gestione dei nostri legami? Non è più solo una dinamica interpersonale, ma una forma di relazione sempre più accettata, un modello che si estende oltre il privato. Se una generazione intera cresce con l’idea che sparire sia più semplice che spiegarsi, cosa ne sarà del significato stesso dei rapporti interpersonali?

    Niko dà spazio a questa riflessione nella sua musica. Il testo è essenziale, senza concessioni alla retorica. Parla di chi resta con il dubbio, di chi cerca un senso nell’assenza.

    «Ci lasciamo con mille promesse, e poi? Silenzio. Per un po’ cerchi di capire, poi capisci che certe domande non avranno mai risposta» – racconta Niko.

    Non c’è rancore in queste parole, solo una fotografia di qualcosa che accade ogni giorno. Non è un atto d’accusa e non è una richiesta di chiarimenti. Non si rivolge a chi è andato via, ma a chi è rimasto. Ascoltando il brano, ci si trova davanti a una realtà difficile da accettare: alcune persone spariscono, ed è necessario trovare un modo per convivere con il vuoto che lasciano.

    Questo stato di sospensione si riflette in un sound che non esplode, che non cerca un climax emotivo forzato, ma accompagna il testo senza sovrastarlo, lasciando spazio al silenzio tra le parole. Il suono è in bilico, come chi rimane con il dubbio. I silenzi diventano parte della narrazione. Non c’è un punto di rottura, perché spesso non c’è nemmeno nella vita reale.

    C’è chi lo chiama un meccanismo di difesa, chi un atto di egoismo, chi semplicemente il segno di una società sempre più incapace di gestire il confronto diretto. Sparire è diventata una strategia relazionale, un modo per evitare il peso delle emozioni altrui, per non dover dare spiegazioni, per sfuggire alla responsabilità di una fine.

    Ma se da una parte il ghosting protegge e tutela chi lo pratica, dall’altra crea una frattura invisibile ma dolorosa in chi ne è coinvolto. Non avere risposte significa rimanere bloccati in una storia che non si è mai davvero conclusa, vivere con la sensazione di non sapere cosa sia successo, se sia dipeso da noi, se ci sia qualcosa da correggere o capire. Un’interruzione senza delucidazioni è come una pagina strappata da un libro: la storia rimane sospesa, incompleta.

    Il protagonista del brano non cerca di analizzare il perché, non punta il dito e non dà soluzioni. Non implora, non si arrabbia. Accetta il silenzio, e ne fa una presa di coscienza.

    Ma il silenzio non è solo un’assenza. È una presenza invisibile che si insinua nei pensieri, nei gesti, nei luoghi rimasti uguali a prima. È qualcosa che cambia forma, che diventa ricordo, che torna da noi anche quando sembrava svanito. Nel videoclip ufficiale di “Anime Perse”, diretto da Lorenzo Diego Carrera per Needa Production e presentato in anteprima su Sky TG24, questo vuoto prende corpo in immagini che parlano senza bisogno di parole.

    Un uomo cammina attraverso spazi sospesi tra sogno e realtà. Indossa una maschera che lo nasconde, lo protegge, ma che è destinata a cadere. Il video costruisce una narrazione visiva che si muove tra il concreto e il simbolico, alternando luoghi reali e scenari onirici in cui i confini tra il dentro e il fuori si dissolvono. Foreste avvolte nella nebbia, campi dorati al tramonto, superfici riflettenti che moltiplicano l’immagine del protagonista. Tutto si muove attorno a un unico tema: la trasformazione. Il protagonista attraversa questi paesaggi portando addosso un’identità che non gli appartiene più, fino al momento in cui smette di nascondersi. La maschera che indossa non è solo un oggetto scenico, ma il simbolo del conflitto con sé stessi, della paura di lasciarsi vedere per quello che si è. La sua caduta non è un gesto eclatante, non è una rottura violenta. È un passaggio naturale, inevitabile.

    L’intera estetica si muove tra minimalismo e surrealismo. Le scelte cromatiche rafforzano questa sospensione tra due mondi. I toni freddi della natura si alternano ai bagliori dorati della luce, creando una dimensione che oscilla tra essenzialità e astrazione. Il protagonista appare sospeso in un vuoto liquido, come se stesse abbandonando il peso del mondo. I riflessi distorti che lo circondano richiamano il disorientamento, la molteplicità delle possibilità, la ricerca di un nuovo equilibrio. Alla fine, senza più maschera, rimane solo la sua figura rivolta verso l’orizzonte. Nessuna spiegazione, nessuna chiusura forzata. Solo un’immagine che lascia spazio a chi guarda, permettendo a ciascuno di trovarci la propria storia.

    Il video di “Anime Perse” non è una rappresentazione letterale del brano, ma un’estensione visiva del suo significato, come spiega lo stesso artista:

    «Non volevo un video che spiegasse il testo, volevo immagini che potessero rimanere impresse anche senza musica. A volte è più facile restare dentro un’idea di noi che non ci rappresenta più, piuttosto che affrontare il vuoto che lascia il cambiamento. Questo video racconta quel passaggio: la paura, il conflitto e poi la decisione di andare avanti.»

    Ma non tutti affrontano quel vuoto. A volte il cambiamento non si sceglie, si elude. Ci si allontana senza voltarsi indietro, lasciando agli altri il compito di dare un senso all’assenza. Il ghosting è fatto di distanze che non si colmano, di parole non dette che restano sospese. Forse il vero addio non è chiudere una porta, ma lasciarla socchiusa senza mai tornare. In “Anime Perse”, scritto e composto in collaborazione con Alessandro Salvati e Andrea Ravasio, Niko dà luce a queste assenze, rendendole una presenza che non si può ignorare. Perché in fondo, ciò che svanisce senza spiegazioni resta sospeso, proprio come una storia senza l’ultima pagina.

