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  • Bipolare: il nuovo singolo di PZ è una fotografia dell’instabilità contemporanea

    Il confine tra metafora sociale e trivializzazione di un disturbo effettivo è sottilissimo, e va gestito con rispetto assoluto. In Italia, secondo l’ISS, sono circa 300.000 le persone con diagnosi di disturbo bipolare. Ma fuori dai dati clinici, è sempre più frequente l’uso improprio di questo termine — nelle chat, nelle caption, nei contesti informali più disparati— spesso senza consapevolezza, e in un senso che ne travalica la definizione medica.

    PZ, rapper modenese d’adozione mantovana attivo da oltre vent’anni nella scena hip hop indipendente, nel suo nuovo singolo “Bipolare”, non supera mai quel confine. Non si permette scorrettezze, né ambiguità che scivolino nel sensazionalismo. Non si appropria di un linguaggio che non gli appartiene. Racconta la difficoltà di tenere insieme tutto, ogni giorno, in una società che chiede efficienza continua e non concede spazio al dubbio o alla fatica.

    La sua è una scelta consapevole, che nasce da un sentire diffuso, e porta con sé – a tratti – un’intenzione provocatoria. Perché quello che racconta non riguarda solo chi scrive, ma molte delle persone che ascoltano.

    Viviamo in un equilibrio sempre più instabile. Un’evidenza che non ha bisogno di numeri: basta osservare. Un giorno ci sentiamo invincibili, quello dopo non vogliamo nemmeno alzarci dal letto. Ci chiedono di essere performanti, positivi, in controllo. Ma dentro ci sentiamo interrotti, compressi, disallineati. Quella di PZ – all’anagrafe Raffaele Michael Piazzolla – non è una diagnosi: è una condizione sociale. Una nuova consuetudine, che ci coinvolge, ci abita, più di quanto siamo disposti ad ammettere.

    “Bipolare” è il titolo di un brano che sceglie di non giocare con il suo stesso nome. Non lo rende un hashtag. Non lo romanticizza. Lo utilizza per inquadrare un malessere che non ha etichetta clinica, ma è familiare a molti: la difficoltà di restare stabili in un sistema che ci vuole sempre allineati.

    Il singolo, disponibile su tutte le piattaforme digitali, è il frutto di una direzione chiara, personale, già ben avviata: due album (“Parametri Zero” e “Rap_Pare”, rilasciati entrambi nel 2022), l’EP “Squali” (2024), e una manciata di singoli che hanno definito e assestato uno stile riconoscibile: spigoloso, essenziale, lontano dai codici più battuti.

    “Bipolare” non è un cambio di rotta. È un punto di messa a fuoco.
    Il passo è più diretto, la voce più ferma. Il centro è sempre lo stesso: scrivere con la volontà di dire le cose come stanno. Senza attenuanti, senza edulcorazioni. Anche quando si tratta di sé stesso:

    «Bipolare, volevo l’attico, ho un bilocale. Mica male, sono vivo, non all’ospedale.»

    Non è una punchline da battle. È un appiglio, un salvagente per restare a galla, in un tempo in cui sembra contare solo ciò che si mostra sui social. Un modo per tenersi in piedi – e, magari, per ricordarsi che certe ambizioni non valgono quanto sembrano. Per ridimensionare quel rumore assordante – più forte dei nostri stessi pensieri – che ci dice che dovremmo sempre volere di più.

    La produzione, curata da Gloomy Note (Leonardo Visan), è lineare ma mai statica. Glitch, silenzi calibrati, pause dosate, nessuna ridondanza.
    Tutto è strutturato per accompagnare un impulso che si accende, si spegne, si contrae, riparte.

    «Io e Gloomy Note stiamo cucendo addosso al progetto un suono che ci assomiglia. Il nostro suono – dichiara PZ -. “Bipolare” apre un nuovo ciclo. Non ci interessa rincorrere nulla. Ci interessa fare le cose bene. E dirle meglio.»

    Il videoclip ufficiale, diretto da Francesco Antonioli, è stato girato nel nuovo Parco Te di Mantova, un’area verde di 60.000 m² situata tra Palazzo Te e lo stadio cittadino. Al centro della scena, una delle sue installazioni più iconiche: una scacchiera a pavimento in pietra bianca e nera, incastonata nel selciato. Non è un elemento scenico casuale: inaugurata nel 2023, nell’ambito di un progetto di riqualificazione volto a restituire alla città un’area verde ampia, accessibile e dotata di elementi creativi e sociali, la scacchiera è presto diventata un vero e proprio emblema del dualismo. Il bianco e il nero, la razionalità e l’istinto, l’equilibrio apparente e il caos che preme sotto la superficie: è su questo tappeto geometrico che si muovono PZ e Gloomy Note, fino allo “scacco matto” finale che chiude la clip e la partita. Non è un gioco. È un’analogia sottile di come ognuno, ogni giorno, si trovi a fronteggiare un match interiore, in cui le mosse non sono sempre chiare, e le regole non scritte.

    Anche la cover del singolo, realizzata da Snowhite, rafforza questa dicotomia: il volto dell’artista diviso a metà, metà glaciale, trattenuta, l’altra incendiaria, fuori controllo. Fulmini da un lato, fiamme dall’altro. Nessun compromesso estetico. Solo contrasto, netto e viscerale. Come le emozioni che PZ sceglie di lasciare in vista.

    “Bipolare” è un brano che osserva il presente da dentro, senza pretese terapeutiche e senza concessioni narrative. Un testo asciutto, a tratti brutale, che alterna rime secche e incastri millimetrici. Cinismo, sarcasmo, frustrazione, ironia: non vuole consolare. Nomina il disagio e lo inchioda al beat.

    Un concetto che il rapper sintetizza così:

    «Il vero stress non è solo il lavoro. È dover tenere tutto insieme, ogni giorno, senza margine d’errore.»

    Nato a Modena e cresciuto artisticamente a Mantova, PZ è attivo da oltre due decenni. Ha pubblicato due album, un doppio mixtape, numerosi singoli e ha condiviso palco e lineup con alcuni dei nomi più noti dell’hip hop italiano, tra cui J-Ax, Marracash, Club Dogo, Dargen D’Amico e Tormento. Ma oggi, PZ è altro. È un artista indipendente che ha scelto di formarsi in prima persona: ha studiato registrazione, mix, master e tecnica vocale, per avere pieno controllo sulla resa artistica dei suoi brani. Scrive partendo da ciò che vive, non da ciò che funziona. E con Gloomy Note ha trovato una direzione nuova: un suono “sbilanciato” ma calibrato, che racchiude la pressione, la stanchezza, la voglia di sparire e quella di esserci. E il ritmo intermittente di chi prova a rimanere sé stesso. Un suono cucito per aderire, per stare addosso alle parole, non per abbellirle. Figlio di un’identità che non chiede conferme. E che non ha paura di risultare scomoda.

    «Non mi interessa apparire – conclude -. Mi interessa dire qualcosa che abbia senso. E se anche solo una persona si sente capita ascoltando, per me basta. Ha già un enorme valore.»

    “Bipolare” è tutto questo: un testo affilato, un sound che respira e si contrae, un videoclip che non fotografa il brano ma ne dà un’ulteriore chiave di lettura e una scrittura adulta capace di intercettare e agganciare anche chi tende a escludere il rap dal novero dei linguaggi possibili.

    È un pezzo che prende posizione, senza tentennare.
    Ed è proprio per questo che vale la pena ascoltarlo.

