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  • «Ne farò a meno»: la promessa più difficile da mantenere nelle relazioni tossiche. LUVI e “Veleno”

    Il vero ricatto del presente è la conoscenza. Abbiamo la grammatica esatta per definire ogni male – relazione tossica, dipendenza affettiva, gaslighting, ghosting – ma se sapere non salva, si trasforma in una condizione di condanna a rimanere. L’individuo dispone della diagnosi perfetta, ma vi è un’ostinata permanenza nel danno, una zona franca dove la ragione è vigile, allertata, ma la volontà si nega all’atto finale.

    In questa paralisi del sé, dove il vocabolario psicologico non basta a sciogliere il nodo, nasce “Veleno“, il nuovo brano di LUVI per Troppo Records. L’artista milanese, classe 2003, forte di una preparazione tecnica che le è valsa il secondo posto al Premio Mia Martini e la semifinale a Una Voce per San Marino, compie un’analisi sul fallimento dell’azione, sulla complicità con il danno che ci rende simultaneamente consapevoli e immobili dentro ciò che ci logora.

    In “Veleno”, il legame descritto è individuato come dannoso, ma il richiamo a esso resta irresistibile. Un ossimoro che si allontana dal lamento per tradursi in una moderna disamina musicale su un fenomeno sempre più discusso e vissuto dalla generazione Z, quello dei confini liquidi e delle decisioni affettive auto-sabotanti.

    I dati sul benessere giovanile, infatti, disegnano uno scenario di forte contraddizione. Sebbene un giovane su due abbia avuto esperienze affettive oppressive (Indagine del Consiglio Nazionale Giovani e dell’Agenzia Nazionale per i Giovani, 2024), la vera distonia è nel riconoscimento. La generazione più informata sulle dinamiche relazionali dichiara che molti dei rapporti attuali generano ansia, ma solo il 15% degli intervistati lo ammette nel proprio legame. Si è capaci di definire il confine altrui, ma si è disarmati di fronte alla propria esperienza.

    Non si tratta di un’emergenza marginale, ma di un fenomeno strutturale che attraversa le nuove generazioni. Una logica del trattenersi che si ripete in silenzio, molto prima che diventi allarme. Perché le relazioni tossiche non sono solo quelle con violenza evidente: sono anche quelle in cui si rimane per abitudine, per paura della solitudine, per l’illusione che l’altro possa cambiare. Quelle in cui si annega consapevolmente, in un veleno che si continua a bere.

    «Ho scritto “Veleno” perché sentivo il bisogno di dare un nome a quella sensazione che ti pervade quando sai che una persona ti sta facendo del male, ma non riesci a staccarti – afferma LUVI -. Non è una questione di debolezza, è dipendenza mascherata da amore. Scrivere questo brano è stato un modo per guardare quella parte di me in faccia e capire che conoscere rischi e possibili conseguenze non basta. Serve il coraggio di agire. E per trovarlo, a volte devi toccare il fondo.»

    La voce dell’artista resta calma, quasi rassegnata, mentre descrive un rapporto cresciuto insieme a lei ma ormai diventato una gabbia. Non traspare alcun sentore di rabbia o vendetta; solo la constatazione di un male che «non passa», che si è infiltrato nel sistema, come un virus identificato ma ancora attivo.

    Non è la storia di una vittima, ma di chi, pur riconoscendo la tossicità come un veleno, continua a eleggerla a sostanza vitale.

    Il brano porta con sé il rumore sordo della disillusione, di un legame che corrode l’identità pur essendone parte integrante. Per LUVI, il veleno non è solo l’altro, ma l’alterego che accetta e desidera quel dolore:

    «Ma sei veleno in cui ci annego. Tu il mio alter ego, ne farò a meno»

    La figura dell’alter ego è l’ammissione di una personalità interamente plasmata dal rapporto, la proiezione di chi si è diventati dentro quella relazione. Una versione di sé che non si riconosce più, ma in cui si resta intrappolati. E quel «ne farò a meno» è un proposito, una fede ancora da conquistare. Il tentativo di convincersi che sia possibile uscirne.