  • Un padre, una figlia e il silenzio tra loro: Vi Skin ne fa musica, emozione e cura

    Un pugno nello stomaco. Un grido silenzioso. Una lettera mai spedita. “Mi avevi perso già” (Pako Music Records), il nuovo singolo di Vi Skin, è tutto questo e molto di più. È la storia di una bambina che ha cercato per anni lo sguardo di un padre fisicamente presente, ma emotivamente assente. È la voce di chi cresce nel silenzio di chi dovrebbe esserci, ma non c’è stato come avremmo voluto. È un pezzo che scuote, scava nell’anima, risveglia ferite sopite e le lascia respirare per trasformarle in consapevolezza e, finalmente, guarirle.

    Un colpo al cuore, una canzone che squarcia il silenzio: «Sai, papà un giorno ti mancherà la tua bimba che ti chiederà “Ti va di giocar con me, papà?”». Ferite invisibili che segnano l’intera esistenza e che Vi Skin racconta senza filtri. Senza retorica, senza edulcorazioni, senza paura.

    Perché il bisogno di essere visti, accettati e amati non è mai un capriccio. È una necessità che definisce chi siamo. In un’epoca di apparenze, superficialità, like e filtri, l’attenzione è diventata una moneta di scambio. Ma qui non si parla di visibilità effimera: si parla del bisogno viscerale di essere visti da chi, per primo, ha il compito di insegnarci a guardare noi stessi e il mondo con occhi curiosi e comprensivi.

    Ma cosa succede quando quella comprensione e quell’amore non arrivano nella maniera sperata? Vi Skin risponde con versi che graffiano.

    «Quanti “Non posso”, “Non voglio”, “Non posso”» sono le parole non dette, i gesti mancati, gli sguardi sfuggiti. Il testo di “Mi avevi perso già” si sviluppa come un monologo interiore che ripercorre l’infanzia di una bimba in cerca di attenzione, fino alla presa di coscienza di un’adulta, una donna che ha imparato a bastare a se stessa: «Mi voglio bene quando scrivo, allora scrivo, scrivo, scrivo, scrivo».

    Vi Skin non cerca pietà né vuole dipingersi come una vittima. Al contrario, attraverso questo brano, si fa portavoce di chi si sente inascoltato. Una realtà che accomuna molti giovani, spesso incapaci di trovare il sostegno emotivo di cui avrebbero bisogno all’interno delle mura di casa. Non è un atto d’accusa, ma una riflessione sincera su un’ombra invisibile più comune di quanto si creda.

    Lo dimostrano i numerosi messaggi che l’artista ha ricevuto da ragazzi e ragazze che si sono riconosciuti nelle parole delle sue canzoni. Giovani che hanno trovato nella sua musica quella comprensione e vicinanza che non riescono a trovare in famiglia. Per loro, la musica diventa un rifugio, uno spazio sicuro in cui sentirsi visti e ascoltati. E “Mi avevi perso già” è anche per loro, come afferma la stessa Vi Skin:

    «Con questo brano ho cercato di dare voce alle grida silenziose dei molti giovani che mi scrivono, raccontandomi di non sentirsi compresi, capiti, accettati dai propri genitori. Spero che i versi e le note che ho scritto, possano rompere quei muri di incomprensione e indifferenza che sembrano insormontabili, portando le persone a riflettere e ad avvicinarsi, convertendo i silenzi in parole comprensive e accoglienti.»

    La mancanza di dialogo in famiglia è una carenza che, secondo le ricerche più recenti, lascia cicatrici profonde sulla salute mentale e sulle relazioni future. Secondo uno studio dell’Università di Harvard, infatti, il legame affettivo con la figura paterna influisce direttamente sull’autostima, sulla sicurezza emotiva e sulla capacità di costruire legami sani. Chi cresce senza quel riconoscimento può sviluppare insicurezze, ansie e difficoltà relazionali. Vi Skin riesce a dare voce a tutto questo con un realismo che non fa sconti, in un pezzo che potrebbe diventare il punto di riferimento per chi ha vissuto esperienze simili, offrendo un senso di riconoscimento e appartenenza. Perché la musica ha questo potere: far sentire meno soli.

    E quando le parole restano bloccate in gola, quando un mancato confronto si tramuta in vuoto, c’è chi si lascia sopraffare e chi, invece, trova un modo per sopravvivere e poi rinascere. Vi Skin ha scelto di ripartire da se stessa, e lo esprime in un verso che racchiude straordinariamente l’essenza dell’intero brano:

    «Ti ho sostituito con uno spartito.»

    Ed è così che l’eco di distanza che chiedeva di essere colmata si riempie di suono, dando forma al silenzio e diventando, finalmente, qualcosa che può essere ascoltato, accolto e, per la prima volta, davvero compreso.

    L’artista non cerca risposte, non cerca vendetta, ma esprime una consapevolezza maturata nel tempo: essere genitori è difficile. Anche quando ci si impegna al massimo, non sempre si possiedono gli strumenti – emotivi e relazionali – per farlo al meglio. Ogni genitore offre ciò che può, e a volte questo non è sufficiente. Ma riconoscerlo è parte del percorso di crescita.