  • Crescere con l’armonia: Harmony Days, due giorni per ridare spazio alla musica nell’educazione dei giovani con media partener Mediaset e Radio Marconi

    L’11 e il 12 ottobre 2025 il Centro Congressi di Fondazione Cariplo ospiterà la prima edizione degli Harmony Days, una due giorni di incontri, esibizioni e workshop che metteranno al centro la musica come strumento di cura, educazione, inclusione e benessere.

    L’armonia, intesa fin dall’antichità come l’arte di comporre diversità e opposti — nella mitologia greca figlia di Marte, dio della guerra, e Venere, dea dell’amore — è il filo conduttore di questo progetto, che intreccia musica e scienza per immaginare nuove forme di coesione sociale.

    L’iniziativa, promossa da Fondazione Lang Italia in partnership con le Fondazioni Antonio Carlo Monzino, Enrica Amiotti e Maverx, si avvale del patrocinio di Fondazione Cariplo, Comune di Milano e Confcommercio Milano, Lodi, Monza e Brianza e del sostegno attivo di Enel e Indaco Project. Partner scientifici: Comusica, Fondazione Mondino, Nati per la Musica, La Fabbrica dei Suoni. Partner tecnici: MVM, Planetaria Hotels, Yamaha. Media partner: Mediaset e Radio Marconi.

    Tra i protagonisti Fedele Confalonieri, Presidente Mediaset e pianista, il cui intervento contribuirà a riflettere sul ruolo della musica nei processi educativi e di crescita personale; Vito Mancuso, teologo e filosofo, con una lectio sull’Armonia come codice di vita felice; Alice Mado Proverbio, professoressa di neuroscienze cognitive, sugli effetti della pratica musicale sullo sviluppo cerebrale dei bambini; Carlo Ventura, sul potenziale rigenerativo delle “melodie vibrazionali delle cellule sane”.

    Spazio internazionale con Marc Verriere, fondatore delle Olimpiadi Moderne dell’Arte, ispirate a quelle dell’antica Grecia (566 a.C.), che interverrà sugli obiettivi della prossima edizione e sulla prospettiva di utilizzare le arti per armonizzare il mondo. Considerato da molti il “De Coubertin delle arti”, Verriere rafforzerà il valore simbolico e culturale dell’iniziativa.

    L’ingresso è gratuito, con prenotazione obbligatoria fino a esaurimento posti. Il proprio posto può essere riservato direttamente sul sito ufficiale, al link www.harmonydays.org/ticket o scansionando il QR code riportato a seguire:

    Secondo un report dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 2019 – il più ampio mai realizzato sul tema, con oltre 3.000 studi analizzati – la musica e le arti hanno un impatto concreto sulla salute, sulla prevenzione e sul benessere psicologico e cognitivo. Quel documento è stato considerato una pietra miliare: ha anticipato il dibattito che, dopo la pandemia, ha reso ancora più urgente il riconoscimento della musica come strumento di cura e inclusione. Nel 2023, la stessa OMS ha rilanciato con una serie globale in collaborazione con la rivista Lancet, confermandone la centralità nelle politiche sanitarie globali. Già in passato la musica è stata riconosciuta come risorsa fondamentale nei momenti di crisi: a seguito della Grande Depressione, il Presidente USA Franklin D. Roosevelt inserì nel New Deal il Federal Music Project (FMP), un vasto piano di investimento in cultura e musica, concepito per risollevare il morale della popolazione e sostenere l’economia americana. Un quadro che conferma la rilevanza dell’iniziativa e colloca Milano tra le città internazionali capaci di unire cultura, ricerca e innovazione sociale.

    Questo orizzonte, rende ancora più evidente la necessità di agire nel nostro Paese, dove gli Harmony Days nascono per sostenere progetti che guardano al futuro delle nuove generazioni. La musica è infatti in grado di migliorare concentrazione, memoria, capacità relazionali e autostima nei bambini e negli adolescenti. In Italia, però, solo una minoranza di scuole primarie ha programmi musicali continuativi. Per questo il Manifesto dell’Armonia punta a colmare questa lacuna e a restituire alla quarta arte il ruolo che merita nella formazione.

    Un bambino che impara ad ascoltare oggi sarà un adulto che saprà prendersi cura domani.

    Le Fondazioni promotrici condividono un impegno concreto per portare l’educazione musicale al centro della crescita e dello sviluppo dei bambini.

    La Fondazione Lang Italia, attiva da oltre 10 anni nella diffusione di una filantropia strategica fondata sull’innovazione, il cambiamento e la misurazione dell’impatto, oggi seleziona e finanzia progetti culturali e sociali rivolti all’infanzia, attraverso i bandi de “La musica che fa bene ai bambini”.

    La Fondazione Antonio Carlo Monzino nasce con la donazione di strumenti musicali al Museo Civico del Castello Sforzesco, su proposta di Antonio Monzino membro della settima generazione della famiglia, che dal 1767 è attiva a Milano, nell’ambito degli strumenti ed edizioni musicali. La fondazione si dedica a progetti volti a valorizzare la musica nella sua funzione di prevenzione e cura terapeutica, educativa e formazione culturale, sostenendo giovani musicisti e promuovendo l’arte liutaia.

    La Fondazione Enrica Amiotti, fondata nel 1970 e dedicata all’eredità educativa della maestra Enrica Amiotti, diffonde e premia metodi didattici attivi e inclusivi, promuovendo bandi e iniziative quali l’Educazione alla Bellezza, il Manifesto Rinascimente, l’Educazione Circolare e le WebTV scolastiche JUN-ECO TV e JUN-ART TV.

    La Fondazione Maverx sostiene iniziative scientifiche e culturali capaci di creare connessioni tra ricerca, innovazione e benessere sociale.

    «Con gli Harmony Days vogliamo portare la musica al centro dell’educazione e della salute pubblica» – dichiara Franco Marzo, Presidente di Fondazione Lang Italia.

    Il programma della due giorni è un dialogo interdisciplinare tra voci autorevoli, provenienti dal mondo della musica, della filosofia, delle neuroscienze, della medicina, della scuola, della tecnologia, dell’economia e dell’arte.

    Parteciperanno inoltre agli Harmony Days: Luigi Ascani (Presidente Format Research),  Giambattista Brizzi (Expert Building Physics), Eleonora Tavazzi (neurologa, IRCCS Fondazione Mondino), Alfredo Raglio (musicoterapeuta e ricercatore), Bruno Zamborlin (ricercatore AI e artista), Monica Amari (saggista), Annalisa Spadolini (Comitato Nazionale per l’Apprendimento Pratico della Musica – Ministero dell’Istruzione e del Merito), Ciro Fiorentino (Comusica), Mattia Sismonda (Fabbrica dei Suoni, Presidente Conservatorio Ghedini di Cuneo),  Silvia Cucchi (PhD in Neuroscienze Cognitive, pianista e docente Conservatorio Ghedini di Cuneo), Paolo Battimiello (pedagogista e saggista), Enrico Amiotti (Fondazione Enrica Amiotti); Ambra Redaelli (imprenditrice), Antonio Marzo (Imprenditore), Raffaella Schirò (Nati per la musica), Sonia Vettorato (pianista), Chiara Felicita Lafasciano (pittrice).

    Tra scienza, educazione e sperimentazione, il palinsesto prevede talk, interviste, esibizioni e workshop esperienziali. I workshop saranno tenuti da Davide Cairo, Mattia Airoldi e Bruno Zamborlin, con un approccio innovativo che permetterà ai partecipanti di vivere l’armonia in prima persona.