    Ma è nel cambio di lingua, dall’italiano all’inglese, che troviamo un netto passaggio dalla rassegnazione all’affermazione, dalla dipendenza all’autodeterminazione:

    «And I try to get over you, now is came the bad bitch who was made by you»
    («E provo a lasciarti andare, ora è arrivata la bad bitch che sei stato tu a generare»)

    Questa frase è un affrancamento dialettico, la messa a fuoco di un dolore che non annienta ma modella. La nuova, più forte versione della protagonista – la “bad bitch” – non è nata nonostante la relazione, ma è stata forgiata proprio dall’esperienza nociva. La sofferenza, anziché distruggere, ha involontariamente innescato il distacco e la riappropriazione di sé. La “cattiva ragazza” non è vendicativa, ma resiliente, tenace, creata dalle ceneri della relazione. Per l’artista, questa è la vera forma di giustizia personale: non la vendetta, ma riprendersi e ricominciare da sé stessi.

    Perché nonostante l’affanno e il tormento, l’uscita da questo circolo vizioso è la genesi di una nuova forza.

    «Il “veleno” non è solo la storia o l’altra persona, ma la parte di noi che accetta il male. Scrivere questa canzone è stato l’inizio di una chiarezza che non pensavo di poter raggiungere. Il processo è stato doloroso, ma mi ha forgiata.»

    LUVI ha scelto di camminare su quel territorio instabile dove la fine è già scritta ma il corpo ancora non riesce a voltare pagina. Il bilinguismo – l’italiano per i ricordi, l’inglese per la presa di coscienza –serve a segnare il passaggio da un prima a un dopo, dalla rassegnazione alla riconquista di sé.

    Con “Veleno”, la cantautrice milanese ci offre una chiave di lettura per le contraddizioni etiche e affettive che definiscono l’età adulta in costruzione, dove spesso la coscienza è già chiara, ma l’azione di salvezza è in ritardo. Perché sapere serve, ma non basta. A volte, bisogna smettere di aspettare che il veleno faccia effetto, e decidere di guarire.

  • La divisa che non protegge: Err Naif racconta il lato nascosto del dovere

    «Se ci fosse tuo figlio lì in mezzo non premeresti il bottone»
    «Pronto a morire per i miei ideali ma non per lo stato che non mi dà un ca**o»

    La prima immagine è un bottone. E un dito che, in un mondo ideale, non dovrebbe premerlo mai. Visto da lontano è strategia militare. Da vicino, è il trauma di chi torna – quando torna – senza più un nome da riconoscere allo specchio. Un’identità riscritta dal conflitto, spostata altrove, pur abitando lo stesso corpo.

    La guerra, non è quella dei film, quella raccontata nei trailer. Non ci sono cori sulle rovine, rallenty, eserciti schierati davanti a una macchina da presa o bandiere che sventolano al momento giusto. È realtà entrata nel quotidiano, dinamica e meccanica di potere; una catena di comando che scende verticale e atterra sul gradino più debole: il corpo di chi non firma, non decide, non ha voce in capitolo. Un contratto firmato da altri, eseguito da chi non ha letto le clausole.

    Tra chi preme e chi scompare, tra il dito che decide e il corpo che paga, si innesta “Soldato” di Err Naif (Daylite Records/prod. Purlple D btz), un brano che spoglia il conflitto da ogni mitologia, levandogli la divisa elogiativa e riportandolo al suo bilancio reale: quello in cui non ci sono eroi, ma pedine, vite trattate come variabili, coscienze dismesse al rientro e rientri che non somigliano mai a un ritorno vero.

    L’artista sovverte la retorica bellica attraverso il prisma della coscienza ferita e della responsabilità generazionale, discostandosi dal presentare una canzone sulla guerra per proporre, invece, un’autopsia lirica del conflitto moderno, visto dagli occhi di chi non ha voce nei summit, di chi conosce l’ordine gerarchico solo quando diventa comando cieco e impara la parola “Stato” solo quando gli chiede qualcosa in cambio della pelle. Non si tratta di un racconto di schieramenti, ma di un inventario di conseguenze e di prezzo: chi lo paga, chi lo riscuote, chi incassa medaglie per conti saldati da altri. È l’anatomia di una generazione chiamata a farsi carico di un fardello che non le appartiene, che deve fare i conti con scelte che non ha preso, e che ancora troppo spesso incontra l’età adulta con un fucile tra le mani.