    «Da bambini vediamo i nostri genitori come eroi – conclude Vi Skin -. Crescendo, ci rendiamo conto che sono persone, con fragilità, limiti e storie non sempre semplici. E, come tutte le persone, commettono errori. Ma fanno del loro meglio con ciò che sanno e possono dare. Spetta a noi riconoscere ciò che abbiamo ricevuto, liberarci dei fardelli che non ci appartengono e provare a migliorare quello che possiamo. Solo così possiamo davvero crescere e costruire la nostra felicità.»

    In un’epoca in cui il dibattito sulla salute mentale è più acceso che mai, canzoni come questa non sono solo musica: sono una terapia emozionale, uno strumento di sensibilizzazione, una cura per l’anima.

    Il dolore esiste, è reale, ma può tradursi in forza. E spetta soltanto a noi avviare questa conversione.

    “Mi avevi perso già” è come uno specchio. Ti ci guardi dentro e ci trovi un’assenza, un nodo in gola, un’emozione che non sapevi di avere. Non sempre la sofferenza si può spiegare, ma può essere cantata. E quando una voce riesce a farlo, non resta che ascoltarla. È un brano che lascia il segno, scavando a fondo, senza paura di toccare corde scomode e far male. Perché solo facendo i conti con il proprio passato e dando un nome a ciò che ci ha segnato possiamo, finalmente, voltare pagina e iniziare a vivere.

  • Burn-out emotivo e abitudine sentimentale: “MOMENTO” di KAWAKAMI è la canzone che parla a tutta una generazione

    Ciò che non uccide fortifica. Quante volte ci si trova accanto a qualcuno senza sapere più se ci stia davvero guardando? È da questa domanda che nasce “MOMENTO”, il nuovo singolo di KAWAKAMI, disponibile su tutte le piattaforme digitali per Keyrecords/KMusic con distribuzione ADA Music Italy. Dopo l’ibridazione culturale di “Gitana”, l’artista milanese classe 1999 torna con una traccia intima ma lucida, in bilico tra malinconia e resistenza, che racconta cosa accade quando il sentimento si ritrova imbrigliato nella routine, e l’amore non basta più a coprire le crepe del quotidiano.

    Un brano che mette a fuoco l’esatto momento in cui si smette di essere certi e si comincia a cercare conferme. Quell’istante in cui le parole si fanno preghiera, la consuetudine diventa abitudine e l’unico appiglio resta chiedere: «Per un momento, chiedimi che cosa penso».

    Una domanda che non riceve risposta, uno sguardo che sfugge e parole trattenute troppo a lungo. E in amore, così come nella vita, c’è chi resta e chi si allontana, anche stando nella stessa stanza. Ed è così che alla fine, quella voce che prima confortava, ora confonde: «Lasciami stare, perdo il respiro, voglio sbagliare, sono sola per un po’».

    In un’epoca in cui il tempo sembra sfuggire dalle nostre mani e le relazioni soffrono la pressione di questa velocità, “MOMENTO” diventa parte di un discorso urgente: secondo l’Istat, quasi un terzo delle giovani coppie italiane si separa entro i primi 5 anni di relazione, e il 68% cita come causa principale “l’incapacità di comunicare e condividere”. In questo senso, il brano assume i tratti di un racconto generazionale, collettivo, in cui il disincanto affettivo si intreccia con l’incapacità diffusa di stare davvero dentro il presente emotivo di sé e dell’altro.

    “MOMENTO” intercetta il punto in cui ci si sente più soli: non quando l’amore finisce, ma quando comincia a trasformarsi in qualcosa che non riconosciamo più. Secondo un’indagine condotta dall’Università Cattolica di Milano, oltre il 70% dei giovani adulti italiani dichiara di avere difficoltà nel parlare apertamente con il partner dei propri bisogni affettivi. In questo contesto, il silenzio non è più solo una pausa, ma una voragine. KAWAKAMI restituisce questa frattura senza alcuna sovrastruttura, scegliendo la nudità del dubbio come forma narrativa. E proprio perché non forza un significato e non offre facili soluzioni, il pezzo lascia spazio a quel margine sottile in cui si smette di comprendere l’altro, ma non si ha ancora il coraggio di ammetterlo. È lì che “Momento” si ferma: in quel punto cieco dove le cose cambiano senza che nessuno riesca a dirlo ad alta voce.

    «Scrivere “MOMENTO” è stato come fermare un fotogramma di qualcosa che stava per sfuggirmi – racconta l’artista -. Avevo bisogno di capire se quella persona mi vedeva ancora per davvero, o solo per abitudine. È difficile restare, ma è ancora più difficile sentirsi dimenticati mentre si è presenti.»

    La produzione, firmata da Luigi “CALMO” Ferrara e Luca Notaro, veste il brano di un abito essenziale e caldo: un’anima R&B attraversata da scale blues, su cui la voce di KAWAKAMI si muove con misura e consapevolezza. Tra radici urban, venature soul e aperture melodiche che sfuggono alle etichette, frammenti quotidiani si intrecciano a pensieri quasi sussurrati che sembrano una confessione. Perno del progetto resta la direzione artistica di Kaizèn, capace di accompagnare l’artista in un’alternanza di pieni e vuoti, prendendo per mano l’ascoltatore e guidandolo in uno spazio disarmato, non protetto ma sicuro e privo di giudizio, dove anche il non detto ha un peso.

