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  • Dimenticate i cliché: “Essere o Avere” è rap che pensa

    «Essere o avere sembran solo due verbi, ma in realtà sono nervi». È qui, tra filosofia e asfalto, che Bosky – cantautore nato e cresciuto ad Aulla (MS), tra Liguria e Toscana – dà vita al suo primo singolo, “Essere o Avere”. Un brano inciso con atmosfere old‑school, produzione rock abrasiva e un testo che parla di ricerca di senso, identità, ansia da social, soldi e isolamento. Ma lo fa con una voce matura, consapevole, che attinge a Hesse e Nietzsche più che alla retorica da “street boy”. È il rap di chi la vita l’ha vissuta, non quella da palcoscenico, ma quella che comincia quando le luci si spengono. Il rap dell’uomo che si confronta con la società della morale, della routine e dei like.

    Scritto dopo anni di immersione in letture filosofiche, “Essere o Avere” contrappone concetti e materia: l’aver non può comprare l’essere. Bosky rifiuta il rap come cliché: non canta da duro, ma da pensatore poetico-scarno, dipingendo la realtà di chi vuole essere riconoscibile, non omologato. Un pezzo che sceglie il coraggio della verità in luogo dell’ovvietà performativa.

    «Questo singolo parte dall’idea di confrontare questi due verbi, due mondi mentali – dichiara -. Non è rap da gangsta o da like, ma rap che racconta la ricerca di autenticità. I riferimenti ai serpenti e all’aquila, al Cayenne e alla vecchia Benz non sono per sembrare figo. Sono per mostrare che l’essere conta più dell’avere. Non amo la musica vuota: il rap per me è un’arma, un pensiero che chiede di farsi sentire.»

    Prodotto da Francesco Pratesi – beatmaker rock‑rap della scena toscana –, “Essere o Avere” unisce un groove analogico, chitarre live e linea ritmica essenziale per richiamare le radici del genere. Il videoclip ufficiale che accompagna la traccia, girato in bianco e nero, punta su atmosfera, linguaggio visivo asciutto e pochi simboli: nessuna narrazione forzata, tutta immediatezza. Il classicismo sonoro – ispirato a pesi massimi della scena come Marracash, Fabri Fibra e Nitro – si sposa con una parola lucida e cruda, quasi ferale.

    Nel 2024, il rap italiano ha esercitato un potere culturale crescente: oltre il 24% dei 16‑24enni lo indica come genere di riferimento, ma secondo recenti analisi e osservatori, solo una minima parte delle uscite propone contenuti di reale spessore. “Essere o Avere” cerca di colmare questo divario, offrendo un pezzo che va oltre beat e flow, presentandosi come gesto culturale radicato nel vissuto comune, lontano dalle tendenze. Un brano che guarda alla coerenza, all’identità e al pensiero.

    Bosky ha studiato scrittori come Bukowski, Hesse, Nietzsche e Svevo fin da adolescente. Ha lavorato come operatore nel settore della sicurezza privata, dedicando tempo alla scrittura e alla lettura. La sua passione per il rap è nata tra i testi che ammirava; ha trovato nel rock‑rap la forma più schietta di espressione. Con “Essere o Avere” debutta come artista completo, unendo potenza lirica e produzioni essenziali, senza compromessi. Il suo rap non è musica da consumare: è fibra espressiva, riflessione e appartenenza.

    Bosky non cerca consensi. Cerca coscienze sveglie, ascoltatori vigili, attivi. E una scena in cui l’essere valga ancora più dell’apparire.

  • “Mostro” di Matteo St Fedele: il pop che si sporca le mani con la verità

    C’è chi, per raccontarsi, inventa una maschera. Altri trasformano il cambiamento in un personaggio, e ne fanno un concept. Matteo St Fedele compie il percorso inverso: rinuncia al filtro dell’alter ego e si firma con il proprio nome. Nel riflesso scheggiato di uno specchio, l’artista milanese ha deciso di guardarsi davvero. Non più da personaggio, ma da persona. Venerdì 13 Giugno esce “Mostro”, il suo nuovo singolo che chiude idealmente il percorso cominciato con il mini EP triple track “Generazione XXX” e inaugura ufficialmente una nuova fase artistica: quella che coincide con l’addio a MADMATT e con l’affermazione di un nome che è insieme identità, storia e scelta.

    Una dichiarazione di guerra e di pace con sé stessi. Una resa dei conti quotidiana, che si consuma in silenzio e che tutti affrontiamo ogni volta che smettiamo di recitare: oltre la superficie, oltre le corazze: «Perdonami stanotte, amore ho fatto a botte con me stesso allo specchio che si è rotto in un vizio».

    “Mostro “non è solo la cronaca di una caduta, ma anche l’anticipazione di una risalita. Nelle sue parole, Matteo dà spazio al dolore, ma lascia aperto uno spiraglio, una possibilità di rinascita: «E allora vedrai, il mostro che è in me. Nulla che non possa vincere». È un corpo a corpo con la depressione, la dipendenza, l’auto-sabotaggio. Una notte lunga una vita, in cui i pensieri diventano nemici e l’identità si frantuma.

    La produzione, asciutta ed essenziale, accompagna un testo che sprofonda nella psiche di una generazione sospesa tra iper-esposizione e assenza di parola. Lo special del brano, quasi spoken word in stile conscious rap, prende posizione contro l’omologazione e la superficialità dell’era digitale – «Non ti esprimi a parole, fenomeni sui social, ma dal vivo hai un neurone» -, spostando il focus dal contesto alla coscienza. Un flusso, un atto d’accusa, e insieme un’esortazione a riappropriarsi del linguaggio, del corpo, dell’identità: «Un chitarrista cieco, ma una Guernica d’amore».

    Nessun moralismo. Nessuna lezione. Solo un’immagine che resta incollata alla testa. Non è un inciso. È un colpo secco. Uno sfogo scritto senza tentare di addolcire niente, né per sé né per chi ascolta. Senza effetti speciali. Solo ritmo e frustrazione. Il tono è ruvido, quasi parlato.

    Ma poi succede qualcosa. Un verso spezza l’equilibrio, sposta il baricentro, apre un varco imprevisto:

    «Quarta Dimensione, la mia propensione a non essere una retta, una lunghezza un’estensione.»

    Non è una semplice trovata poetica. È il punto in cui “Mostro” abbandona il racconto per interrogarsi sulla percezione del tempo, sull’identità come forma fluida e non misurabile. La “quarta dimensione” non è un’astrazione, è uno stato, una condizione mentale. Lo spazio altro in cui la linearità e la logica vengono sospesi. È la zona grigia tra chi si è e chi si vorrebbe essere, l’istante in cui si consuma la frattura tra ciò che si è e ciò che non si riesce ad accettare. Non una fuga, ma un territorio di collisione. Quello di chi si sente fuori asse, fuori tempo, fuori campo. Di chi vive scostato rispetto alla traiettoria attesa.