    C’è l’asimmetria tra chi firma i conflitti e chi li combatte, tra chi accumula denaro e chi si dissolve, in quel «meno dell’uno per cento» dove «il popolo resta impotente». Un j’accuse eretto sulle macerie, gli arti, i figli degli altri, la coscienza che non torna a casa insieme al corpo.

    Ucraina e Medio Oriente sono descritte al di là dei contesti geopolitici: assumono il suono di un ronzio costante nelle orecchie di chi cresce sapendo che le decisioni cadono dall’alto, sempre altrove. Un’inquadratura fissa negli occhi di chi non siede al tavolo dove si decide la posta, di chi arriva quando il tavolo è già saltato e opta per l’estraneità forzata a un gioco dove a rimetterci non è mai il banco – «Israele o Palestina, non so ma scommetto» -.

    Il “Soldato” di Err Naif è già un reduce mentre combatte, perché sa che l’unica cosa che non tornerà in patria non è il corpo, ma l’integrità psichica – «Se ritorno vivo non ho più una coscienza». Qui, il rapper trascende il racconto di cronaca e tocca il tema della dissociazione post-bellica, perché la guerra non termina mai al cessate il fuoco, ma continua nelle notti senza sonno, nelle allucinazioni acustiche, nel rumore che resta addosso, tra i pensieri e sottopelle, quando il mondo prova a dichiararsi “di nuovo normale”. Un immaginario che non ha appigli poetici, ma la sintassi della polvere, della freddezza strategica, della vita che vale meno di un bottone premuto a distanza. È il tipo di rap che rifiuta la distanza protettiva e trova la sua ragione d’essere nell’esporre la faglia tra l’ideale e l’ordigno, in un bollettino scritto da chi non compare in quelli ufficiali.

    «Quando ho scritto “Soldato” – dichiara l’artista – non pensavo alla geopolitica, ma al suono degli spari che resta nella testa anche a conflitto finito. Volevo scrivere un pezzo in cui la medaglia pesasse meno di un’ora di sonno tranquillo. È la storia di tutti quelli che non possono permettersi di pensare in termini di strategia, ma solo di sopravvivenza.»

    “Soldato” è un testo scolpito nel senso e nei controsensi della nostra attualità, un brano che attraverso la densità ritmica e lessicale del rap, impone una riflessione ineludibile sulla responsabilità sociale e sul peso dell’obbedienza cieca. Perché se l’ideale giustifica la guerra solo a distanza, finché a combatterla sono i figli degli altri, davanti al volto dei propri nessuna autorità morale può reggere.

  • “Grazie per il trauma” di Matilde è un EP che dimostra come il dolore possa essere trasformato in linguaggio

    «Ciao, sono Matilde. E questo è il mio modo elegante per dire “Mi hai distrutta”.
    Sì, ma almeno ci ho fatto un EP
    ».

    Con queste parole, tratte da “Fiori (0)”, Matilde, all’anagrafe Matilde Montanari, vincitrice de I Visionatici 2025, apre “Grazie per il trauma (live session EP)”, il suo primo progetto discografico composto da cinque brani inediti registrati interamente dal vivo, senza autotune, senza correzioni, in presa diretta allo Studio 52 di Forlì.

    Un lavoro nato dal basso, costruito, come dice lei, “senza portafoglio”, giorno dopo giorno, con ostinazione, creatività e tanta verità.

    La scena è una stanza di legno e cavi, il microfono a pochi centimetri dal respiro, i musicisti disposti a semicerchio, le luci basse dello studio e la volontà di registrare senza editing. Una scelta che colloca il progetto dentro la nuova ondata di produzioni “live” che stanno tornando nei radar di critica e pubblico come risposta alla saturazione di suoni plastificati.

    L’EP prende forma così, con una serie di sessioni consecutive in cui Matilde incide le cinque tracce come fossero pagine di un diario lasciato aperto sul tavolo, e la sua voce — pulita, centrata, con una maturità che sorprende per età e controllo — trova negli arrangiamenti un abito che la accompagna, che la avvolge senza mai limitarla. La band segue le sue linee lasciando che il timbro resti in primo piano e mostri quanto sappia sostenere il peso di una registrazione in presa diretta.

    Il risultato è un EP che entra a pieno titolo in uno dei trend più rilevanti del 2025: il ritorno del “live reale” come contrappunto ai linguaggi perfetti e omologati, un territorio in cui la resa vocale torna a essere materiale creativo e non un effetto di post-produzione.