    Un’occasione unica per osservare la musica non solo come espressione artistica e d’intrattenimento, ma come strumento capace di generare valore sociale, educativo e di benessere.

    L’iniziativa, nella creazione di una rete di soggetti del mondo accademico, istituzionale, imprenditoriale e musicale, chiede di sottoscrivere il Manifesto dell’Armonia, un documento programmatico che punta a sostenere la musica come disciplina indispensabile nella formazione culturale dei bambini: https://www.harmonydays.org/manifesto/

    Gli Harmony Days intendono realizzare progetti concreti:

    • La creazione di un Osservatorio permanente per monitorare l’impatto della pratica musicale e artistica
    • L’avvio di iniziative formative per docenti non specialisti
    • Il sostegno ai progetti delle fondazioni promotrici: “La musica che fa bene ai bambini” (Lang), “JUN-ART TV” (Amiotti), “Adotta un talento” (Monzino)

    Gli Harmony Days sono un inizio: un progetto culturale che guarda al futuro con la consapevolezza che in un mondo globalizzato, l’armonia non è un dono, ma una conquista di civiltà e di pace.

  • Storie che restano aperte: Spectrum Vates e il linguaggio rap della generazione sospesa

    Molte storie non finiscono davvero: restano aperte, cristallizzate in domande senza risposta. Gli psicologi lo chiamano closure e sottolineano che la difficoltà a chiudere una relazione è spesso legata non tanto alla fine in sé, quanto all’assenza di spiegazioni. “Dimmi perché”, il nuovo singolo di Spectrum Vates per PaKo Music Records con distribuzione Believe Digital, mette in musica proprio quel limbo: un ritratto scomposto, fatto di immagini che si incrinano e si sovrappongono, che racconta un amore giunto al capolinea senza punti definitivi.

    Negli ultimi anni, il termine closure è entrato nel linguaggio comune ben oltre l’ambito psicologico: su TikTok e Instagram, l’hashtag #closure supera i 2 miliardi di visualizzazioni, mentre podcast e rubriche di costume analizzano sempre più spesso la difficoltà di archiviare relazioni senza chiarimenti. In letteratura, autori come Joan Didion o Haruki Murakami hanno descritto nitidamente quel vuoto lasciato da storie interrotte, trasformandolo in materia narrativa. È in questo stesso solco culturale che si colloca “Dimmi perché”, ponendo in musica un’esperienza attualissima, condivisa da molti.

    Il rap diventa cinema a fotogrammi sparsi, il perfetto linguaggio per ricostruire la storia come la ricordiamo davvero: a tratti, tra luci calde e rassicuranti e zone d’ombra.

    Un rap, quello di Spectrum Vates, in grado di racchiudere nella stessa cornice nostalgia, passione, delusione, sentimento e ferite ancora aperte; un flusso che non si piega a schemi metrici rigidi, ma si muove per istantanee, lasciando che siano le parole a reggere il peso del non detto. Perché se certe storie non finiscono, si frantumano. E i ricordi che ci lasciano addosso, come scie che ci impediscono di voltare pagina, non seguono mai l’ordine cronologico, ma si accavallano senza preavviso, come polaroid cadute su un pavimento vuoto, abbandonate lì, senza nessuno a raccoglierle. È così che “Dimmi perché” si avvicina al nucleo del racconto senza mai ricomporlo del tutto: il ritratto di una relazione finita come un puzzle a cui mancano pezzi. Un mosaico incompleto, che proprio nella sua imperfezione dice una delle verità più complesse da accettare: alcune risposte non arriveranno mai.

    Dopo “Pupille d’alabastro”, brano in cui l’artista aveva scelto la lentezza, parlando dell’amore come un gesto quotidiano da proteggere, “Dimmi perché” cambia prospettiva e attraversa il “dopo”: non il rapporto di coppia in sé, ma i cocci che ne restano. L’album fotografico è lo stesso, ma le pagine non sono più rilegate: si disperdono, si sovrappongono, e ad un certo punto si strappano.

    Aretino classe 1999, Spectrum Vates ha intrapreso il proprio percorso artistico rifiutando facili espedienti e logiche dell’hype, scegliendo di restare fedele alla sostanza, al contenuto e alla poetica del rap. In una scena spesso affollata da strofe usa e getta, la sua è una scrittura che non teme la densità e l’immagine, capace di intrecciare il linguaggio diretto della strada alla precisione visiva di un obiettivo cinematografico. In “Dimmi perché” questo approccio si amplifica: le parole non raccontano in linea retta, ma si aprono in scene. «Sfiori i miei rimorsi come petali di rosa» e, poco dopo, «Fuoco che ci brucia e poi diluvio che ci spegne», sono versi che funzionano come inquadrature, dettagli isolati che, messi insieme, ricompongono la trama sentimentale. Non si tratta di semplice cronaca, ma di una sequenza di flashback tra ricordo idealizzato e la realtà bruciante di un amore arrivato alla fine.

    Prodotto dallo stesso artista, con mix e master a cura di Atomic, il brano prosegue la cifra estetica di Spectrum Vates: centralità della parola, suono che sostiene senza offuscare il senso del testo, fedeltà a un’identità che preferisce rivolgersi a chi resta – anche nelle difficoltà – piuttosto che farsi notare da chi passa. Se “Pupille d’alabastro” era una lettera scritta a mano, “Dimmi perché” è un cassetto aperto da cui cadono fogli, biglietti, istantanee: pezzi di un racconto che non si può – o non si vuole – ricomporre.

    «Non ho cercato un inizio e una fine – dichiara –. Ho scritto come ricordiamo davvero: a salti, passando dal bene al male senza preavviso. Volevo che il brano fosse un album di immagini spezzate, perché è così che restano certe storie: incompiute.»

    Ancora una volta, Spectrum Vates dimostra che il rap può essere letteratura orale e che la narrazione frammentaria, se sincera, può farsi portavoce di una verità più profonda della cronaca lineare. L’amore e l’odio si alternano in un montaggio serrato: sorrisi amari, piogge battenti, abbracci che graffiano e addii pronunciati sottovoce. L’artista non cerca colpe né colpevoli. E non vuole dare responsi a una storia finita: conserva le domande. E nel farlo, scatta la fotografia più conforme di ciò che resta.

    In “Dimmi perché”, accompagnato dal videoclip ufficiale diretto e prodotto da Giacomo Cassara’ e girato da Serena Giorgi, il rap diventa archivio di ciò che rimane quando una storia non si chiude: non un punto, ma una parentesi lasciata aperta, dove le domande continuano a vivere anche quando le parole sono finite.


  • “Dame un Grrr”, il singolo che ha riscritto le regole della discografia 3.0

    È partita da una stanza in Romania la canzone che sta facendo ballare milioni di persone in tutto il mondo. “Dame un Grrr”, firmata dal produttore mascherato Fantomel e dalla cantante Kate Linn, è oggi uno dei brani più virali dell’anno: oltre 10 milioni di video su TikTok, 30 milioni di stream su Spotify e più di 25 milioni di visualizzazioni per il videoclip ufficiale su YouTube nelle prime settimane.

    Parallelamente al successo social, il brano è nella Top 10 Viral di Spotify e Shazam, scalando le classifiche in decine di Paesi e confermandosi come uno dei casi discografici più significativi degli ultimi anni. Un fenomeno musicale, certo, ma anche culturale, che ha trasformato due sillabe — «Dame un grrr (¿un qué?)» — in un codice globale, grazie a un trigger verbale e a un gesto replicabile che hanno permesso a milioni di utenti di diventare protagonisti del trend.