    Mentre tutto intorno corre e si misura in termini di performance, velocità e coordinate, Matteo St Fedele rivendica il diritto a una dimensione non quantificabile: quella della coscienza che vacilla, dell’Io che si scompone e si ricompone. E la nomina con una semplicità disarmante, quasi scientifica, e al tempo stesso la carica di un senso esistenziale profondo: la metrica si spezza, il significato si espande. La canzone si apre così a una zona instabile e inquieta: un pensiero che non si può ordinare, un’identità che non si può spiegare con coerenza.

    Qui il brano si fa quasi esistenzialista, scavando nei paradossi della percezione e nel senso di smarrimento che accomuna un mondo costantemente connesso ma incapace di ritrovarsi. È in questa interzona che si consuma il conflitto centrale del pezzo: tra il bisogno di riconoscersi e la paura di farlo davvero.

    In un tempo in cui mostrarsi è diventato quasi un obbligo, “Mostro” propone l’esatto contrario: fermarsi a guardare ciò che non si mostra. Dare un volto ai propri fantasmi. E magari, un giorno, accettarli.

    Con una scrittura sempre più adulta, Matteo St Fedele si distacca dal personaggio e si mette a nudo. Senza sovrastrutture, senza maschere. Solo con il proprio nome. In “Mostro”, si confronta con la parte più oscura di sé, ma lo fa con una postura nuova: non più difensiva, non più ribelle, ma finalmente vulnerabile. Il brano si fa politico, nel senso più alto: perché parlare apertamente di salute mentale, di dipendenza, di crisi di identità, in un’epoca di estetica curata e narrazioni vincenti, è un gesto radicale. Un invito a non semplificarsi, a non censurarsi, a non recitare più.

    «”Mostro” chiude simbolicamente due anni della mia vita – afferma Matteo St Fedele -, e lo fa facendomi finalmente fare pace con me stesso. È lo specchio con cui tutti ci confrontiamo, ogni giorno. A volte ci restituisce un’immagine distorta, che non riconosciamo, che ci fa paura. Ma ci dà anche una possibilità: quella di riuscire, un giorno, a guardarsi e accettarsi. Per questo oggi non sono più MADMATT. Oggi sono Matteo St Fedele, con tutto quello che significa.»

    Il cambio nome, da MADMATT a Matteo St Fedele, è parte integrante di questa narrazione. Non è una trovata di marketing, né una maschera nuova. È il contrario. È il momento in cui si smette di recitare. Un ritorno all’essenziale, alla propria storia, al proprio cognome.
    Un modo per dire: non devo più interpretarmi. Adesso mi firmo.

    “Mostro” non dà risposte. Non cerca redenzione. Ma fa una cosa più importante: chiede di fermarsi a guardare. Anche dove fa più male.
    Perché oggi, accettarsi senza filtri, è forse il gesto più coraggioso che ci sia.

  • Da Amici a Eminem: il percorso di Manuel Aspidi passa da chi ha bisogno di sentirsi accettato

    Dopo aver scalato le classifiche internazionali con “Wildfire” ed “Eternal Echoes”, e in attesa della collaborazione con Eminem – la prima di sempre tra il leggendario rapper di Detroit e un artista italiano, che vedrà la luce entro fine anno e i cui dettagli verranno svelati dopo l’estate – Manuel Aspidi torna con “Love Yourself”, il suo nuovo singolo disponibile su tutti i digital store da venerdì 13 giugno per Bentley Records.

    Specchi, filtri, giudizi: in mezzo a un rumore di fondo che destabilizza e incoraggia l’omologazione, il cantautore livornese sceglie il silenzio, quello necessario dell’accettazione. Un’accettazione che non coincide con la resa, ma con una scelta consapevole: smettere di rincorrere un’idea imposta di perfezione e tornare a riconoscersi allo specchio per ciò che si è – con le proprie fragilità, la propria storia, le proprie cicatrici.

    In un mondo in cui l’immagine conta più dell’identità — e dove 9 ragazze su 10 tra i 13 e i 17 anni (secondo un’indagine Girl Scouts) sentono la pressione dell’industria dell’apparenza, mentre il 18% dei ragazzi coetanei ammette di preoccuparsi per il proprio aspetto e peso — la musica può ancora ricordarci chi siamo. Secondo dati interni di Instagram, il 70% delle adolescenti e il 40% dei ragazzi afferma di vivere confronti negativi con le immagini viste online. “Love Yourself” è la risposta personale e artistica di Aspidi a una società che misura il valore con gli occhi degli altri. Una canzone che, con delicatezza e maturità, restituisce al pop il suo ruolo più nobile: quello di strumento culturale, non solo commerciale. Quello di raccontare chi siamo, non solo vendere chi vorremmo essere.

    Scritto in inglese, su una produzione dal respiro internazionale, “Love Yourself” parla di autostima in maniera netta, disillusa e coraggiosa, rivolgendosi a chi, almeno una volta nella vita, si è sentito sbagliato. A chi ha guardato lo specchio cercando un’apparenza conforme, senza riconoscersi – «In a world of mirrors, reflections we see, comparing ourselves to what we think we should be» («In un mondo di specchi, vediamo riflessi, ci confrontiamo con ciò che pensiamo di dover essere»). A chi si è confrontato con modelli irraggiungibili, filtrati, distorti.

    Le parole di Aspidi non addolciscono la realtà, ma la guardano in faccia, mettendo a fuoco una delle dinamiche più tossiche del nostro tempo: l’illusione di dover corrispondere a un’immagine, anziché apprezzare la propria. “Love Yourself” suggerisce una pausa. Un passo indietro per tornare a vedersi, non attraverso gli occhi altrui, ma attraverso ciò che si è.

    «Questo singolo è nato dal bisogno di ricordarlo a me stesso, prima ancora che agli altri – racconta Manuel -. Viviamo in una società che ti spinge a correggerti, omologarti, ridurti a una forma accettabile. A tutte le persone che lo ascolteranno, voglio dire di spegnere le voci che dicono loro di cambiare. La musica può ancora essere un atto di ribellione e resistenza gentile: un modo per dire che ogni cicatrice è una storia, e ogni storia ha valore. Nessuno dovrebbe sentirsi sbagliato per com’è.»

    Il videoclip ufficiale – interamente realizzato in animazione da Daniele Cipriani – affida il messaggio del brano a un linguaggio che, pur nella finzione dichiarata, riesce a dire il vero più di tante immagini patinate. Perché i cartoni, visti da adulti, non sono evasione: sono coscienza illustrata. E sanno mostrarci, con leggerezza chirurgica, ciò che spesso la realtà censura.

    “Love Yourself” è il naturale proseguimento di un progetto musicale che mette al centro valori come l’inclusione, la libertà espressiva e il rispetto delle differenze – perché sono proprio quelle che ci arricchiscono e ci rendono riconoscibili, unici, irripetibili. Temi che trovano sempre maggiore eco: secondo un recentissimo studio realizzato da Skuola.net insieme all’Associazione Di.Te. – Dipendenze tecnologiche, in Italia, quasi un giovane su due è condizionato dai modelli estetici imposti dai social media, fino ad arrivare – nel 40% dei casi – a evitare situazioni sociali per timore del giudizio altrui. Un dato che restituisce la misura di un disagio silenzioso, ma diffuso.