    In questo equilibrio sottile tra presenza e assenza, tra parole dette e trattenute, si coglie e si fa sempre più evidente una scelta precisa: il tono. La decisione di mantenere una scrittura sobria ma diretta, anche nei versi più netti, è una delle cifre distintive di “MOMENTO”. KAWAKAMI attraversa il disorientamento con parole semplici, mai gridate, ma che restano addosso: «Stessa bocca con lo sguardo perso, mi cerchi ancora ma… siamo tutte prese male». Una frase che descrive non solo la crisi della coppia, ma una generazione che fatica a comunicare davvero, risucchiata da automatismi, burn-out affettivi e una quotidianità che spesso spegne il desiderio prima ancora di dichiararne la fine.

    «”MOMENTO” non è un addio – conclude la cantautrice milanese -. È il tentativo di capire se esiste ancora un punto d’incontro prima che tutto svanisca. È quel minuto di silenzio tra due persone che si sono amate, in cui si decide tutto.»

    Con un tono maturo, mai retorico, “MOMENTO” mostra un lato più vulnerabile e riflessivo dell’artista, già protagonista con “Gitana”, “Altrove” e “Fiori di Carta“, brani che le hanno permesso di conquistare playlist editoriali di spicco come “Scuola Indie” e “Anima R&B”. Il suo stile unico e fortemente riconoscibile, minimalista nelle immagini ma intenso nel significato, riesce a raccontare incrinature, fragilità e distanze affettive senza costruzioni.

    Con “MOMENTO”, KAWAKAMI ci guida in uno spazio silenzioso e necessario, in cui ci si può permettere di vacillare senza sentirsi sbagliati. Un invito a fermarsi, sedersi uno accanto all’altro, e ricominciare a chiedersi a vicenda cosa si prova. Perché a volte, basta un solo momento per cambiare tutto.

  • Autismo: tra ipersensibilità e bellezza nascosta. Il nuovo singolo di Giordano Amici è un volo metaforico oltre i confini della percezione

    Il silenzio, il rumore, le sensazioni amplificate e le parole che sfuggono. Un universo che spesso sembra troppo veloce, troppo caotico, troppo difficile da decifrare. Con “Dove tutto è possibile” (Pako Music Records/Believe Digital), il nuovo singolo di Giordano Amici, il cantautore romano si fa interprete dell’esperienza vissuta da chi convive con il Disturbo dello Spettro Autistico, restituendo uno sguardo intimo e rispettoso su una condizione che riguarda un bambino su 77 solo in Italia, secondo gli ultimi dati dell’ISS.

    Disponibile su tutti i digital store dal 2 aprile, in occasione della Giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo, il brano non vuole spiegare, ma accompagnare, in un cammino di sensibilizzazione e comprensione. E lo fa con la delicatezza che contraddistingue da sempre la scrittura di Amici, da anni impegnato nella narrazione di tematiche sociali: una canzone che racconta l’autismo dall’interno, in prima persona, dando voce a chi troppo spesso resta inascoltato.

    Il testo di “Dove tutto è possibile” è una finestra aperta su un orizzonte fatto di percezioni sottili, dettagli che diventano essenziali e sensazioni che sfuggono alle definizioni comuni – «Nel mio mondo silenzioso di colori e sfumature, diverso è il rumore, nella mente più di un fiore» -. Parole che portano l’ascoltatore dentro una quotidianità differente, quella di un ragazzo autistico, traducendone le difficoltà e la bellezza della sua visione del mondo, fatto di suoni amplificati, gesti che assumono significati propri e una ricettività che segue traiettorie tutte da scoprire. «La folla è un grande mare» e il silenzio può diventare assordante, ma ogni cosa ha un proprio ritmo, una propria logica, un proprio spazio di libertà.

    Quello di Giordano è un approccio che non si ferma alla superficie, ma ci spinge a riflettere su quanto il nostro modo di percepire la realtà sia solo uno dei tanti possibili.

    «Ognuno ha il proprio modo di sentire, comunicare e vivere – spiega -, e credo sia fondamentale provare a comprendere queste diversità, accoglierle, rispettarle.»

    L’autismo è definito “spettro” per la sua vastissima gamma di sfumature. Chi vive questa condizione sviluppa un’interpretazione unica di ciò che lo circonda, e il brano di Amici evita qualsiasi semplificazione, scegliendo piuttosto di trasmettere un’emozione autentica, senza retorica.

    Molti studi dimostrano che l’autismo altera la percezione sensoriale, facendo sì che suoni, luci e contatti fisici vengano elaborati in modo amplificato o, al contrario, quasi ovattato. Secondo la National Autistic Society, oltre il 70% delle persone a cui è stata diagnosticata una forma di autismo sperimenta un’ipersensibilità o un’iposensibilità agli stimoli, un aspetto che influisce profondamente sulla loro interazione con il mondo esterno. Questa caratteristica trova riflesso nella costruzione sonora di “Dove tutto è possibile”, dove gli arrangiamenti guidano l’ascoltatore in un alternarsi di quiete e impeto, di leggerezza e immersione totale, proprio come accade a chi convive con un’elaborazione sensoriale diversa. Il risultato è un’esperienza musicale che non si limita a raccontare, ma fa vivere l’essenza del brano.

    Non è un caso che la musica, da sempre, rappresenti un canale privilegiato di espressione per chi ha difficoltà a comunicare con le parole. La musicoterapia, infatti, ha evidenziato effetti positivi nel migliorare l’interazione sociale, facilitando una connessione più spontanea con l’ambiente circostante e riducendo significativamente i comportamenti ripetitivi e ansiosi associati all’autismo. Una ricerca pubblicata nel 2023 ha confermato che l’ascolto e la pratica musicale possono stimolare entrambi gli emisferi cerebrali, favorendo una maggior consapevolezza emotiva e potenziando le capacità relazionali. “Dove tutto è possibile” utilizza la musica non solo come linguaggio artistico, ma come mezzo per avvicinarsi a chi merita di essere ascoltato.