    L’impianto dell’EP affonda nella relazione tra trauma, elaborazione e identità musicale: un tema che attraversa la cultura contemporanea – dai forum di psicologia pop alle playlist confessionali – e che qui assume una dimensione narrativa concreta.

    Nei cinque brani, che si muovono con naturalezza tra jazz, pop, funk, soul, melodia italiana e scrittura diaristica, emergono le spaccature, gli scarti, le domande a cui si torna persino quando si tenta di dimenticarle.

    Il brano “Ogni goccia” racconta l’amore che prosciuga, il tempo impiegato a cercare un senso, l’alternanza costante tra desiderio e rinuncia. Un pezzo che oscilla tra il pentimento, l’attesa e quel freddo improvviso che resta addosso e sottopelle quando ci si accorge di aver dato tutto a chi non sapeva starci accanto.

    Come fanno i gatti” è il capitolo della dipendenza affettiva, quello sull’attaccamento, dove la tenerezza convive con una distanza che non si riesce più a colmare. Le promesse, i ricordi, le abitudini condivise diventano una gabbia da cui non si esce facilmente, per poi arrivare all’ammissione più onesta del testo: si resta legati anche quando l’amore tira in direzioni opposte.

    Disordin3” lavora sul tema della forma da ritrovare, del posto da meritarsi; mentre “Fiori (0)” e “Post-it” aprono e chiudono un ciclo interiore che Matilde interpreta con una consapevolezza rara per una ventenne.

    La scelta della live session, quasi ascetica nella sua essenzialità, rafforza la caratura del progetto e lo colloca in quella corrente di produzioni che stanno ridefinendo il valore della presa diretta nell’attuale panorama discografico italiano. Una decisione spinta dall’urgenza di restituire al suono la sua dimensione naturale, priva di stratificazioni digitali.

    «Ho scelto di fare un EP “vivo” perché credo che oggi, in un mondo pieno di filtri e perfezione artificiale, ci sia un bisogno enorme di autenticità – dichiara Matilde -. Desideravo che si sentissero i respiri, le imperfezioni, la pancia. Scrivere mi ha ridato aria quando sentivo di soffocare: ogni canzone è arrivata come un frammento di guarigione. Ho costruito questo progetto “senza portafoglio”, ma con tutto il coraggio che avevo: ho barattato foto in cambio di ospitate ai festival, ho suonato per le strade per raccogliere fondi per il release party, ho trovato sul mio cammino persone vere che hanno creduto in me anche quando io dubitavo. E ci tengo a ringraziarle tutte. In particolare, i meravigliosi musicisti che hanno suonato nel disco (Mattia Zoli alla batteria, Vito Bassi al basso, Andrea Bonetti alle tastiere e Mattia Mennella alla chitarra). E poi Luca Medri e Cosascuola Music Academy, casa dei miei primi passi, Giordano Sangiorgi, direttore del MEI, che ha sempre dato spazio alle nuove voci, e la mia vocal coach Paola Folli, che con attenzione e fiducia mi ha portata verso la mia voce vera. “Grazie per il trauma” è il mio “eccomi”, il mio primo passo nella musica che desidero fare davvero: viva, sincera, senza trucco. Mi rappresenta nelle mie crepe e nella mia luce.»

    “Grazie per il trauma” ci ricorda che quello che fa soffrire può anche salvare. Che il dolore non va cancellato, ma attraversato. E che si può ancora fare arte vera, quella che parla con onestà, anche senza soldi, se hai cuore, persone buone accanto e una necessità comunicativa che chiede spazio e lo trova in forma canzone.

    “Grazie per il trauma” – Tracklist:

    1. Fiori (zero)
    2. Come fanno i gatti
    3. Ogni goccia
    4. Disordin3
    5. Post-it

  • La musica come specchio: cosa resta di noi quando decidiamo di non saturare più lo spazio interiore

    «Essere trasparenti non vuol dire essere vuoti. É avere il coraggio di farsi vedere per ciò che si è davvero. Di non nascondere le crepe, le paure, i desideri. La trasparenza non è debolezza, è verità. (…..) È togliere il filtro, è mettersi davanti uno specchio. Uno specchio, il mio specchio, nel quale potete riconoscervi anche voi. Ti mostrerà com’è l’anima, quando è in pace o quando non lo è. Ma la cosa importante è non nascondersi mai».