    Negli ultimi due anni Manuel Aspidi ha consolidato la sua presenza sulla scena internazionale, con singoli entrati nelle classifiche di oltre 20 Paesi e trasmessi da emittenti in Europa, America e Asia. Dopo il successo internazionale di “Wildfire” ed “Eternal Echoes”, “Love Yourself” è un invito a rifiutare gli standard imposti e a riconoscere la bellezza nell’imperfezione. Nessuna retorica dell’autostima, ma uno sguardo consapevole su un’epoca in cui il corpo è sempre più un campo di battaglia tra ciò che siamo e ciò che ci viene chiesto di essere.

    Con il suo timbro immediatamente riconoscibile e un talento vocale che ha conquistato il pubblico fin dai tempi di Amici, Aspidi si conferma oggi come una delle voci italiane più autorevoli anche ben oltre confine nella canzone pop d’autore.

    E in attesa di scoprire cosa riserverà la collaborazione con Eminem, “Love Yourself” non inaugura una fase: interrompe un’abitudine.
    Quella di cantare per piacere.

    Per Manuel, la musica non è mai stata un’illusione da rincorrere, ma un linguaggio di verità da raccontare. “Love Yourself” ne è la prova più semplice. La conferma che si può fare pop senza rinunciare al contenuto.
    E che, anche nella società dell’apparire, esistono ancora canzoni – e artisti – che scelgono la via dell’essere.

  • Il Faida Clan spara rime come Escobar: “Only Faida” è il nuovo singolo, un banger identitario tra cultura e territorio

    «Code in costante aumento da Bologna a Rimini consigliata l’uscita Only Faida». Basta l’incipit per capire che “Only Faida“, il nuovo singolo del Faida Clan fuori per Watt Musik, non è il classico pezzo rap degli ultimi anni: è una traccia che racconta una scena in fermento, tra strada e consapevolezza. Una cartina geografica piegata in quattro e ripensata con flow chirurgico e immagini a fuoco.

    La Romagna si fa Medellín, la statale adriatica diventa l’autostrada del rap indipendente, e il beat – marcatamente Old School ma con un’attitudine contemporanea che suona attualissima – è solo il punto di partenza di un lavoro sincero, crudo, senza mediazioni. Una produzione capace di unire impatto e stile, con un’impronta che guarda al passato ma suona contemporanea, senza sembrare un revival.

    Nel pieno della rinascita delle scene locali, che stanno tornando a ridefinire la geografia musicale italiana, “Only Faida” è parte attiva di un trend sempre più evidente: quello del rap di provincia che non chiede permesso e non copia modelli esterni, prefabbricati, ma si articola su un’identità riconoscibile, radicata nel territorio e aperta al mondo.

    Nato nel 2022 da un’idea di Starks, il Faida Clan si fonda su un’idea precisa di Hip Hop: un’alleanza di dieci artisti che lo vivono e lo difendono come codice culturale, come linguaggio identitario e come militanza sonora. I am Elle, Slat, Mc Callaman, Word, Shoot, Skema the Rapper, Nik Riviera, Guil e DJ Code2 hanno risposto alla chiamata:

    «La musica e la cultura Hip Hop rappresentano la nostra strada ed il nostro mezzo verso un obiettivo comune: godersi il viaggio!»

    “Only Faida” segna per la crew romagnola un passo avanti rispetto ai precedenti progetti, per ambizione e compattezza stilistica. È un brano strutturato con precisione, in cui ogni barra scandisce il ritmo con sicurezza, sorretta da un flow che non lascia spazio a distrazioni.

    Con questo banger, il collettivo alza l’asticella. Strofe serrate, incastri perfetti e punchlines che non cercano di rincorrere né il plauso né il consenso facile, ma che li generano spontaneamente. «Io faccio al rap ciò che Pablo Escobar ha fatto alla coca», «Faida Clan qua detta legge, invecchia bene tipo cougar». Nel testo si susseguono non sono solo citazioni, ma vere e proprie architetture verbali che costruiscono un mondo parallelo, dove ogni riferimento narcos si intreccia alla provincia italiana con sagacia, controllo metrico e rispetto delle radici.

    Il brano, prodotto da Code2, rifinito presso il Wonderland Studio di Starks e accompagnato dal videoclip ufficiale, unisce tecnica e immaginario, estetica e rivendicazione. È l’ennesima dimostrazione che una scena regionale può parlare con voce internazionale, a patto che abbia una visione e un’identità chiare. E il Faida Clan, in questo, ha pochi rivali.

    Il Clan, già protagonista con il brano “Wake Up“, torna con un nuovo capitolo che conferma la volontà di lasciare un messaggio: non inseguendo il trend, ma ribadendo con stile e contenuti che un altro rap è possibile. Un rap che conosce le sue radici, rispetta la propria geografia e ha il coraggio di dichiarare guerra all’omologazione.

    Negli ultimi anni l’Emilia-Romagna si sta riconfermando come una delle aree più fertili per la scena italiana: una regione in cui le influenze si mescolano, le crew si moltiplicano, e la spinta dal basso ha generato un movimento in fermento, vivo, indipendente e sempre più autorevole.

    A guidare questa nuova ondata c’è il Faida Clan, che incarna l’energia, l’identità e la forza di una terra che non si lascia definire.

    È “Only Faida”. È Romagna. E non somiglia a nient’altro.

  • Situationship: la zona grigia dell’amore raccontata dai Ferrinis

    Le luci sono quelle di New York, ma il buio in cui si muovono i protagonisti è più vicino di quanto sembri. Non si vede, ma si sente. È fatto di labbra che confondono, promesse che luccicano solo da lontano, corse senza meta dentro relazioni che iniziano già rotte. Nel nuovo singolo “Le Luci di New York”, i Ferrinis scelgono l’estetica della grande metropoli per raccontare una storia fatta di eccessi, attrazione e ambiguità. Un racconto che profuma di città, intriso di edonismo e disillusione, in cui l’immaginario del lusso si intreccia con quello della dipendenza affettiva, trasformando l’iconografia glamour in una trappola luminosa, nello specchio deformante di una generazione che ama in modalità provvisoria.

    Il brano – disponibile su tutte le piattaforme digitali – arriva dopo la pubblicazione del secondo album di Maicol e Mattia Ferrini, “Twins”, e consolida una direzione stilistica capace di unire l’efficacia della scrittura pop a una visione contemporanea e riconoscibile. “Le Luci di New York” prosegue quel discorso, ma ne isola una dimensione precisa: quella in cui l’apparenza abbaglia e il senso si perde. Con una forma espressiva ancora più spinta, quasi seriale, il brano segna un passo deciso nella costruzione di uno stile che è musicale, visivo e narrativo al tempo stesso.