    Se da un lato il testo descrive la quotidianità di chi vive questa condizione, dall’altro porta con sé un messaggio di fiducia e libertà. Il volo metaforico citato nel ritornello – «Prendi le mie mani, entra nel mio mondo, guarda è magico. Prendi le mie ali, insieme ce ne andiamo dove tutto è possibile» -, simboleggia la possibilità di andare oltre le barriere imposte dagli schemi sociali e dalle difficoltà di comunicazione, riconoscendo la ricchezza di ogni punto di vista.

    Un’immagine che esprime il desiderio di leggerezza, di libertà, la necessità di potersi muovere senza il peso delle aspettative, in un equilibrio che non ha bisogno di essere giustificato.

    «L’obiettivo non è cambiare chi è diverso – conclude Amici -, ma imparare a vedere la bellezza di questa diversità. Ciascuno di noi ha un’interiorità che può essere compresa solo se ci si prende il tempo di osservarla con attenzione.»

    “Dove tutto è possibile”, prodotto da Alessandro Di Somma, rappresenta una delle pagine più toccanti del percorso artistico del cantautore. Un brano che, pur mantenendo un taglio personale, si lega a un tema di attualità sempre più presente nel dibattito pubblico, ponendo l’accento sull’importanza della consapevolezza e dell’inclusione.

    Giordano Amici non è nuovo a progetti di stampo inclusivo. Con “Lara“, ha raccontato il dramma delle dipendenze giovanili, mentre “Fiocco Viola” ha portato alla luce il tema spesso taciuto dell’anoressia maschile. “Dove tutto è possibile” prosegue questo percorso, dimostrando ancora una volta l’urgenza narrativa del suo autore.

    “Dove tutto è possibile” è un’opportunità di guardare oltre, di mettersi in ascolto, di accogliere nuove prospettive. Perché quando scegliamo di tendere la mano a chi vede il mondo con altri occhi, tutto può davvero diventare possibile.

  • Relazioni tossiche e doppia identità: Bennyvi canta ciò che molti vivono e pochi raccontano

    Una doppia personalità, imprevedibile, manipolatoria. È questa l’immagine che Bennyvi immortala nel suo nuovo singolo, “Gemini” (DelmaJag Records). A pochi mesi dal successo di “I Know What You Are“, che ha riscosso numerosi consensi sui principali media italiani, europei e statunitensi e l’ha consacrata come una delle voci più interessanti della nuova scena internazionale, la cantautrice ticinese di origini venete torna con un brano ancora più diretto e graffiante sulle relazioni segnate da ambiguità e narcisismo.

    Secondo recenti dati pubblicati da Psychology Today, il 45% dei giovani tra i 18 e i 30 anni ha vissuto almeno una volta nella vita un rapporto sentimentale tossico, caratterizzato da manipolazione, disequilibrio e forte instabilità. Mai come oggi, le relazioni affettive si giocano su un terreno scivoloso, dove il fascino può trasformarsi in controllo e le promesse in strumenti di dominio. La costruzione dell’identità – amplificata dai social e dalla costante esposizione – crea legami più fragili e volatili, rendendo più difficile riconoscere chi si nasconde dietro una maschera. Il narcisismo è sempre più radicato. Tra manipolazione affettiva, gaslighting e giochi di potere, molte persone si trovano intrappolate in rapporti in cui l’altro costruisce una versione di sé affascinante e irresistibile, salvo poi rivelare il proprio lato più freddo e calcolatore. L’incertezza e la contraddizione diventano pericolose armi di controllo, che alimentano dipendenza e senso di inadeguatezza. Un fenomeno amplificato dall’iperconnessione digitale, dove l’apparenza regna sovrana e le emozioni vengono spesso distorte o mercificate.

    Un ciclo di attrazione e distruzione che segna chi ne rimane coinvolto, rendendo sempre più complesso distinguere tra sincerità e strategia. È proprio su questa dinamica, così reale e attuale, che Bennyvi ambienta la narrazione di “Gemini”: la storia di un amore che si rivela ingannevole, fino a sgretolarsi sotto il peso della sua stessa ambiguità, in cui l’altro mostra due volti opposti, capaci di sedurre e ferire con la stessa rapidità.

    Su una produzione dal respiro internazionale, che richiama le hit d’Oltreoceano, “Gemini” intreccia pop ed elettronica con un ritmo incalzante scandito da clapping ritmici. Il sound si muove a mezz’aria tra le atmosfere confessionali di Taylor Swift, l’energia ruvida di Olivia Rodrigo e la fluidità sofisticata di Sabrina Carpenter, creando un contrasto netto, un gioco di specchi che ribalta gli equilibri.

    Bennyvi mette in scena un protagonista che cambia volto con una facilità disarmante, alternando lusinghe e menzogne. Una stabilità precaria che prende forma nei versi «Good lie, bad guy. Funny how the more you talk the less I believe you. Good time, good bye. For someone that’s two faced you’re terribly heartless.» («Bella bugia, cattivo ragazzo. Curioso come più parli meno ti credo. Bei momenti, addio. Per essere una persona con due facce sei terribilmente senza cuore.»)