    Dalla Spagna a Cuba, dall’Indonesia agli Stati Uniti, “Dame Un Grrr” è stato rilanciato da superstar come Madonna, DJ Snake e Dani Olmo, e dai remix ufficiali firmati da Jason Derulo e Hugel, che hanno contribuito ad amplificarne la diffusione. È qui che la viralità entra nella pop-culture e diventa costume: la cosiddetta “leon dance” ha reso il pezzo mimabile nei formati verticali e riconoscibile in un istante, con un impatto paragonabile alle hit internazionali più iconiche degli ultimi anni e spingendolo fuori dai feed e dentro le radio.

    Il segreto di “Dame un Grrr” sta nella sua semplicità: un dialogo scherzoso, un beat che mescola elettronica, latin pop e urban, e un ritornello legato al gesto, all’imitazione, al gioco. È questa leggerezza intelligente ad aver reso la traccia virale non solo tra i giovani, ma anche tra famiglie, sportivi e creator di ogni parte del mondo, tra sfide, parodie e reinterpretazioni creative.

    Un capitolo che si inserisce in una lunga tradizione: quella dei tormentoni che segnano un’epoca. Ma la sua portata globale sta in un elemento nuovo. Nell’era dei contenuti brevi, rapidi e visivi, “Dame un Grrr” ha creato una formula perfetta per i social: un gesto immediato, un codice condiviso, un rituale che può essere replicato all’infinito. Non serve conoscere la lingua, non serve mediazione: basta fare “il grrr” con le mani e la community è creata.

    Un meccanismo che gli analisti digitali definiscono memetico, cioè capace di diffondersi per semplicità ed efficacia, attraversando età, geografie e culture.
    In questo c’è anche un riflesso sociologico. “Dame un Grrr” intercetta il bisogno di spensieratezza e di partecipazione in un contesto globale segnato da conflitti, instabilità e crisi. Un gesto semplice e ironico diventa valvola di sfogo, occasione di gioco, terreno comune per milioni di persone. È il linguaggio della Gen Z, ma anche di chi cerca un momento di evasione corale.

    Oltre all’impatto digitale, “Dame un Grrr” sta vivendo una seconda vita nei club e nei festival, entrando nelle scalette dei DJ internazionali e diventando una delle hit più ballate del 2025. Fantomel e Kate Linn hanno annunciato un tour europeo che tra la fine dell’estate e l’autunno attraverserà il Vecchio Continente. In Italia, la gestione del tour è affidata a Kontakt Agency di Francesco Andrisani, in collaborazione con Creator Records e MarcWin Music (New York), a conferma del ruolo strategico del nostro Paese come hub musicale e culturale di rilievo internazionale. Il mercato italiano rappresenta infatti una tappa cruciale per il singolo, che unisce musica, digital culture e linguaggi generazionali in un format perfetto per la crossmedialità: social, radio, tv, festival e dancefloor.

    Dietro la maschera di Fantomel c’è un produttore che la scena dance europea osserva con attenzione, erede della tradizione dei grandi anonimi dell’elettronica. Al suo fianco, Kate Linn, cantante rumena che ha già conquistato milioni di stream nell’Est Europa e che ora trova la consacrazione globale.

    “Dame Un Grrr” è un progetto nato locale e diventato globale che conferma come oggi i social non siano più soltanto strumento di diffusione, ma il vero laboratorio in cui si scrive il futuro dell’industria musicale. Dimostra che le piattaforme hanno riscritto le regole del gioco: oggi è la viralità digitale a dettare il passo, decretando i trend e rendendoli simboli generazionali, prima ancora che le radio li consacrino. Ed evidenzia come l’industria del 2025 viva un cortocircuito tra digitale e club culture, dove ciò che nasce come meme si trasforma in business, tour e spettacolo dal vivo.

    “Dame un Grrr” non è solo una hit virale, ma il segnale di un nuovo equilibrio, che mostra dove va la musica quando a guidarla è la rete. Si scrive nei feed prima che nelle classifiche, si diffonde nei gesti prima che nei suoni. È la prova che nell’ecosistema digitale contemporaneo, sono le logiche sociali delle piattaforme e la spinta spontanea degli utenti a plasmare ciò che diventa cultura: è lì che comunità, contenuti e simboli si formano, prima ancora del mercato.

  • Jack Scarlett sfida il perbenismo italiano con “Il Corpo del Diavolo”, il suo nuovo inno queer

    Uno sguardo che brucia, una pulsione che divora. “Il Corpo del Diavolo” è il nuovo, coraggioso singolo di Jack Scarlett, attivista LGBTQ+ tra gli artisti più talentuosi e fuori dagli schemi della nuova scena pop italiana. Un racconto in bilico tra erotismo maschile e dinamiche tossiche che affronta senza retorica né censure il tema del desiderio omosessuale, elevandolo a narrazione sociale, poetica, politica e – inevitabilmente – provocatoria.

    Scritto dopo due relazioni intense e dolorose, non è un brano d’amore, ma un viaggio nell’ossessione ripetuta e autoctona. Nessun moralismo, nessuna richiesta di empatia: solo la necessità di rappresentare il proprio inferno – e di attraversarlo. «Assaporando il corpo del diavolo» diventa allora una resa consapevole, ma anche un atto di riscatto. Una confessione autobiografica che non cerca filtri né redenzione. E che culmina in una scena erotica esplicita – rara nel pop italiano, trattata con sguardo artistico, non compiacente.

    Qui il male ha un nome, ma non è un mostro: è il volto di chi ti stringe e ti consuma. La figura di Lucifero, lungi dall’essere satanica, è simbolo di un amore che affascina e distrugge. Jack Scarlett lo definisce “il principe della mia favola”, rovesciando la narrazione tradizionale e chiedendosi – con sguardo spietatamente onesto– chi siano davvero i buoni.

    La società del decoro, quella bigotta e perbenista, viene spogliata delle sue ipocrisie: mentre condanna chi ama in modo non convenzionale, non vede – o finge di non vedere – la violenza che si nasconde dietro la normalità, quella che si alimenta nel silenzio delle relazioni eteronormate.

    Prodotto da Yanomi (già per Alfa, Olly e molti altri) e Blame, “Il Corpo del Diavolo” si muove tra R&B, dark-pop e contaminazioni elettroniche. La scelta più radicale? L’inserimento di un coro di bambini dell’associazione L’AMACA di Milano. Una decisione che, abbinata al tema, ha già acceso il dibattito. L’accostamento tra purezza infantile e racconto esplicito del desiderio omosessuale ha sollevato critiche nei circuiti più conservatori – qualcuno parla già di “satanismo”. Ma per Jack non è una trovata scandalistica: è un modo per rompere i confini del pregiudizio e ribaltare i codici della narrazione dominante.

    Una provocazione? No, o almeno non del tutto. Una strategia comunicativa perfettamente consapevole, che cerca di far emergere – per contrasto – i paradossi dell’indignazione pubblica, smontando la retorica del finto scandalo e mettendo lo specchio davanti a chi si indigna a comando.

    Secondo l’ultimo report di ILGA Europe, l’Italia è al 34° posto su 49 paesi europei per tutela dei diritti LGBTQ+. Il dato peggiore riguarda l’educazione affettiva nelle scuole, spesso assente o fortemente osteggiata. In questo vuoto educativo e sociale, l’arte – e la musica – assumono un ruolo cruciale.