    «Le luci di New York correranno più forte sulla Lambo senza stop»: è da questo verso – reiterato come un mantra – che si innesca il meccanismo del brano: una corsa a perdifiato dentro un desiderio bruciante che non conosce tregua. Una relazione che vive di notte, tra vodka, corpi sfiorati, labbra che confondono e promesse non mantenute. Il ritmo è incalzante, ipnotico, ma sotto la superficie di una notte eterna resta la sensazione che qualcosa stia per cedere, facendo intravedere il punto di rottura. Come se la festa non bastasse a coprire il rumore del vuoto.

    Tutto rimane sospeso. Le frasi si spezzano prima di diventare spiegazione, le sequenze suggeriscono qualcosa ma poi sfumano. Non c’è una direzione chiara, e forse è questo il punto. Perché certi rapporti non si spiegano: si vivono, si subiscono, si attraversano. “Le Luci di New York” prende quel caos, quella confusione e ci resta dentro. Non tenta di fare ordine, lascia tutto com’è. Crudo, discontinuo, reale.

    Il lusso non consola, il profumo inganna, le rose – come certe relazioni – hanno sempre qualcosa che punge. Il vero senso del pezzo è qui, nel territorio intermedio tra attrazione e pericolo, presenza e fuga. La scrittura lascia che siano i dettagli a fare il lavoro, tracciando un sentiero volutamente tortuoso, che rifiuta la chiarezza per restituire il sapore dolceamaro dei rapporti che non si definiscono. Perché più che raccontare, “Le Luci di New York” insinua. E lo fa lasciando aperte le frasi, come succede nelle storie d’amore che iniziano con grandi proclami e finiscono in silenzio.

    «Ci interessava lavorare su un’immagine che fosse immediatamente riconoscibile, ma usarla per dire qualcos’altro – spiegano i Ferrinis –. Le luci di New York, in questo caso, diventano il simbolo di tutte le promesse che brillano ma poi non mantengono. Ci sono rapporti che sembrano fatti per farci sentire vivi, ma che alla fine ci lasciano solo più confusi.»

    Maicol e Mattia ci riportano nel loro mondo, fatto di pop notturno e cultura visuale. Un approccio che trova la sua coerenza anche in questo pezzo, sottolineando la loro vocazione per un linguaggio sempre più ibrido, tra suono e immagine.

    Esteticamente, “Le Luci di New York” si colloca in quel filone urban-pop che dialoga con l’immaginario di serie come “Euphoria”, videoclip in stile Netflix e canzoni che sembrano scritte per accompagnare sequenze di film. Il duo forlivese spinge ancora una volta sulla direzione di una musica che sia anche visione, atmosfera, contesto. E lo fa senza rinunciare alla qualità sonora, ma senza nemmeno nascondere le zone d’ombre che attraversano i testi.

    Oggi oltre il 60% dei giovani tra i 18 e i 30 anni definisce le proprie relazioni come “instabili” o “non definite”. Lo rileva uno studio dell’Università di Stanford, pubblicato su Psychological Science, che fotografa una condizione sempre più diffusa: quella di rapporti che sfuggono a ogni etichetta, dove attrazione e ansia si sovrappongono, e l’intimità è spesso alternata da silenzi improvvisi. Un dato che conferma quanto l’indecisione e la narrazione di un amore “on/off” siano parte integrante del vissuto affettivo attuale. “Le Luci di New York” si muove dentro questa zona grigia, raccontando quello che resta quando l’amore non trova una forma, ma continua a farsi sentire.

    Una dinamica che ha un nome preciso – situationship – e che vive nei thread di Instagram, nei POV virali su TikTok, nei post di psicologi relazionali e nelle confessioni anonime sulle riviste online. Non è una storia d’amore né una semplice frequentazione: è un limbo affettivo, spesso intenso, quasi sempre instabile.

    “Le Luci di New York” lo racconta senza puntare a compiacere e senza voler essere una semplice canzone da club. Parte da immagini patinate, ma le usa per parlare di quello che c’è dietro: il vuoto, il desiderio che arde ma consuma, l’ambiguità. È un racconto disilluso e al contempo seduttivo, che usa i codici della notte e del lusso per scavare nel silenzio distruttivo che talvolta resta dopo la festa. Perché a volte, la confusione è già una forma di narrazione.

    Una fotografia pop, lucida e contemporanea, di ciò che succede quando l’apparenza sovrasta il contenuto, quando il bisogno di sentirsi desiderati diventa più forte del bisogno di sentirsi capiti.

    «Non siamo mai stati interessati a raccontare l’amore perfetto – concludono i Ferrinis –. Preferiamo mostrare le ombre, i contrasti, le verità a metà. Forse perché sono proprio quelle a farci riflettere di più su chi siamo davvero.»

    Tra vetrine luminose e copertine lucide, soffermarsi su ciò che resta in ombra – o su quello che riflette per errore – è una scelta consapevole. Perché in un tempo in cui tutto sembra dover brillare, il coraggio sta anche nel mostrare quello che la luce non illumina.

  • Un inno d’identità rivisitato da chi ha sempre rotto gli schemi: Naike Rivelli e Ornella Muti reinterpretano “L’Italiano”

    C’è una canzone che ha raccontato – e continua a raccontare – l’Italia a chi la vive, e soprattutto a chi la porta nel cuore da lontano. Oggi quel brano – “L’Italiano”, scritto da Toto Cutugno con Cristiano Minellono – torna con una veste nuova: cinque versioni remixate che vedono, per la prima volta insieme in musica, Naike Rivelli e Ornella Muti.

    Il progetto nasce da un’intuizione di Gianmarco Aimi, che insieme ad Edoardo Pelandi, Pietro Paolo Pelandi (P. Lion), Marco Torri e Stefano Alvino, ha voluto lavorare su un classico della canzone italiana senza trasformarlo in esercizio nostalgico. L’operazione – affidata alla produzione artistica di Efrem Sagrada – si muove lungo una linea precisa: mantenere il nucleo popolare e melodico del brano, aggiornando struttura e arrangiamenti con un taglio contemporaneo, senza cedere né all’effetto revival né a una modernizzazione forzata.

    Il risultato sono cinque tracce coerenti che conservano riconoscibilità e forma, ma introducono elementi ritmici e timbrici più attuali.

    Ma è soprattutto la presenza congiunta di Naike Rivelli e Ornella Muti a definire l’identità stessa dell’operazione, spostandola oltre la semplice rilettura. Mai insieme prima d’ora in un progetto musicale, figlia e madre condividono qui uno spazio espressivo inedito: la voce come strumento di dialogo, di interrelazione generazionale, simbolica e artistica.

    Non si tratta di un duetto costruito a tavolino: è il frutto di un lavoro di sintesi, dove due percorsi diversi –di un’artista poliedrica e laterale come Naike Rivelli e quello di un’attrice che ha attraversato decenni di cinema italiano e internazionale – si incontrano su un terreno comune: il corpo, la presenza, la libertà espressiva.