    C’è qualcosa di familiare per molti in questa storia, una trama sottile e ricorrente che si insinua nelle relazioni e le svuota dall’interno. Il confine tra carisma e inganno è labile, e spesso si riconosce solo a posteriori, quando le parole che ammaliavano diventano schemi, gabbie che limitano, soffocano.

    «Scrivere “Gemini” è stato catartico – racconta Bennyvi -. Ho voluto mostrare come facilmente possiamo cadere nella trappola di chi ci mostra solo una parte di sé, nascondendo un’anima opposta e pericolosa. È fondamentale imparare a riconoscere questi meccanismi per proteggere sé stessi e la propria indipendenza.»

    Questa dualità spietata si fa strada nei versi, tra richiami ripetuti e immagini che si contraddicono, restituendo il senso di un’attrazione ambigua, che affascina e spaventa al contempo: «Gemini gemini. Which one of you will make me cry, make me cry? You’re such a gemini, gemini. For someone that’s two faced you’re terribly heartless.»(«Gemelli gemelli. Quale di voi mi farà piangere, mi farà piangere? Sei proprio un gemelli, gemelli.»)

    “Gemini” è anche il penultimo tassello prima della pubblicazione del tanto atteso EP d’esordio, che Bennyvi lancerà entro l’anno e che porterà alla luce una visione musicale ancora più matura e identitaria.

    «La musica deve anche far riflettere e aiutare a comprendere – conclude la cantautrice svizzera -. “Gemini” racconta esperienze che molti vivono senza riuscire a dare loro un nome. Riconoscerle è il primo passo per riprendere il controllo della propria emotività e della propria vita, diventando più consapevoli di sé e del proprio valore, anche nelle situazioni più difficili.»

    “Gemini” è un promemoria per una generazione che deve imparare a riconoscere le maschere dietro i sorrisi. Bennyvi utilizza la musica come strumento di lucidità, perché spesso ci rendiamo conto troppo tardi della vera natura di chi abbiamo accanto e del nostro valore personale. Aspetti imprescindibili da riconoscere in tempo, per proteggersi e vivere rapporti che non tolgano, ma arricchiscano entrambe le parti.

  • Un singolo, una scelta, una generazione: Giuseppe Incorvaia torna con “Evoluzione”

    Cosa conta di più: il brivido della novità o il valore di ciò che già abbiamo? È il dilemma che tormenta una generazione cresciuta con tutto a portata di mano, e che oggi si interroga sul valore della fedeltà. Giuseppe Incorvaia lo racconta in musica con “Evoluzione” (Greyscompany), un singolo che non parla solo d’amore, ma di una scelta che ognuno, prima o poi, si trova ad affrontare: resistere alla tentazione o lasciarsi tentare?

    Viviamo nell’epoca dell’”usa e getta sentimentale”, in cui il 67% delle persone tra i 25 e i 40 anni, secondo recenti sondaggi sulle dinamiche relazionali, ha ammesso di aver messo in discussione una relazione stabile per un’attrazione improvvisa. E non è solo un pensiero passeggero: l’infedeltà è un fenomeno in crescita. Un’indagine europea del 2024 rivela che il 58% degli italiani ha tradito almeno una volta il proprio partner. Nel Belpaese, inoltre, i casi di infedeltà coniugale sono aumentati del 18% nell’ultimo anno, con il 64% dei tradimenti attribuiti a donne che hanno tradito il proprio marito o fidanzato. E se questi numeri fossero la prova che il protagonista di “Evoluzione” non è solo? Che quel dubbio, quel bivio, è più diffuso di quanto pensiamo? Questi dati lo confermano: oggi più che mai, il fascino di qualcosa di nuovo può mettere in crisi ciò che già si ha. “Evoluzione” è il racconto di quell’istante, l’esatto momento in cui la testa dice no, ma il cuore esita.

    «Sei la più bella del mondo, ma non sei uguale a lei», canta Incorvaia. Perché la tentazione può essere forte, ma il confronto con la realtà è inevitabile.

    «Viviamo in un’epoca in cui tutto si brucia in fretta – racconta l’artista -. Cambiare sembra più facile che restare, ma siamo sicuri che sia davvero così? Questa canzone non dà risposte, ma racconta quel contrasto di emozioni che tanti hanno vissuto. Non è solo una storia d’amore, è una storia di scelte.»

    E proprio sulle scelte si gioca tutto. A volte basta un attimo per cambiare il corso di una storia: un incontro inaspettato, uno sguardo, una scintilla. Il cuore accelera, la razionalità vacilla. Buttarsi o fermarsi?

    “Evoluzione” è il suono di una passione che dura tre giorni, ma lascia dentro un fremito che non svanisce. Tre giorni sospesi, in cui tutto sembra possibile, fino a quando la realtà si fa spazio tra il desiderio e la razionalità.

    «Stasera lasciami stare, non te lo dico più», prosegue il brano, descrivendo l’incanto che si infrange e l’euforia iniziale che si scontra con il peso delle conseguenze. Il trasporto lascia spazio alla lucidità, il fuoco della tentazione si affievolisce per spegnersi davanti alla consapevolezza. Il protagonista sa di dover scegliere, e quella scelta pesa più di quanto avrebbe immaginato.

    Il titolo “Evoluzione” non è casuale. Non è solo il tema del brano, ma anche il percorso musicale che Incorvaia ha scelto di intraprendere. Il sound è più pulito, più essenziale, con uno xilofono sintetizzato che accompagna la narrazione senza sovrastarla.