    Sono le parole di “Intro”, brano che apre “Trasparente” (ADA Music Italy/Warner Music Italy), il nuovo EP di Sara J Jones. Un progetto che entra nel discorso contemporaneo su come ci raccontiamo, cosa lasciamo vedere e cosa resta in quegli angoli bui che proteggiamo da sguardi indiscreti. Cinque tracce che usano la scrittura, l’immagine e il suono per definire un’identità chiara e leggibile, fatta di riflessi, contraddizioni e zone di sé finora rimaste in ombra.

    Il modo più onesto per mostrarsi senza aggiunte superflue, come se l’artista avesse deciso di posare lo specchio davanti a sé e, allo stesso tempo, offrirlo a chi ascolta. Un invito a non schermarsi, a “togliere il filtro” e guardarsi senza giudizio, con tutte le proprie fragilità.

    Sentirsi trasparenti, oggi, non coincide obbligatoriamente con il bisogno di mostrarsi senza essere notati. È una condizione più sottile, quasi laterale: la sensazione di attraversare esperienze, relazioni e contesti senza lasciare un’immagine nitida di sé. Una presenza che non sparisce, ma che scivola ai margini quando la percezione che abbiamo di noi stessi non riesce a trovare un punto fermo. L’EP nasce anche da qui: dal tentativo di dare una forma a quello che spesso, volutamente, confiniamo ai bordi della nostra attenzione, riportando densità alle parti che tendiamo a silenziare. In questo senso il disco non tratta la fragilità come un elemento da esibire o proteggere, ma come qualcosa da capire, riconoscere e usare per definirsi meglio nei propri spazi quotidiani.

    “Trasparente” è un EP concettuale, che attraversa l’amore, la malinconia, le contraddizioni, il sarcasmo e l’estetica dell’imperfezione come chiave per riconoscersi. Un progetto con cui Sara J Jones decide di mettere ordine nel proprio immaginario, raccogliendo i capitoli che hanno dato vita ad una nuova versione di sé. Più matura. Più consapevole. Più serena.

    Una serenità ricercata prima e consolidata poi tra verità scomode e omissioni necessarie, che trova la sua iconografia nella copertina del disco: Sara è seduta a terra, di spalle, mentre regge uno specchio piccolo, che riflette solo il volto. Per lei lo specchio non un oggetto scenico, ma un punto di osservazione: una porzione di sé che decide di mostrare e, nello stesso momento, di guardare. La sua immagine di spalle, che non offre una visione frontale, comunica che la verità non è mai immediata. Perché il punto non è mostrarsi, ma scegliere come farlo.

    Nei testi, questo approccio appare con maggiore chiarezza: dalle nuvole “stile Magritte” che cambiano forma a seconda dello sguardo, ai percorsi non lineari di “Wabi Sabi”, fino ai tagli netti e sarcastici di “Solo a guardarti mi annoio”. La trasparenza si spoglia del candore per diventare rivelazione, anche quando significa soffrire.

    Tra elettronica morbida, r’n’b, pop contemporaneo e una scrittura che sin dal primo singolo le è valsa il riconoscimento della stampa come una delle giovani penne più interessanti della nuova scena indipendente, Sara J Jones opta per cornici sonore minimal, nitide, che regalano il primo piano alle parole e a un sottotesto che si priva di ogni eccesso, di ogni abbellimento, di ogni copertura.

    “Trasparente” è un disco che respira, che non ha paura del vuoto tra un verso e l’altro. La produzione, realizzata da Sam Lover e YngTocx, lavora sull’ambiente, sui dettagli che trovano la loro collocazione naturale quando si decide di non saturare. Una scelta che conduce la cantautrice milanese verso una direzione più matura e definita rispetto ai lavori precedenti.

    «”Trasparente” – dichiara l’artista – è il mio riflesso. Dentro c’è tutto ciò che mostro e tutto ciò che proteggo. Ho scelto di lasciare spazio alle mie contraddizioni, alla mia ombra e alla mia luce: ogni brano è un frammento, un pezzo di me che non avevo mai raccontato in questo modo. È il progetto che segna l’inizio di una solidità nuova: un lavoro vero di squadra, una serenità diversa, una ricerca musicale che finalmente sento mia. Racconta chi sono, come spero possa parlare anche a chi cerca di capirsi davvero.»