    A rafforzare questa scelta, anche la regia del videoclip backstage ufficiale della Fisa RMX, girato volutamente in ambito domestico, in un contesto informale, essenziale. Un ambiente quotidiano, non ricreato, che restituisce una dimensione familiare non filtrata. All’interno del video, al fianco di Naike Rivelli e Ornella Muti, compaiono Cristiano Minellono – celebre paroliere di tanti successi (da “Felicità” di Al Bano e Romina Power, a “Soli” e “Il tempo se ne va” di Celentano, a tanti altri brani interpretati da grandi nomi della canzone italiana) -, i ballerini Ivan Cottini e Bianca Berardi, Luca Fiocca – figura nota per le sue apparizioni pubbliche e per l’immagine delineata nel tempo come “architetto della seduzione” – e le attrici Roberta Bregolin e Teodora Corona.

    Il remix non è pensato per i fan della dance né per il pubblico dei nostalgici. È un lavoro di rilettura consapevole, che opera sull’eredità della canzone italiana e sulla sua possibilità di essere ancora oggi un linguaggio attivo, capace di raccontare identità, appartenenze, ma anche distanza, ironia, straniamento.

    Le cinque versioni, tutte interpretate da Naike Rivelli con il featuring d’eccezione di Ornella Muti, si rivolgono a circuiti diversi. La versione principale è la Fisa Remix, incentrata sulla fisarmonica suonata dal Maestro Sandro Allario. A questa se ne affiancano altre quattro: un remix con chitarre in primo piano e ritmi latini (Guitar Mix), una lettura più elettronica firmata da Kama Kore e Fluphonic & The Jakdje (Jacopo e Diego Polimeno).

    Il Fisa Remix, il Guitar Mix e il Normal Mix sono prodotti dalla Top Records di Alex Zullo e Paolo Pozzi, con distribuzione internazionale a cura di Pirames. La versione Dance per i club è stata invece realizzata da Massimo Spinetti su Etichetta Superstar Records di Miki Del Prete ed Efrem Sagrada con distribuzione PA74Music.

    Il progetto era stato inizialmente pensato per un evento dedicato a Toto Cutugno previsto al Cremlino di Mosca, poi rimandato al 2026 a causa del conflitto internazionale in corso.

    “L’Italiano”, nel 2025, torna dunque a parlare al presente, ad essere un pezzo vivo del nostro immaginario collettivo. E lo fa con due voci – quelle di Naike Rivelli e Ornella Muti – che, per motivi diversi, hanno sempre rappresentato un’idea di libertà e di autonomia rispetto ai canoni imposti.

    Si ringraziano per il contributo al progetto:
    Naike Rivelli, Francesca Rivelli (Ornella Muti), Cristiano Minellono, Roberto Marzano, Edoardo Pelandi, Pietro Paolo Pelandi (P. Lion), Stefano Alvino, Gianmarco Aimi, Marco Torri, Alessandro Zullo, Paolo Pozzi, Luca Fiocca, Teodora Corona, Camillo Corona, Thony Barrera, Roberta Bregolin, Ivan Cottini, Bianca Berardi, Filippo Adamo (Adamo Motors), Wylliam Fumagalli e Efrem Sagrada.

  • Quando la memoria diventa musica: l’omaggio di Andrea Galderisi, figlio di “Nanu”, per lo scudetto Hellas

    C’è una storia che non smette mai di far battere il cuore dei tifosi. È quella dello scudetto dell’Hellas Verona, conquistato nella stagione 1984-1985: un evento unico nel calcio italiano, perché nessun’altra squadra di una città non capoluogo di regione ha mai vinto la Serie A. Un’impresa irripetibile, scolpita nella memoria collettiva.

    A 40 anni da quella vittoria leggendaria, a riaccendere l’emozione ci pensa Andrea Galderisi, figlio di Giuseppe “Nanu” Galderisi, attaccante simbolo di quella formazione, con una canzone che è insieme omaggio familiare, inno sportivo e atto d’amore per la città: “Verona il tuo nome è leggenda”.

    «Ho scritto pensando a mio padre, certo. Ma anche a tutto quello che mi ha trasmesso parlando di Verona e di quegli anni straordinari. Le sue parole, i suoi racconti, sono diventati la mia voce. È come se quella squadra vivesse ancora, oggi, attraverso ciò che ha lasciato nei cuori di chi c’era – e anche di chi non c’era.»

    Così racconta Andrea, che ha trasformato i ricordi di famiglia in un progetto che tiene insieme affetto e memoria storica, con uno sguardo che va oltre il campo da gioco, parlando contemporaneamente a più generazioni.

    Prodotta e co-scritta da Mitch (Giovanni Mencarelli), DJ di punta di Radio 105 – “Verona il tuo nome è leggenda” nasce “a pugno”, come si dice in gergo: ogni verso è tratto dalla voce di Nanu, dai suoi aneddoti, dal sentimento con cui ha sempre descritto quella stagione memorabile.

    «Quando Andrea mi ha parlato dell’idea, ho avuto subito la pelle d’oca – dichiara Mitch –. Non era solo una canzone, era un pezzo di storia che tornava a vivere. Volevamo che ci fosse tutta l’energia di quegli anni, ma anche l’intimità di un figlio che parla al padre. E Verona meritava un inno così: sincero, sentito, vivo.»

    Il brano – che riaccende lo spirito irripetibile del Verona 1985, quando una squadra data per outsider si prese la vetta del calcio italiano contro ogni pronostico – è stato accolto con entusiasmo dalla città e dalla tifoseria. L’Hellas Verona lo ha condiviso sui propri canali ufficiali, riconoscendone il valore simbolico in un anno carico di significato: quarant’anni dallo scudetto e una salvezza in Serie A arrivata tra mille difficoltà, che ha riacceso l’orgoglio della piazza.

    Profondamente toccato anche Giuseppe Galderisi, che così ha commentato:

    «Andrea mi ha fatto un regalo che non dimenticherò mai. Ho sempre cercato di raccontargli cosa ha rappresentato quella stagione per me, ma sentire quelle parole diventare musica… mi ha commosso. È un filo che lega con amore passato e futuro. Per me, Verona è casa. E oggi sento che lo è anche per lui, attraverso questa canzone.»

    “Verona il tuo nome è leggenda” non è non vuol essere un’operazione nostalgica: è un inno che guarda avanti, che parla di identità e passione, di orgoglio e appartenenza. Tra i tifosi già si rincorre la speranza che questo nuovo canto possa portare fortuna, com’è accaduto in passato con altri inni diventati emblema di radici e coesione, unendo una città attorno alla sua squadra.

    Un ricordo che non sbiadisce. Una città che continua a crederci. Una voce che riaccende la leggenda.

  • Tre ragazzi campani si chiudono in un garage. Ne escono con un EP autoprodotto che racconta cosa significa avere vent’anni oggi. Senza cercare di piacere a tutti i costi

    «Ci siamo fatti una promessa: chiudere la porta e restare con le canzoni». “16m²” sono le dimensioni esatte del garage dove i La Maitresse si sono chiusi per ripartire da zero. Niente comfort, niente aspettative. Solo loro tre, qualche strumento e un’urgenza espressiva da liberare.