    «Non volevo un pezzo che suonasse come i precedenti – spiega -, volevo che si sentisse il cambiamento. La musica è fatta di evoluzioni, proprio come la vita.»

    Il dilemma raccontato nel pezzo non è solo personale, ma generazionale. In un’era di scelte rapide e connessioni fugaci, la canzone tocca una fragilità tangibile: quanto vale ancora la fedeltà ai sentimenti? “Evoluzione” è la colonna sonora di questo dubbio. Senza moralismi, senza giudizi. Solo con la realtà nuda e cruda.

    Il singolo segna un punto di svolta anche per Giuseppe Incorvaia. Cantautore con oltre trent’anni di carriera, ha iniziato giovanissimo grazie all’intuito di Gianfranco Busnelli, che lo scoprì a soli 15 anni. Nel 1993 pubblica i suoi primi inediti con i fratelli La Bionda, entrando poi nella Cecchetto Gang. Negli anni, scrive oltre 30 brani, e oggi sente il bisogno di tornare in prima linea con una canzone che rappresenta il suo nuovo capitolo artistico. Con una carriera che attraversa tre decenni, Incorvaia ha sempre avuto un obiettivo chiaro: raccontare storie vere, con parole essenziali, dirette, senza artifici.

    «Ogni mia canzone nasce da una verità – conclude -. “Evoluzione” è quella scelta che prima o poi tocca tutti. C’è chi la fa d’istinto, chi la rimanda, chi la subisce. Ma nessuno può evitarla.»

    Un ritorno, un passo avanti, un cambiamento reale. Incorvaia porta avanti una ricerca artistica che non si è mai fermata, e che oggi trova una nuova direzione. “Evoluzione” è un racconto di scelte e contraddizioni che spinge a farsi domande. E forse, anche a trovare qualche risposta.

  • La musica non è mai stata così politica: Lecicia Sorri sfida il sistema con il suo primo EP

    Nel diritto penale, l’articolo 110 stabilisce il concorso di persone in un reato. Per Lecicia Sorri, anagramma e pseudonimo di Cecilia Rossi, è invece la dichiarazione di un “crimine” musicale condiviso con Otus_Medi, il produttore con cui ha dato vita a “art. 110, 1° co.“, il suo debut EP che sovverte le regole e trasforma la musica in un manifesto politico e sociale.

    Sei tracce che, tra elettronica, cassa dritta e liriche taglienti, mettono in discussione il concetto stesso di confine: politico, sociale, interiore.

    Dall’emergenza ambientale alla critica delle frontiere geopolitiche, dal transfemminismo alla lotta contro l’oppressione, ogni brano è una miccia accesa sotto i dogmi culturali.

    «L’arte è un atto di sovversione, ma anche di costruzione – spiega Lecicia -. In un momento storico come questo, non può essere fine a se stessa. Questo EP nasce da una necessità urgente, quasi un obbligo morale: non posso restare in silenzio mentre l’umanità va verso l’estinzione. Ho il privilegio di poter parlare, di avere un tetto sopra la testa, e credo che chi può farlo abbia il dovere di amplificare le voci di chi non viene ascoltato.»

    Il disco nasce dall’incontro con Otus_Medi, produttore e musicista napoletano che ha saputo dare forma sonora alle visioni dell’artista bolognese, creando una dimensione musicale che oscilla tra pop, techno, ambient, industrial ed elettronica sperimentale. Un dialogo a distanza, un incastro perfetto tra liriche dirette e sound ibrido, che ha reso questo progetto un terreno di sperimentazione e libertà creativa.

    Anche l’immagine visiva del progetto nasce da un processo di collaborazione spontaneo. La copertina dell’EP è frutto dell’incontro tra l’illustratore toscano naturalizzato bolognese Claudiano.jpeg ed Elena Marrone, in arte Ananpoptosi, disegnatrice e amica dell’artista. La loro elaborazione grafica ha aggiunto un ulteriore livello di interpretazione, decorando e arricchendo l’artwork senza snaturarne l’essenza.

    Per Lecicia Sorri, scrivere e cantare non sono solo una forma di espressione artistica: sono anche un mezzo per immaginare e costruire un cambiamento concreto. Da tempo sogna di portare la sua visione oltre il palco, fino alla politica. Perché, se l’arte può scuotere coscienze e abbattere barriere, allora può anche aprire la strada a nuove possibilità di trasformazione sociale.

    Un principio che si riflette anche nel titolo del progetto: “art. 110, 1° co.”, richiama il concetto di collaborazione, ma lo trasforma in un gioco di senso: la musica come atto collettivo, il suono come azione sovversiva, la parola come strumento di resistenza. L’EP è un viaggio attraverso storie e immagini che spaziano dall’introspezione più profonda alla critica sociale più feroce, mantenendo sempre un tono ironico e consapevole, capace di alleggerire anche i temi più spigolosi senza mai banalizzarli.