    Con “Trasparente” Sara J Jones mette un punto e riparte da qui: da un lavoro che definisce una direzione precisa e che apre un nuovo capitolo del suo percorso. Le cinque tracce dell’EP ne rappresentano la struttura, ognuna con un ruolo diverso all’interno di questo equilibrio.

    A seguire, tracklist e track by track del disco.

    “Trasparente” – Tracklist:

    1. Intro
    2. Nuvole
    3. Solo a guardarti mi annoio
    4. Sfumature blu
    5. Wabi Sabi

    “Trasparente” – Track by Track:

    Intro. L’apertura, il rifiuto netto che l’idea di trasparenza coincida con l’esposizione ingenua. Un atto deliberato, un modo per dire “mi vedo e vi chiedo di guardarvi”. Le lacrime, lo specchio, la nudità dell’anima diventano immagini che non chiedono compassione, ma comprensione.

    Nuvole. Ciò che percepiamo cambia forma a seconda della distanza. «Trasparente, sai, stile Magritte», canta Sara, in un pezzo che alterna leggerezza e senso di smarrimento: disegni che si dissolvono, déjà-vu, vinili d’infanzia, la voce dell’altro che diventa “tormento nocivo”. La trasparenza, qui, è quello che rimane quando il ricordo non ha più contorni.

    Solo a guardarti mi annoio. Il pezzo più affilato dell’EP. Scrittura diretta, sarcastica, priva di metafore, per delineare una relazione tossica che non viene raccontata ma interrotta. È il brano che mostra l’indipendenza del progetto: “Io che sono un uragano” contro chi resta immobile sul divano. Una scelta musicale più urban, più immediata, pensata per arrivare anche a un pubblico non strettamente pop.

    Sfumature Blu. Il colore dell’inverno del cuore. Un pezzo che attraversa Nutini, le new shoes per distrarsi, le albe che riempiono gli occhi e il mare che simboleggia una pausa. Racconta una distanza dolorosa, quella tra ciò che rimane e ciò che non tornerà più. Le “sfumature” del titolo non sono cromie, ma possibilità che sfumano. E con loro, una parte di noi.

    Wabi Sabi. L’imperfezione come scelta estetica. Hokusai, il kintsugi, le cicatrici da riempire d’oro, l’onda che non smette mai di alzarsi. È il brano più concettuale del disco, quello che trasforma un riferimento culturale in identità: scegliere per sé, non coprire ciò che fa parte del proprio percorso, trovare bellezza nell’irregolare. Una chiusura perfetta per il fil rouge dell’EP.

  • Le tastiere di Samuele Bernardi e un equilibrio ritrovato: il nuovo lavoro di Josten

    C’era una stanza piena di bozze, file non chiusi e appunti scritti nelle notti in cui la voce era solo un filo spezzato da ansie e paure. Un territorio dove Josten è rimasto per mesi, cercando un punto fermo mentre la quotidianità perdeva quota e ogni minuto trascorso sembrava scorrere senza un obiettivo, senza una direzione. “Instabile”, il suo nuovo singolo per Troppo Records, è nato quando la musica ha smesso di essere un piano di lavoro per diventare l’unico appiglio, l’unico asse che resta saldo mentre tutto intorno si assottiglia, abbassa il volume e cambia consistenza.

    Poco dopo, è stato il suono delle tastiere di Samuele Bernardi a rimettere in movimento quel tempo che era rimasto fermo, quasi cristallizzato. Un ingresso discreto, che ha anticipato le parole e ne ha preparato il terreno. Lì, tra notti irregolari, versioni accantonate e file conservati, tenuti da parte senza il coraggio di lasciarli uscire, “Instabile” ha trovato finalmente una forma e ha concesso a Josten la possibilità di rialzare lo sguardo dopo anni di ricostruzione silenziosa.

    Il percorso personale dell’artista è infatti partito da lontano e lontano è maturato: Sydney, con i suoi spazi dilatati e la distanza dalle origini, è stato per lui il luogo in cui ha imparato a conoscere, a dialogare e convivere con la solitudine senza esserne schiacciato. La pausa discografica si è così trasformata in un laboratorio invisibile, una palestra fatta di disciplina, esercizi quotidiani, prove, tentativi, giornate senza musica e altre in cui solo la musica riusciva a dare un senso al mondo. E proprio lì, in quella distanza, Josten ha compreso quali parti di sé valeva la pena tenere, quali avrebbe dovuto lasciare indietro e quali sarebbero state indispensabili per ripartire.