    Ci sono debutti che nascono da un contratto, da un talent, da una strategia editoriale. E poi ci sono quelli che nascono dal silenzio. “16m²”, il primo EP dei La Maitresse, è l’esatto opposto di un esordio costruito a tavolino: non nasce da un piano, ma da una frattura.

    Nel 2023, il trio napoletano si ritrova senza un progetto, azzerato da una fine inattesa e senza un piano di riserva. Dopo quattro anni di percorso condiviso, ciò che resta è un punto interrogativo. Niente label, niente pubblicazioni imminenti. Solo una stanza, poi un garage. E il bisogno bruciante di non smettere. Il risultato è un disco che somiglia a chi lo ha scritto: vulnerabile, lucido, disilluso. Ma anche pieno di immagini pop e intuizioni che non si vedono spesso in un debutto.

    C’è chi li definirebbe elettropop, chi canzone d’autore in formato Gen Z. Ma i La Maitresse rifuggono le etichette. E non si vergognano di avere due anime: quella cantabile, accessibile, nazionalpopolare. E quella più laterale, più spigolosa, che vuole uscire dagli schemi.

    «In noi vive un dilemma battistiano – affermano -. Una parte di noi vuole essere nazionalpopolare, l’altra vuole rompere gli schemi. Ma il pop non è compromesso: è colore.»

    Il nome stesso della band – ispirato a una maîtresse incontrata in una situazione grottesca e teatrale – è figlio di un’identità musicale fuori dalle formule. La loro è una scrittura visiva, che parte da riferimenti generazionali precisi (da Vasco a “Dancing Queen”, da Coltrane ai tiramisù da frigorifero) per raccontare con disillusa ironia quel territorio intermedio tra i venti e i trent’anni, dove tutto è in bilico: relazioni, futuro, appartenenza.

    Nel DNA della band c’è anche l’irriverenza e la malinconia della Napoli contemporanea: colta, disincantata, musicale per natura. Una città che non fa da cornice, ma che condiziona il suono, il linguaggio. Non è un dettaglio del contesto: è una variabile costante nel modo in cui scrivono, suonano e pensano.

    Ed è lì, in quella zona fatta più di dubbi che di certezze, che prende forma un nuovo inizio. Ma non arriva all’improvviso: ha la voce di una canzone.

    E quella canzone, è “ADRIANAAA”, la prima a rompere il silenzio. Dopo un lungo periodo di blocco, finalmente qualcosa si muove.

    «Eravamo a pezzi. O smettevamo, o ci chiudevamo in un garage a fare canzoni. Abbiamo scelto il garage. E abbiamo iniziato a cucire le crepe, una strofa alla volta. Ore spese a dare personalità a ogni suono. Per la prima volta, abbiamo curato tutto da soli.»

    È così che nasce “16m²”, un EP autoprodotto in ogni parte creativa – eccetto mix, mastering e batterie finali – che suona artigianale e preciso al contempo, come se l’imperfezione fosse diventata – finalmente – una scelta estetica consapevole, e avesse trovato il suo posto nel suono.

    Ogni brano ha un’identità autonoma, ma insieme costruiscono un percorso coeso, fatto di immagini, contrasti e piccole confessioni. Una stanza dopo l’altra, una canzone alla volta.

    A seguire, tracklist e track by track del disco.

    “16m²” – Tracklist:

    1. Dimmi che hai preso il verme
    2. Missile
    3. Dieta
    4. ADRIANAAA
    5. Bandiera
    6. 0Positivo!
    7. A Porte Chiuse

    “16m²” – Track by Track:

    Dimmi che hai preso il verme”. Un’apertura scomposta e imprevedibile. Il titolo surreale nasconde una narrazione ossessiva, intima, che scorre su un tappeto elettronico che si apre e si richiude. È il lato più obliquo e viscerale del progetto, e anche uno dei più sperimentali.

    Missile”: una hit mancata e proprio per questo riuscita. Una storia di gelosia postmoderna tra trenini mentali e tacchi rossi, su un groove che mescola Abba e ansia sociale. La leggerezza, qui, è solo apparente: c’è sotto un carico emotivo che pesa, ma non schiaccia.

    Dieta” è il pezzo più ironico, ma con un doppio fondo malinconico. Una relazione che passa per frigo, palestra e tentativi falliti di auto-controllo. È un dialogo in forma di sitcom, che riesce a raccontare il quotidiano senza banalizzarlo.

    ADRIANAAA”. Una scena da commedia americana anni Duemila (“autostrada e John Coltrane”), un dialogo stralunato, un synth-pop che guarda agli MGMT e a Battiato. Ironica, precisa, poetica nel suo modo sbilenco.

    Bandiera”: una ballad sintetica e dolente, che condensa l’identità della band. Qui i La Maitresse smettono di giocare e mettono in mostra la loro anima più fragile. Il ritornello resta impresso nella mente, anche dopo un solo ascolto.

    0Positivo!” è una riflessione generazionale vestita da pezzo pop: c’è dentro tutta la stanchezza di chi si sente fuori fuoco, ma anche la forza di chi continua a provarci. Un pezzo che potrebbe finire in una playlist, ma anche in un dancefloor di un club.

    A porte chiuse”, infine, è la chiusa perfetta. Intimo, claustrofobico, scritto in prima persona e spogliato di filtri. È una lo specchio della solitudine di una generazione iperconnessa ma sempre più distante.

    “16m²” è un disco che parla a chi è in transizione. Un disco per chi si sente in bilico, sospeso: tra adolescenza e maturità, tra coraggio e rinuncia, tra identità e maschera. Non pretende di dare risposte, né soluzioni. Ma non rinuncia a cercarle. E lo fa con un linguaggio nuovo, ibrido, credibile. I La Maitresse scelgono l’ambiguità, il dettaglio, l’incompiutezza. E proprio per questo suonano veri.

  • Un feat che unisce generazioni e culture: è uscito “Napoli Tirana di Stresi e Clementino

    Due voci, due città, due storie che si incrociano sullo stesso beat. “Napoli Tirana” è il nuovo singolo di Stresi, leggenda vivente del rap albanese, in collaborazione con Clementino, tra i più rispettati liricisti della scena italiana. Il brano fa parte di “Archimed (Episode 2)”, il nuovo album di Stresi, prodotto dall’etichetta romana Techpro Records.

    “Napoli Tirana” è il punto di contatto tra due città che condividono una lunga storia di scambi culturali, migrazioni e affinità artistiche, l’incontro perfetto tra due mondi che si riconoscono e si rispettano. Il legame tra Napoli e Albania non è solo musicale: è storico, umano, più vivo che mai. “Napoli Tirana” lo celebra con le parole, con barre che danno voce al suono crudo del cemento. La terra di Partenope e quella delle Aquile si ritrovano al centro di una nuova mappa culturale, fatta di musica che supera barriere, confini e parla a più generazioni.