    Oltre la musica ci sono i numeri di una crisi che attraversa il mondo: “art. 110, 1° co.”, infatti, non è un semplice intreccio di brani racchiusi in un concept, ma è uno sguardo sulla realtà attraverso il suono. Ogni traccia tocca un tema caldo e cruciale del nostro tempo, supportato da dati che raccontano la portata globale di questa crisi:

    • Crisi climatica. Secondo il rapporto IPCC, le temperature mondiali sono aumentate di oltre 1,1°C rispetto all’era preindustriale, con il 2023 tra gli anni più caldi mai registrati. Nel brano “Ghiacciaio”, l’amore diventa il riflesso della fragilità del pianeta: «Bombardan l’amore, anche all’ombra si muore
    • Confini e migrazioni. L’ONUstima che nel 2023 oltre 110 milioni di persone siano state costrette a lasciare la propria casa a causa di conflitti, persecuzioni o cambiamenti climatici. “Sorri not sorry” – titolo che gioca con il cognome anagrammato della cantautrice -, denuncia il ruolo dei media nella narrazione distorta delle crisi migratorie e delle ingiustizie globali.
    • Violenza di genere. In Italia, nel solo 2023, si sono registrati oltre 120 femminicidi, e nel mondo una donna su tre subisce violenza fisica o sessuale nel corso della vita (dati OMS). Il transfemminismo e la resistenza femminile sono l’anima del disco.
    • Sovversione e resistenza. Dal #MeToo alle rivolte giovanili, la musica ha sempre avuto un ruolo di amplificatore del dissenso. “VLFDM (RMX)” – acronimo che sta per Voglio La Fine Del Mondo – traduce il caos dell’epoca contemporanea in un sound distopico e parodico.

    Questi numeri non sono solo statistiche: sono storie, persone, vite. “art. 110, 1° co.” non vuole dare risposte, ma accendere domande, spingere a riflettere, e di conseguenza, agire.

    Un progetto che nasce dal bisogno di dire qualcosa, di scuotere. Un EP che non si accontenta di suonare, ma chiede di essere ascoltato davvero. Non è solo musica, è un punto di vista sul mondo, un modo di resistere e di immaginare nuove possibilità. E forse, anche di ballarci sopra.

    A seguire, tracklist e track by track del disco.

    “art. 110, 1° co.” – Tracklist:

    1. Universo Rapi
    2. Sorri not sorry
    3. Senza Nome
    4. Ghiacciaio
    5. Rafiki
    6. VLFDM RMX

    “art. 110, 1° co.” – Il disco raccontato dall’artista:

    “Universo Rapi”, l’introduzione che serve per lasciarsi andare: Otus_Medi mi ha mandato la base con una domanda: «Che sensazioni ti trasmette?». La mia risposta è stata una donna in abito rosso, che attraversa una metropoli dopo una grande fatica. Il rischio di immobilizzarsi è forte, ma l’universo trascina comunque avanti. «Magnum gaudium est cum universo rapi» è la lezione di Seneca che riecheggia tra i beat elettronici: accettare il movimento, lasciarsi portare.

    “Sorri not sorry”, la rabbia contro le ingiustizie: è la traccia più cupa dell’EP. È un flusso di parole recitate, un monologo interiore che si fa grido politico. «Ho partorito un’idea tutt’altro che mesta», canto nel pezzo, denunciando il genocidio e la censura, la violenza sistemica e il ruolo distorto dei media. Ma oltre alla rabbia, c’è la visione di una rete capace di accogliere tutte le creature viventi, abbattendo confini e costruendo legami.

    “Senza Nome”, il peso del senso di colpa: ogni disco ha il suo brano più malinconico, e questo è quello di “art. 110, 1° co”. «Non ti vuoi bene per niente», ripeto come una sentenza, cercando di mettere in musica quel vuoto esistenziale che può spegnere anche la voglia di sopravvivere. È un pezzo che attinge alla profondità delle emozioni senza scadere nella retorica, ma con una cruda consapevolezza.

    “Ghiacciaio”, l’amore come riflesso della crisi climatica: in principio doveva essere una canzone d’amore, ma la realtà ha preso il sopravvento. «Bombardan l’amore, anche all’ombra si muore», dico nel brano, mentre il ghiaccio si scioglie e il mondo si disgrega. Un pezzo, prodotto da K Er M, che mette a confronto il dolore personale con l’irreparabile danno ambientale, ricordandoci che l’amore può essere un’illusione, ma la crisi climatica è una certezza.

    “Rafiki”, la libertà della danza e la danza della libertà: un brano arrogante, spudorato, sfacciato. Questa è la traccia per chi vuole solo ballare, senza scuse e senza distrazioni. «Please don’t ask me once again, I’ll keep dancing till I’m dead», canto su un beat martellante che sembra rifiutare ogni interruzione e ogni compromesso. “Rafiki”, in lingua swahili, significa “amico”. L’unico invito valido è unirsi alla festa. Il brano è stato prodotto da K Er M.

    “VLFDM RMX”, distopia e parodia dell’apocalisse: ho preso il primo brano registrato live e l’ho trasformato in un’invettiva dissacrante sul declino della società contemporanea. Un mix tra denuncia e sarcasmo, tra ansia collettiva e ironia feroce. Il remix spinge il pezzo in una nuova direzione, con una produzione che guida in un viaggio caotico tra il presente e il futuro.

    “art. 110, 1° co.” è un’esperienza. Lecicia Sorri costruisce un immaginario, un’idea di musica che diventa azione politica, pensiero critico, spazio di libertà. Non è un punto di arrivo, ma solo il primo capitolo: il disco anticipa infatti la pubblicazione del secondo extended play, “art. 110, 2° co.”, che porterà avanti questa ricerca sonora e concettuale.

    Un EP d’esordio che non si lascia incasellare, che non cerca facili consensi, ma rivendica la necessità di guardare il mondo con occhi diversi.

    “art. 110, 1° co.” è un EP che non offre risposte semplici, ma pone le domande giuste, quelle necessarie per comprendere il mondo in cui viviamo e, perché no, attivarsi per renderlo migliore.