    Nel videoclip ufficiale, diretto da Brace Beltempo, Lucifero diventa un supereroe queer: non il carnefice, ma il salvatore. Il video celebra chi è stato definito “freak” o “diverso” e capovolge le categorie del giudizio. Chi discrimina, qui, ha il volto dell’ipocrisia. Chi viene condannato, rivendica la sua libertà. A interpretare Lucifero è Alex Nardelli, modello di nudo artistico, il cui volto incarna alla perfezione la visione del personaggio: «Sembra uscito dal quadro di Alexandre Cabanel – dichiara Jack Scarlett -. È il mio Lucifero ideale: un angelo caduto che conserva intatta tutta la sua bellezza.» Nella copertina del singolo, la somiglianza con l’iconica opera ottocentesca è immediata.

    In un momento storico in cui il linguaggio dell’odio guadagna spazio mediatico e politico, “Il Corpo del Diavolo” arriva come atto artistico dirompente, che parla di carne, passione, ma anche di liberazione, riconciliazione e affermazione: personale, sentimentale, identitaria.

    Quella di Jack Scarlett è una battaglia quotidiana contro l’omofobia e il conformismo:

    «Avevo bisogno di raccontare il più grande cliché – conclude -: restare in una relazione che ti consuma. Il diavolo era l’unico modo per darne dignità. Il coro infantilizza l’ombra, perché se si condanna il sacro si capisce cosa si teme davvero: l’istinto, l’istigazione, la verità.»

    Dopo il successo di “Io sono unico”, “Discorsi a metà” e “Senza più perdermi”, brani manifesto contro il bullismo omofobico, Jack Scarlett si conferma come una voce centrale dell’attivismo LGBTQ+, proponendo un dialogo con le istituzioni e la comunità.

    Con “Il Corpo del Diavolo” porta l’erotismo queer al centro del dibattito pubblico, in un’Italia dove – secondo Arcigay – il 62% delle persone LGBTQ+ ha subito almeno un episodio di discriminazione nel corso della vita, ma solo l’8% lo ha denunciato. In un clima simile, ancora ostile a ciò che viene percepito come “diverso”, esporsi è una forma di resistenza, raccontarsi diventa una presa di posizione, e rappresentarsi significa anche difendersi.

    Il cantautore milanese, con questo nuovo brano, rilancia il discorso queer in Italia: un discorso che non si accontenta più della visibilità, ma reclama spazio, ascolto e legittimità. Dal divieto di amare al diritto di raccontarlo senza filtri, questa canzone urla ciò che la società prova ancora a censurare: che il desiderio è legittimo, anche quando brucia. È un gesto culturale, uno specchio provocatorio che interroga una collettività spaventata dal contatto, dall’istinto e dalla libertà.

  • Un festival per la vita: la musica italiana si mobilita per la donazione degli organi in memoria di Bea

    Era il 27 maggio 2023 quando Beatrice Zaccaro, 17 anni, ha perso la vita in seguito a un tragico incidente stradale nei pressi di Cantù. Una ragazza sensibile, determinata, altruista, capace di cogliere le sfumature delle persone e delle cose. Nei giorni più difficili, i suoi genitori – Massimiliano e Grazia – hanno scelto di compiere un atto d’amore, rispettando una volontà che Bea aveva espresso in vita: donare i suoi organi, salvando così quattro vite.
    Un’azione concreta e coerente con l’animo generoso di Bea, che credeva nel valore dell’altro e nella possibilità di fare la differenza attraverso le nostre scelte quotidiane.

    Da quella decisione è scaturito un impegno: trasformare il dolore in qualcosa che potesse servire ad altri.

    Così ha preso forma BeaVive, un’associazione che ne porta avanti la visione, con progetti dedicati all’ascolto dei giovani, alla prevenzione del disagio e alla diffusione di una cultura del dono.

    Dalla stessa consapevolezza, e da un intreccio di responsabilità e amore, nasce il BeaLive Festival, in programma sabato 6 settembre 2025 in Piazza Garibaldi a Cantù: un grande evento musicale e sociale, aperto a tutti, con la partecipazione di artisti noti, emergenti e istituzioni.

    Organizzato da BeaVive con il patrocinio del Comune di Cantù, il festival è pensato per ricordare Beatrice attraverso la forza più aggregante che esista: la musica. Un modo per dire che, in fondo, Bea è ancora qui. La sua storia ha commosso l’Italia e la sua luce, ora, vuole accendere quella degli altri.

    Dalle 16:00 alle 23:30, Piazza Garibaldi diventerà il cuore vivo di Cantù: un grande evento musicale a cielo aperto, un abbraccio collettivo pensato per unire arte e comunità nella memoria di Bea e nell’impegno costante dell’associazione che porta il suo nome.

    Sul palco si alterneranno grandi nomi della musica italiana e artisti emergenti, in un susseguirsi di suoni, voci e performance che, ciascuna a modo proprio, restituiranno il senso di ciò che Bea ha rappresentato per chi l’ha conosciuta, e di ciò che può continuare a rappresentare oggi, ispirando tutte le persone che ne raccolgono l’eredità.

    A esibirsi – tra gli altri – Studio 3, Simone Tomassini, Albe, Moreno, Blind, Grido, Greta Ray, BlckDawg, Veronica Cece, Francesco Facchinetti, Shaza, Shock, Daniele Stefani e DJ Jad.

    Il pre-serata, che darà la possibilità a giovani talenti di supportare questa importante causa con la loro sensibilità artistica, sarà condotto da Giulia Sara Salemi. A seguire, la serata principale vedrà alla conduzione Vanessa Minotti e Luca Rossi, volti noti del panorama musicale e televisivo.

    L’evento è organizzato in collaborazione con Greys Company ed Extreme Digital Production, con la direzione tecnica di Massimiliano Cenatiempo e la direzione artistica di Daniele Atlante. L’identità visiva e la comunicazione social del festival sono curate rispettivamente da Greta Giussani e Beatrice Folloni, per conto delle due realtà produttive coinvolte.

    Il palco, di dieci metri per otto, sarà dotato di impianti audio professionali ed effetti luce scenografici, per offrire al pubblico un’esperienza immersiva, curata in ogni dettaglio.

    Bea vive. E continuerà a farlo.

    Il festival è il primo grande evento dell’Associazione BeaVive, fondata da Massimiliano e Grazia, i genitori di Beatrice. La missione è chiara: trasformare il lutto in aiuto concreto. Il ricordo di Bea sarà il filo conduttore di tutta la serata. Un ricordo che, grazie a un gesto d’amore dei genitori, ha già salvato quattro vite – e che, con ogni progetto portato avanti in suo nome, potrà continuare a salvarne molte altre.

    Il BeaLive Festival sarà anche un momento di comunità e condivisione: area food con street food d’eccellenza, merchandising solidale (t-shirt, bracciali, gadget) e spazi d’incontro. Tutto il ricavato dell’evento andrà a sostenere le attività dell’associazione.

    Fondamentale il sostegno del Comune di Cantù, in particolare della Sindaca Alice Galbiati, dell’Assessora Isabella Girgi, dell’Ufficio Cultura e delle strutture comunali coinvolte. Un ringraziamento sentito va anche alle attività il cui contributo ha reso possibile la realizzazione di un evento di questa portata.

    «Questo concerto è il nostro modo per dire che Bea è ancora qui. In ogni canzone. In ogni abbraccio. In ogni vita che potrà essere salvata anche grazie a lei. La musica non cambia il passato, ma può accendere il futuro.»
    — Massimiliano Zaccaro e Grazia Tagliabue.