    «Questo brano rappresenta tutto quello in cui credo: rispetto tra le scene, fratellanza vera, e musica che racconta senza filtri, senza patine – spiega Stresi -. Con Clementino è stata una sintonia immediata. Due stili diversi, ma la stessa fame, la stessa strada. Questo è solo l’inizio.»

    Stresi, con alle spalle oltre vent’anni di carriera e milioni di ascolti, è considerato uno dei pesi massimi della scena non solo in Albania, ma in tutto il mondo albanofono. Quando Clementino ha ascoltato il brano per la prima volta, non ha avuto dubbi: “Entro in studio subito”. L’intesa è stata istantanea, naturale. Il risultato? Una traccia che miscela dialetti e metriche, punchlines e vissuto, creando un banger iconico che unisce le piazze di Napoli e Tirana, due mondi paralleli, attraversati dalla stessa urgenza espressiva. Un pezzo che sa di rispetto, lealtà e asfalto, sottolineando la collaborazione tra due culture che si specchiano, si riconoscono e si arricchiscono a vicenda.

    “Archimed (Episode 2)” – L’album

    Con “Archimed (Episode 2)”, Stresi firma un progetto ambizioso e multiculturale che mette in dialogo Mediterraneo, Balcani e America Latina. Un mosaico di linguaggi, estetiche e identità differenti, che conferma la sua volontà di abbattere le barriere geografiche e sancisce l’ambizione di un artista in grado di rinnovarsi senza mai perdere il legame con le proprie radici.

    Tra le otto collaborazioni di rilievo, oltre a quella con Clementino, spicca “Ma Belle” con Aka 7even, artista tra i più amati del panorama pop-urban italiano. Una ballad intrisa di dolcezza e disincanto, cantata in italiano e francese, in un sottile equilibrio di malinconia e identità stilistica. Aka 7even e Stresi trovano una connessione insolita ma efficace, dando vita a un brano inaspettato, che aggiunge nuove sfumature, nuovi colori alla dimensione narrativa del disco.

    Noizy, pioniere della scena rap albanese, apre il concept con “Mama”. Un ingresso frontale, ruvido, che ne chiarisce subito tono e direzione, parlando di verità, difficoltà e riscatto. In un mondo in cui i “veri” sono rari e i “falsi” ovunque, “Mama” mette al centro la lealtà, le difficoltà del quotidiano e la consapevolezza di chi ha imparato a cavarsela da solo perché sa da dove viene.

    Deny K, tra i nomi più affermati del rap colombiano, porta la sua estetica urban-latin in “Aventurera”, intrecciando spagnolo e albanese in un flusso immediato e magnetico. Il risultato è un mix di riferimenti alla Medellín criminale e a un’identità che si muove tra zone grigie, velocità e caos. Stresi si presenta come bandito, mentre Deny K aggiunge un tocco latino e melodico che rende il pezzo visivo e ballabile. “Aventurera” è una corsa tra strade, soldi e libertà precaria: una delle tracce più dinamiche e internazionali dell’album.

    Bay T, celebre artista kosovo-albanese di Mitrovica, si unisce a Stresi in “Kriminal”, un pezzo teso e incalzante che fa da specchio alle contraddizioni delle strade e della società. Il titolo è chiaro, il flow ancora di più. È un brano seduttivo, costruito su immagini sensuali e atmosfere cittadine. Stresi racconta un amore passionale, nato in Albania ma con un respiro internazionale, in un gioco suadente tra inglese e albanese. Bay T firma un ritornello magnetico che conferma la sua attitudine da hitmaker. Una traccia fluida, imprevedibile, in cui il crimine è solo quello del cuore.

    In “Marihuana”, Lumi B – storico membro del collettivo KAOS – e Flor Bana – artista albanese noto per la sua penna viscerale – affiancano Stresi in un banger a tratti visionario, che alterna crudo realismo e immagini rarefatte. L’attitudine street è chiara e dichiarata fin dal primo verso: «Nuk jom VIP i estradës, po VIP i mahallës» («Non sono un VIP dello showbiz, ma della mia strada»). Lumi B e Flor Bana accompagnano Stresi in una traccia che parla di rispetto vero, quello guadagnato fuori dai riflettori. “Marihuana” è un titolo provocatorio, ma il senso è evidente: ciò che conta è la credibilità nei quartieri, non quella patinata.

    Internacional” riflette l’anima transnazionale del progetto. Con Nido, producer e musicista albanese, e di nuovo Flor Bana, Stresi firma una traccia che attraversa lingue e ritmi, fondendo influenze latine, mediterranee e urban in un’architettura sonora che abbatte ogni confine. Una canzone che racconta il viaggio di un’identità in movimento, capace di abbattere barriere culturali con il linguaggio universale della musica.

    2Ton, con oltre un miliardo di visualizzazioni su YouTube, porta il suo carisma in “Kallabllak”, termine che in albanese indica una “folla”, “affollato”. E il brano è esattamente questo: un club banger in piena regola, pensato per incendiare il dancefloor.

    L’album si chiude con quattro tracce completamente firmate da Stresi: “Ajo” (in italiano “Lei”), un brano intimo, che si rivolge a una figura femminile amata e lontana, in cui melanconia e rispetto sono in perfetto equilibrio; “Autobiografia”, che, come suggerisce il titolo, è una lettera a cuore aperto, una confessione. Stresi si racconta, tra vittorie e cicatrici; “Sa T’kam Dasht” (in italiano “Quanto ti ho amato”), una riflessione sul passato, su un amore ormai finito. Un testo che scava nella nostalgia, senza indulgere nella retorica; e “Sta Fali” (in italiano “Ti perdono”), un brano secco e consapevole, dove il perdono non è una resa, ma la scelta lucida di chi decide di chiudere i conti senza rinunciare a se stesso. Un poker finale che restituisce la voce dell’artista in forma pura, senza filtri né featuring. Qui il racconto si fa soffuso, riflessivo, diretto. È la parte più personale del disco, dove Stresi si prende tutto il tempo e lo spazio per essere semplicemente se stesso.

    “Archimed (Episode 2)” parla a più scene, unendo realtà apparentemente lontane, ma attraversate dallo stesso bisogno di espressione. È un album intriso di identità, appartenenza, dialogo. Un lavoro che guarda all’Italia con consapevolezza e volontà di radicarsi.

    L’Albania si conferma così un mercato musicale in forte espansione, e Stresi uno dei suoi protagonisti più credibili anche fuori dai confini nazionali. Techpro Records, label capitolina che ha cresciuto tante generazioni di artisti occupandosi con cura dei loro progetti e della loro immagine, si posiziona come ponte tra Roma e Tirana, tra Sud e Est, tra strada e cultura. Al centro di tutto, c’è la voce di Stresi: diretta, vera, internazionale.

    Stresi è il baricentro di un disco che oscilla tra confessione e denuncia, romanticismo e concretezza. Un artista capace di esporsi, raccontarsi, stare nella verità delle sue parole. Un artista che sa dove stare, cosa dire e come dirlo. Senza filtri. Senza maschere. Con consapevolezza. E una voce che non chiede spazio: se lo prende.