    Ogni brano non pubblicato è diventato una tappa del suo riassetto, un modo per ritrovare un’identità creativa che sembrava dissolta.

    Oggi, quel piano personale si è innestato in un tema più ampio, che attraversa una generazione: la sensazione di vivere su un terreno friabile, in cui lavoro, relazioni, futuro e identità cambiano ordine con una rapidità che non lascia il tempo di metabolizzare nulla. “Instabile” non ne fa un canale interpretativo, né un messaggio sociale esplicito. È piuttosto un riflesso, un frammento di un’esperienza vissuta da molti: la fatica di trovare una direzione quando tutto si muove velocemente, e la necessità di un punto saldo che permetta di non sprofondare.

    Non è un discorso sociologico, né un tentativo di generalizzazione: “Instabile” conserva la traccia di un momento specifico, che chiede di essere compreso, di essere collocato nel suo contesto naturale.

    Tra il capire cosa meriti spazio, cosa richieda una svolta e cosa vada abbandonato, Josten regala a chi ascolta un luogo in cui riconoscersi, lontano dal giudizio e dalle interpretazioni che deformano il senso delle cose.

    La sua voce, stabile anche nei passaggi più istintivi, percorre continui passaggi di intensità che raccontano i momenti di crollo vissuti, i ricordi che bruciano ancora, le attese e la ripartenza. Il ritornello – «Ma ti ho voluto tanto bene, insieme spezziamo le nostre tegole» – traccia l’andamento irregolare del brano, l’oscillazione tra chi si è stati e chi si prova a diventare.

    «“Instabile” – dichiara l’artista – nasce da un periodo complicato, fatto di incertezze, delusioni e passi falsi. Mi sentivo bloccato, come se la mia vita fosse scesa di livello. Ho dovuto guardarmi dentro, capire cosa cambiare e affrontare me stesso. In tutto questo, la musica è stata l’unica cosa che non mi ha mai lasciato: è ciò che mi ha tenuto vivo, che mi ha permesso di rimanere a galla quando tutto sembrava andare a fondo. Questa canzone racconta gli anni di silenzio, senza nuove uscite, ma pieni di lavoro, sacrifici e notti trascorse a creare nell’ombra. Racconta il fatto che, anche quando mi sentivo instabile, non ho mai smesso di crederci. È la mia storia, la mia caduta e la mia risalita. È un promemoria che, anche quando tutto trema dentro, non dobbiamo mollare mai.»

    Prodotto da Matteo Lacertosa, “Instabile” segna l’apertura di una nuova fase del percorso di Josten. Un brano che arriva dopo anni di lavoro silenzioso e che si presenta come una pagina rimasta in sospeso troppo a lungo e finalmente portata alla luce.

  • Cyrus & Briga: anche gli uomini piangono, ma non li racconta mai nessuno. “Fragile” rompe il silenzio sulla fragilità maschile

    Roma che si riempie di lacrime, un treno sotto la pioggia, il rosso del semaforo che ti ferma in mezzo alla città come se dovessi restare immobile, a guardare tutto da fuori. “Fragile”, il nuovo singolo di Cyrus e Briga per Daylite è la storia di un uomo che piange e non trova un posto dove farlo senza sentirsi fuori luogo. La fragilità maschile esiste, ma non la racconta mai nessuno. Si discute molto di salute mentale e pressione sociale, ma quando si arriva a questo aspetto, la conversazione si ferma. Subentrano imbarazzo, vergogna, e il discorso si ritrae.

    “Fragile” nasce per far luce su uno dei tabù più radicati del nostro tempo: il pianto maschile. È una canzone che mette in discussione l’idea di virilità come corazza permanente, quella che ancora attraversa educazione, relazioni e linguaggi quotidiani. Alla figura maschile viene chiesto di reggere sempre, di farsi forte, di essere armatura per sé e per gli altri. La sua sensibilità, dentro questo schema sociale, viene confusa con debolezza, minimizzata, infantilizzata, ridotta a qualcosa di cui vergognarsi: «non fare la femminuccia» è un’espressione infelice che indica chiaramente cosa gli è permesso e cosa no. Che stabilisce gerarchie di valore e traccia confini difficili da superare. E che, ancora oggi, continua a muoversi dentro scuole e famiglie, modellando comportamenti e silenzi. I silenzi, la conseguenza più evidente di questo retaggio. Molti uomini non parlano quando stanno male, non perché non sentano il peso di un’emozione, ma perché non sanno come farlo senza percepire quel gesto come una rinuncia al proprio ruolo. L’idea secondo cui mostrare le proprie emozioni sia un segno di inadeguatezza continua a muoversi sotto traccia e condiziona comportamenti, abitudini, perfino il modo in cui si affrontano le perdite e i momenti di crisi.