  • Il satellite più pop ritrova la sua iconicità con “Luna Calamita” di Iside

    Dalle copertine di Vogue alle playlist globali, la luna è tornata al centro dell’immaginario pop. Nelle ultime stagioni è ricomparsa nei visual di moda, nei testi musicali e nei videoclip, evocata come simbolo di trasformazione, mistero e desiderio. Ma mentre molti la trattano come sfondo onirico o totem estetico, la cantautrice sarda Iside fa una scelta più radicale: in “Luna Calamita” (Daylite/The Orchard), il suo nuovo singolo, la trasforma in un diario. Intimo, silenzioso, essenziale. Non un oggetto di scena, ma una presenza costante: che ascolta, e raccoglie tutto ciò che non trova voce.

    Magnetica e distante, la luna attira da sempre i sognatori, con i loro desideri e aspirazioni, come un campo gravitazionale invisibile. Dai set lunari di Vogue Korea ai concept visivi di artiste come Billie Eilish, Rosalía e SZA, il satellite è tornato protagonista del linguaggio contemporaneo: non più solo simbolo romantico, ma archetipo di trasformazione, femminilità e mistero. Negli ultimi anni, questo immaginario ha invaso videoclip, scenografie live e interi concept album, rivelandosi una delle icone più ricorrenti nella cultura pop recente. Un ritorno che attraversa i linguaggi: da “Fly Me to the Moon” – brano diventato standard grazie a Sinatra, e oggi anche titolo di un film hollywoodiano del 2024 – la luna continua a ispirare canzoni, copertine, e pellicole cinematografiche.

    Iside lo sa bene e lo canta – «Chiudo gli occhi, spengo il cell. Luna calamita, attira tutto anche me» – con una voce che sa di sale e vento. Il testo, scritto da lei stessa, non è solo il resoconto di un amore spezzato; è il ritratto di chi, nel cuore della notte, cerca un angolo di buio per riconoscersi. Non una ballad nostalgica né un esercizio di stile, ma un pezzo che si muove tra Afrobeat, pop e R&B, sottraendosi consapevolmente ai cliché estivi. Perché per Iside la luna non è solo un emblema da contemplare, ma uno spazio in cui rifugiarsi. Non serve a creare atmosfera, ma a tenere insieme ciò che si spezza. È silenziosa, ma centrale. È il punto fisso attorno a cui ruota una voce che trova la sua forza proprio in ciò che resta in ombra.

    Anche grazie alla produzione di Kidd Reo, Krade e Young Cruel, “Luna Calamita” percorre un immaginario notturno, introspettivo, che predilige pause e mezzi toni al ritmo frenetico dei tormentoni. Dentro ci sono le relazioni di oggi, fatte di spazi vuoti, telefoni sempre accesi, silenzi che non trovano più il loro margine d’espressione e, quando lo fanno, pesano più di mille parole. Perché ci mettono a disagio, perché, abituati come siamo a rifuggire la noia e la nostra stessa presenza, sono il rumore più difficile da sopportare.

    Per capirlo, basta leggere questi versi: «Le possibilità son 0002. Nella stanza il letto è separato in due. Le mani fredde sulle tue, i litigi delle 02». Non ci sono grandi discorsi sull’amore. Solo la realtà di chi convive con distanze che nemmeno la vicinanza fisica riesce a colmare; una riuscita sintesi dei rapporti amorosi figli del nostro tempo, fatti di case, stanze e letti condivisi ma menti lontane, notti frammentate tra il bisogno dell’altro e il desiderio di allontanarsi per conoscersi – e, finalmente, riconoscersi.

    «La Luna, per me, è sempre stata una presenza che attira i pensieri e i desideri, anche quelli che non sappiamo confessare nemmeno a noi stessi – racconta Iside –. Non è solo una metafora, è un po’ come un riflesso muto, qualcosa che c’è sempre ma che non pretende attenzione. In quelle notti, nella mia stanza, avevo bisogno di silenzio. È da lì che è nata questa canzone: non da un evento preciso, ma da una sensazione che tornava ogni volta che guardavo fuori dalla finestra.»

    E in tutto questo, la Sardegna non è uno sfondo, né una cartolina da Instagram. È le onde che brillano sotto il cielo stellato, le scogliere che sfidano il maestrale, il luogo da cui si parte e a cui si torna quando serve stare lontani da tutto. È un epicentro. Con un aumento del 35% nelle produzioni musicali locali (FIMI, 2025), l’isola sta riscrivendo la mappa della musica italiana. Iside è una delle sue voci, contribuendo a quella scena locale che oggi non ha paura di parlare con voce propria.

    Il videoclip ufficiale che accompagna il pezzo, diretto da Matteo Varchetta e Kidd Reo, lo conferma: niente spiagge patinate, ma un’isola viva, che guarda il mondo dritto negli occhi.

    «In fondo, questa canzone parla anche di una forma di leggerezza – conclude l’artista -. Non quella che serve a distrarsi, ma quella che arriva quando smetti di forzare tutto. È una leggerezza che non ignora il peso delle cose, ma lo accoglie. Non è una fuga: è una piccola pausa consapevole, un modo per tornare a sentirsi interi, anche solo per un momento.»

    E proprio come la luna, che cambia ogni notte pur sembrando immobile, il brano coglie quella trasformazione silenziosa che spesso sfugge allo sguardo. Non c’è un climax, né una risoluzione. Solo l’onestà di chi si concede un momento per ascoltarsi. Niente cocktail o cliché da vacanze social, ma camere semi-buie e pensieri che restano addosso come il caldo umido di luglio. Un’estate vissuta nel cuore delle città, tra finestre aperte e silenzi interrotti da notifiche.

    Con un’estetica che richiama le atmosfere notturne della new wave pop internazionale, filtrate attraverso lo sguardo di una giovane artista italiana cresciuta tra i paesaggi di Olbia e le playlist globali, “Luna Calamita” non si rivolge a chi ha sempre tutte le risposte, ma a chi non ha paura di restare in ascolto. A chi, tra le sue tante domande, ogni tanto sceglie di perdersi. Non per cercare soluzioni, ma per abitare meglio i propri pensieri.

    E in queste notti d’estate, mentre la luna continua ad attirare pensieri e sognatori, c’è chi – ascoltando questo brano – potrà finalmente dare un nome a quel senso di attrazione inspiegabile che ci tiene svegli quando il mondo dorme. Invitandoci, implicitamente, a fermarci, anche solo per il tempo di una notte, e chiederci chi siamo quando nessuno ci guarda.

  • La musica di Vi Skin continua a dare voce a chi non si sente mai abbastanza: il nuovo singolo è “Non è male (Studio Version)”

    «La vita è un gioco che non so giocare. Tanto vale che mi lasci andare». Comincia così “Non è male (Studio Version)”, il nuovo singolo di Vi Skin, cantautrice che negli ultimi anni ha saputo conquistare l’attenzione di pubblico e critica alternando brani di taglio intimista e personale come “Sei”, “Nei Guai”, “Calamita” e il recente “Mi avevi perso già” – una riflessione sul rapporto padre-figlia e sul percorso per imparare a bastare a se stessi – a inni sportivi quali “Amore Incondizionato” e “Ho scelto di vincere (We’re an only thing)”, dedicati all’Inter, la sua squadra del cuore, con cui ha emozionato migliaia di tifosi e preso parte a eventi ufficiali della società nerazzurra. Con questo nuovo lavoro, l’artista ciociara sceglie di pubblicare in piena estate una canzone fuori dagli schemi stagionali, senza ritmi da tormentone né parole leggere. Una decisione controcorrente, ma necessaria, che parla a chi, proprio quando tutto sembra spingere verso la spensieratezza, continua a interrogarsi, a cercare senso, a fare i conti con le proprie inquietudini e con il bisogno, spesso inascoltato, di fermarsi a respirare.