    “Archimed (Episode 2)” – Tracklist:

    1. Mama (feat. Noizy)
    2. Aventurera (feat. Deny K)
    3. Kriminal (feat. Bay T)
    4. Marihuana (feat. Lumi B & Flor Bana)
    5. Internacional (feat. Nido & Flor Bana)
    6. Ma Belle (feat. Aka 7even)
    7. Napoli Tirana (feat. Clementino)
    8. Kallabllak (feat. 2Ton)
    9. Ajo
    10. Autobiografia
    11. Sa T’kam Dasht
    12. Sta Fali

  • Lara Serrano e la parola che salva: “Parole Sciolte”, il suo primo album

    C’è una generazione che per ritrovare se stessa ha iniziato a cantare a bassa voce. Lara Serrano lo fa da anni, e oggi quella voce si raccoglie in “Parole Sciolte”, l’album d’esordio della cantautrice genovese classe 1998. Dopo una serie di brani pubblicati, tra cui “Follia” e “Tra il dejavu e l’amnesia”, Lara torna con un progetto che conferma la direzione della sua scrittura consapevole, e la capacità di dare un senso a ciò che spesso resta sullo sfondo senza indulgere nella retorica, raccontando ciò che solitamente si tace, con un linguaggio che non cerca protezione né alibi.

    Concepito come un lungo dialogo – a tratti clinico, a tratti lirico – tra sé e la propria memoria, “Parole Sciolte” è insieme cronaca e testimonianza sincera di chi ha imparato a sopravvivere ai giorni storti scrivendo tutto quello che non riusciva a dire. Tra versi che sembrano appunti terapeutici e immagini che somigliano a fotogrammi sfocati ma essenziali, necessari per capire dove si è passati, l’album si snoda tra dolorose evidenze e piccole rivoluzioni quotidiane, tenendo sempre al centro la parola come atto liberatorio.

    «Ho iniziato a scrivere perché non riuscivo a parlarmi. O almeno, non in modo diretto – spiega l’artista -. Questo disco nasce dalla necessità di restare viva anche quando tutto il resto cadeva. È il mio modo per mettere in fila i “Fra(m)”menti, citando un brano del disco -, per cercare connessioni anche dove sembrano impossibili.»

    Otto tracce, nessun riempitivo. “Parole Sciolte” è un disco compatto, coerente, curato fin nei minimi dettagli. Un progetto che si ascolta come un flusso di coscienza, disordinato solo in apparenza, perché ogni strofa rappresenta una svolta narrativa.

    Nel brano d’apertura, “Intro”, Lara si affida a una domanda che incornicia e attraversa tutto il progetto: «Mi posso fidare della versione delle tre delle persone o no?». Una frase che resta addosso, come uno di quei pensieri che tornano nei momenti in cui il silenzio fa più rumore. Ed è proprio lì che prende forma l’album: in quel punto sospeso tra chi eravamo e chi stiamo ancora cercando di diventare. È uno sguardo consapevole, forse stanco, a tratti inquieto, ma sempre vivo. È lo sguardo di chi scrive per non perdersi. Non è arrendevole. Non è amaro. Non è cinico. È uno sguardo che prova a fare ordine, senza fingere che sia tutto a posto.

    Nella title track “Parole Sciolte”, quello stesso sguardo si traduce in immagini che non hanno bisogno di spiegazioni: «Siamo il quadro più bello ma senza cornice, quasi quasi mollo tutto e poi divento felice». È un modo per dichiarare che, a volte, mollare non significa arrendersi, ma scegliersi.

    In “Iride”, l’amore viene raccontato come ciò che resta «quando i sogni d’odio sono in bianco e nero», mentre “Nuvole e Paranoia”, che è forse la traccia più cinematografica del concept, il linguaggio si muove tra citazioni figurative e registri diversi, accostando Hayez e Goya, che convivono nella stessa strofa, con una naturalezza spiazzante. «Sto come a un concerto ma in testa ho un teatro, metto insieme respiri per poi rompere il fiato». Un brano che alterna scenari familiari, ritmi ordinari e richiami culturali, tenendo insieme caos ed equilibrio, gesto e pensiero, con chirurgica precisione.

    Non manca una riflessione sui legami che aiutano a rimettere insieme i pezzi, anche solo per un momento. In “Palchi più Alti”, Lara dedica il brano a chi, pur sentendosi piccolo tra giganti, riesce a ritrovarsi in un applauso. È una dichiarazione d’affetto senza retorica, fatta di immagini leggere e immediate – «far castelli di lenzuola», «portare l’estate» – che raccontano la bellezza di chi sa essere rifugio. In “Fra(m)menti”, invece, la scrittura si fa più intima e scomposta. Il titolo stesso suggerisce una doppia lettura – “frammenti” e “fra menti” – che apre a un discorso sull’identità e sul pensiero che non si allinea, che inciampa, si perde, si confonde. Un brano che fa percepire il senso di smarrimento, identitario e mentale, che percorre il testo. Lara disegna un “quadro clinico” con le parole, raccontando il disallineamento tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, tra domande senza risposte e pensieri che sfuggono. «Mi sono persa fra menti, inciampo nei fili logici»: un flusso che intreccia autoironia, dolore, e la consapevolezza di non avere più un vero colloquio con se stessa. È il brano più vertiginoso del disco, quello in cui la confusione diventa il linguaggio principale e l’identità si scompone senza perdere la propria urgenza.

    L’album si chiude con “*Outro”, una lettera senza indirizzo che fa da testamento, resoconto, bilancio lucido, necessario, dove Lara canta: «E chiedo scusa a me stessa se ho una laurea in giurisprudenza, ma è solo dalla musica che aspetto sentenza». Una chiusura asciutta e diretta, che riprende lo stile viscerale che accompagna tutto il progetto.

    «Non scrivo per insegnare niente a nessuno. Scrivo perché è l’unico modo che ho per restare ferma mentre tutto intorno si muove troppo in fretta – conclude Lara -. Questo disco è fatto di cose che non ho mai saputo dire ad alta voce, ma che non potevo più tenere dentro. E anche se non so dove mi porterà, so che doveva uscire esattamente così.»

    “Parole Sciolte” è un album che non chiede approvazione, ma attenzione. Non cerca risposte facili, né soluzioni preconfezionate. È un lavoro che sceglie la strada più difficile: quella dell’ascolto impegnato. Tra sogni storti, immagini oblique e domande lasciate a metà, Lara Serrano disegna un percorso narrativo compatto, inevitabile, e fortemente coerente con il tempo in cui è nato.

    Non per dimostrare qualcosa, ma per dirsi: “questa parte di me esiste, e ha avuto il coraggio di farsi sentire.”

    “Parole Sciolte” – Tracklist:

    1. Intro
    2. Parole Sciolte
    3. Iride
    4. Nuvole e Paranoia
    5. Tra il Dejavu e l’Amnesia
    6. Palchi più Alti
    7. Fra(m)menti
    8. Outro