    Mentre l’immaginario collettivo invita a vivere questi mesi come evasione obbligata, Vi Skin riporta l’attenzione sul valore del dubbio e sull’importanza di accettare il fallimento, di accogliere l’errore come parte del percorso. “Non è male (Studio Version)” diventa così una risposta implicita a quella cultura della performance e del controllo che, secondo il 58° Rapporto Censis, riguarda il 58 % dei giovani (18‑34 anni) che si sente fragile e il 51,8 % che dichiara di soffrire di stati d’ansia o depressione. Un ritratto che conferma la crescente difficoltà di convivere con l’incertezza e l’imperfezione tra i più giovani, sempre più esposti alla pressione di dover essere impeccabili e vincenti.

    Il brano nasce in un pomeriggio qualunque, ma si misura con interrogativi concreti, domande che, prima o poi, attraversano la mente di chiunque cerchi di restare a galla tra aspettative e realtà: fino a che punto possiamo controllare ciò che viviamo? E cosa accade quando smettiamo di farlo? La risposta arriva, limpida, in un verso:

    «Devo imparare che sbagliare in fondo non è male.»

    Con questa frase, Vi Skin toglie il superfluo e porta in primo piano le parole e la loro fragile verità. La scelta di una “Studio Version” minimale non è solo stilistica, ma funzionale a mettere in risalto il senso e il peso di ogni verso: il focus resta sul messaggio, sui pensieri più immediati, sinceri e difficili al tempo stesso, quelli che in molti tengono per sé e pochi trovano il coraggio di ammettere, perfino a sé stessi.

    La canzone si snoda tra le contraddizioni di un amore sbilanciato, in cui la libertà di uno diventa il confine, il limite dell’altro – «La mia libertà la tua ossessione, la tua gelosia la mia prigione» -.

    «Frammenti che mi compongono», canta Vi Skin, dipingendo nel bianco e nero del suo pianoforte un’immagine, quella che racchiude l’essenza del pezzo: l’idea che siamo fatti di parti sparse, contraddittorie, a volte spezzate, e che proprio da quelle imperfezioni prende forma la nostra identità. Non esiste un’unità perfetta, ma un insieme di pezzi che, accettati e ricomposti, danno vita a qualcosa di unico.

    Dietro una melodia elegante, delicata e attraversata da una sensibilità rara, si cela il racconto di una relazione tossica, fatta di incomprensioni e privazioni, dove la passione per la musica viene vissuta dall’altro come una minaccia, non come una risorsa. Un’esperienza personale che Vi Skin sceglie di trasformare in un messaggio costruttivo, come lei stessa dichiara

    «Ho vissuto una relazione in cui la mia libertà veniva vissuta come una minaccia, la mia felicità ignorata, e la mia passione – la musica – non veniva accolta. Ho dato tanto, ho cercato di rendere il mio cuore un posto accogliente, ma ho ricevuto solo briciole. Anche da questa esperienza, però, ho scelto di trarre qualcosa di buono: ora so meglio cosa voglio e, soprattutto, cosa non voglio più.»

    In un’epoca in cui il dibattito sulle relazioni tossiche è sempre più centrale – basti pensare all’aumento di denunce per stalking e violenza psicologica registrato dal Viminale nel 2024 – Vi Skin punta i riflettori su un altro aspetto spesso taciuto: il controllo emotivo. La difficoltà di lasciare all’altro lo spazio per essere felice senza sentirsi meno amati.

    «Ho scritto questa canzone in un periodo in cui sentivo il bisogno di mollare le redini – prosegue l’artista –. Cercavo di controllare tutto per proteggermi, ma ho capito che così facendo stavo solo limitando la mia libertà. Ho capito che proprio ciò che sfugge al controllo può diventare una lezione preziosa: imparare a lasciar andare, a volte, è l’unico modo per respirare davvero. In fondo, sbagliare “non è male” se da quell’errore nasce qualcosa di nuovo.»

    Pubblicare una ballad introspettiva a luglio è una decisione controcorrente. Ma Vi Skin non cerca il consenso facile. Cerca chi, proprio nell’estate delle apparenze felici, ha bisogno di sentirsi meno solo nelle sue inquietudini.

    «Spesso pensiamo che questa stagione debba per forza coincidere con la leggerezza – conclude -. Ma conosco tante persone per cui l’estate non è una pausa dai pensieri, anzi. È un momento in cui il silenzio esterno amplifica il rumore interiore. Ho voluto dare voce anche a loro.»

    “Non è male (Studio Version)” è un invito a vivere le emozioni senza paura, ad accettare la vulnerabilità, e a concedersi il lusso di sbagliare, perché l’unico vero errore è rinunciare a vivere per il timore di fallire. E infondo, in un tempo che ci chiede di essere sempre impeccabili, imparare a fallire può essere la forma più concreta di libertà.

  • Nel cuore della tradizione, Giacomo EVA trova il futuro del cantautorato con “San Rocco”, il suo nuovo singolo fuori il 18 luglio

    Un borgo del Sud Italia, la processione di San Rocco tra vicoli antichi, il crepitio della fede e dell’umano che si intrecciano: così nasce “San Rocco”, settimo apripista dell’atteso nuovo album di Giacomo EVA, “Storie di uomini e di bestie”, in uscita il prossimo settembre. Un brano che parte dalla tradizione popolare per raccontare l’equilibrio misterioso tra opposti. Un equilibrio che affascina, talvolta stordisce, avvolge – consegnando un’esperienza sonora che trasmette un senso di novità pur restando ancorata alle radici.

    L’artista – già autore multiplatino noto per il Premio Lunezia e le collaborazioni con grandi nomi della musica italiana – propone una narrazione musicale che si misura con la tradizione e con il bisogno di rallentare, in antitesi con l’odierna accelerazione sociale. San Rocco fa da filo conduttore a quel tipo di cantautorato capace di immortalare una società in bilico tra spiritualità e quotidianità.

    Ambientato in una notte estiva, il brano attraversa un corteo dove bene e male si sono scontrati e confusi senza mai mischiarsi. Le parole del testo – scritte dallo stesso artista calabrese – sono in grado di restituire all’ascoltatore l’importanza del gesto religioso, insieme al respiro collettivo di chi attende un segno. Un’immagine tradizionale che Giacomo riesce a rendere esperienza contemporanea, non costruita ma vissuta, non descritta ma interiorizzata, trasudata, filtrata dalla pelle.

    La partitura orale del pezzo – «Passa passa San Rocco (…) Ogni casa conosce, di ogni campana sa il suo rintocco» – riporta istantaneamente a quella notte mistica, tra danze sacrali e consuetudini secolari. Il ritornello ripetuto simula il passo del corteo tra i vicoli e volge in musica il battito unanime di una comunità. La descrizione del santo che «passa col suo fedele accanto», fa emergere un vivido spaccato di fede popolare e presenza profana, rendendo il brano un documento musicale sull’identità locale e sulle pratiche rituali in costante ridefinizione, come dichiara lo stesso EVA:

    «Quella notte, camminando nel borgo illuminato a candela, ho visto il confine tra sacro e profano diventare labile. “San Rocco” porta in sé questa ambiguità: una preghiera e un racconto, insieme.»

    L’artista ha elaborato un “luogo immaginato” che unisce la memoria personale e quella popolare, tra rito e introspezione, raccontando un Sud contemporaneo che ha ancora voglia di radici.

    “San Rocco” si innerva nel flusso narrativo di “Storie di uomini e di bestie”, progetto che da marzo ha visto già altri sei singoli esordire uno dietro l’altro: da “Dannata tu” a “Il tango del giuramento”. L’album – che è stato presentato dal vivo proprio in Calabria lo scorso inverno, registrando tre sold out consecutivi – prende ora forma definitiva, in attesa dell’ottavo inedito, “Ninna nanna per adulti”, in uscita il 1° agosto.

    Il file rouge del disco sono le storie archetipe, narrazioni che abbracciano varie tematiche – tra cui l’amore, le radici, la fuga di un adolescente dalla propria terra, la vita di un naufragio, una festa di paese, una ninna nanna per adulti, un tango per gli innamorati -. L’artista ha vissuto un punto di rottura che l’ha portato a domandarsi che fine avessero fatto le storie che ci hanno formato come persone, trovando risposta nelle emozioni più intime che troppo spesso ci vengono rubate da una società sempre più veloce. Il mondo che Giacomo EVA crea con le sue canzoni è favolistico, ma non infantile, un mondo fatto di materia viva, di natura, di legno, di acqua, di verde, di istinti passionali e di verità forti, sia positive che negative.

    Con un format strutturato, Giacomo coniuga narrazione e musica, legando ogni canzone a un tema. Qui, “San Rocco” si fa strada tra la gente come invito a indagare la presenza di sacro in un mondo sempre più veloce e disgiunto dai rituali, ma soprattutto dalla fede. In sé, negli altri e nell’Altro.

    In un momento storico in cui le comunità tentano di ritrovare un senso di appartenenza, “San Rocco” parla di ritorno ai riti, di rivalutazione della memoria popolare, della riscoperta del territorio come radice e cura. Un fenomeno confermato da dati recenti: secondo ISTAT (2024), il 68 % degli italiani sostiene che le feste tradizionali rafforzino il senso di comunità. Un fenomeno culturale che si lega al viaggio interiore narrato da Giacomo – e che rende “San Rocco” più rilevante e attuale che mai.

    «”San Rocco” – conclude – non racconta solo una festa di paese, racconta l’energia che attraversa le persone, che oscilla tra attesa e abbandono – un riflesso di quanto accade dentro ciascuno di noi.»

    “San Rocco” è la fotografia musicale di un’Italia che rinasce dalla sua storia, nei gesti, nelle parole e nell’incontro. Un racconto che Giacomo EVA propone con grande rigore compositivo, sensibilità espressiva e un’inedita tensione tra tradizione ritrovata e ricerca emotiva. Un brano che merita attenzione, perché sa restituire senso a un tempo che spesso lo smarrisce.

  • “Ti Verrò A Cercare” dei Ferrinis parla a chi ha amato nel silenzio

    C’è chi se ne va e chi resta. E poi ci sono legami che, anche quando sembrano dissolti, continuano a chiamarci. Invisibili, ma insistenti. In “Ti Verrò A Cercare”, il nuovo singolo dei Ferrinis, Maicol e Mattia raccontano proprio questo: la forza silenziosa che ci spinge a cercare chi sentiamo ancora vicino, anche quando la distanza non è solo fisica, ma fatta di tempo, assenza e coraggio.

    Secondo uno studio condotto nel 2024 dalla LuvLink Research Unit, oltre il 70% degli studenti universitari europei ha sperimentato almeno una relazione a distanza, e più del 60% di queste storie si sono protratte per oltre sei mesi. Un dato che non parla solo di chilometri, ma di un’intera generazione abituata a creare connessioni resistenti all’instabilità. In un tempo di amori intermittenti, di legami sospesi tra notifiche e sparizioni, “Ti Verrò A Cercare” si fa portavoce di una domanda ricorrente: cosa resta quando l’altro non c’è, ma continua ad abitare i nostri pensieri?

    Un quesito che torna a farsi sentire proprio in questo periodo dell’anno, nel cuore dell’estate, quando tutto si dilata. Le città si svuotano, i ritmi si spezzano, le distanze si moltiplicano. Ma non tutte le separazioni sono visibili. Alcune si consumano in silenzio, tra messaggi non inviati e pensieri ricorrenti. “Ti Verrò A Cercare” non parla di una partenza, ma di un ritorno possibile. Di quella forza ostinata che, anche quando tutto sembra in stallo, continua a chiamare l’altro.
    Un contesto tutt’altro che raro. Ed è proprio in questa condizione condivisa – spesso ignorata dalla narrazione musicale – che i Ferrinis riconoscono l’urgenza di una canzone.

    Il «Ti verrò a cercare, dove il sole incontra il mare» – ripetuto nel testo, crea uno spazio sicuro, un luogo simbolico dove ritrovarsi, dove il suono non elude la nostalgia, ma la attraversa. E in quella «forza magnetica che ci collega e non se ne va», Maicol e Mattia incidono una promessa capace di resistere al tempo.

    Non è una formula magica, ma una direzione. Un punto da raggiungere, o semplicemente da desiderare. La scrittura sceglie la sottrazione, lascia che siano poche immagini a sostenere tutto il peso emotivo: la distanza, la speranza, la perseveranza del cuore.

    Sul piano musicale, “Ti Verrò A Cercare” si muove in equilibrio tra elettronica essenziale e apertura melodica. I synth accompagnano la voce senza sovrastarla, i suoni restano liquidi, dilatati, come a sospendere gli attimi. La produzione è asciutta, ma calibrata, in grado di dare spazio alla parola e alla pausa. Tutto – nel ritmo, nei timbri, nella scelta di non forzare l’emotività – sembra cucito ad hoc, pensato per custodire l’intimità di chi ascolta.

    «Abbiamo scritto questo brano pensando a chi ha continuato a cercare qualcuno che sembrava sparito – raccontano i Ferrinis –. A volte non sappiamo neanche cosa stiamo cercando. Ma il fatto stesso di metterci in cammino dice qualcosa di noi: che non ci siamo arresi.»

    Dopo il secondo album “Twins” e il singolo “Le Luci di New York”, “Ti Verrò a Cercare”, accompagnato dal videoclip ufficiale diretto da FG Pro Studio, segna una nuova svolta per i fratelli forlivesi: aria più rarefatta, immagini essenziali, nessuna pirotecnica. I Ferrinis scelgono ritmo misurato, melodia calibrata e parole che non lasciano vuoti.

    Sullo sfondo, la percezione di una generazione che ha imparato a vivere ricongiungimenti digitali e separazioni anticipate. Una generazione che sa salutarsi con uno schermo acceso e restare connessa anche quando tutto sembra interrotto.

    Proprio per questo motivo, “Ti Verrò a Cercare” racconta qualcosa di più: diventa una colonna sonora collettiva per chi ama da lontano. Non un’operazione commerciale estiva, ma un piccolo rito che unisce chi resta a chi parte – chi non molla, pur nella distanza.

    “Ti Verrò A Cercare” non chiede di essere capita, ma sentita. Non promette risposte, ma resta lì, nel punto esatto in cui il legame non si è ancora spezzato. Quello spazio fragile in cui cercare diventa già un modo di restare.