    “Fragile” sovverte questo meccanismo, sottolineando che i momenti di stallo di un uomo non sono difetti da nascondere, ma la condizione necessaria per restare fedeli a ciò che si è davvero. E mette sul tavolo una possibilità che dovrebbe essere ovvia: un uomo può darsi il permesso di attraversare e vivere il dolore senza sentirsi addosso il fardello del fallimento, perché nessuno può essere invincibile in ogni momento della vita.

    Il testo del brano resta aderente alla sua genesi e si apre con un omaggio a Mia Martini: in “Gli uomini non cambiano” il verso è «Piansi anch’io la prima volta, ricordo bene sai, ho pianto solo un’altra volta, la notte che finì». In “Fragile”, la linea iniziale — «Piansi anch’io la prima volta, ricordo che era primavera, ho annaffiato tutta Roma come fossi un fiume in piena» — riprende quella cadenza malinconica e la rielabora in un’immagine nuova. La città si satura di ricordi che non si riescono a contenere; poi, la scena del treno – «Piove, lei scende dal treno» -, un taxi che lampeggia sul retro, un rosso che immobilizza tutto. E una frase, quella in cui lo spazio esterno e quello interno coincidono «Capisci che il buio mi calma, ma poi mi attanaglia». Il punto in cui un uomo capisce che ciò che sta trattenendo non gli sta facendo più da scudo, ma da gabbia.

    Su questo terreno si incontrano Cyrus e Biga: il primo porta la parte più esposta, quella di un giovane che racconta il proprio cedimento senza protezioni; il secondo inserisce la consapevolezza di chi ha già attraversato certe dinamiche e le riconosce subito, senza bisogno di spiegazioni aggiuntive. Il risultato è un confronto tra generazioni che toccano lo stesso nervo scoperto, ognuna con la propria esperienza. Due modi diversi di arrivare allo stesso punto, quello in cui il coraggio coincide con la disponibilità a non fingere.

    Due voci che, partendo da storie diverse, si ritrovano ad interrogarsi su una stessa domanda: cosa significa, oggi, permettersi di essere fragile?

    Per Cyrus, “Fragile” arriva dopo “Gloria” (2023), album che ne ha consolidato la traiettoria tracciata con pezzi come “Cartier”, “Silvia (Sally)” e “Goccia” feat. Sissi, e dopo una serie di release che hanno confermato il suo posizionamento nei digital store. L’artista romano che negli ultimi anni ha costruito un catalogo capace di unire risultati e affidabilità artistica, si muove dentro un pop che privilegia lo sguardo concreto, i dettagli minimi, e un’aderenza costante alla vita quotidiana. L’incontro con Briga, autore che ha segnato l’immaginario di una generazione con una scrittura immediata, riconoscibile fin dalla prima strofa, è un dialogo tra percorsi diversi che scelgono di convergere su un tema scomodo, e che proprio per questo merita di essere affrontato con una narrazione matura, l’unica in grado di sciogliere quel disagio ingiustificato che lo circonda da decenni.

    “Fragile” è una canzone che dialoga con il peso sociale sugli uomini, con la difficoltà a dare spazio al disagio e a quella solitudine silenziosa che precede molte forme di sofferenza. Un territorio interiore condiviso che, pur attraversato da due scritture e due percorsi diversi, converge su un punto fermo — non è da “femminucce” piangere, è da uomini adulti riconoscere quando qualcosa fa male.

  • Voce, AI e autorialità: perché il percorso di GIVO interessa la filiera più della polemica sui cantanti sintetici

    Una nuova generazione di artisti, negli ultimi tempi, sta rinegoziando il rapporto con la propria voce: non solo metaforicamente, ma anche in senso letterale. GIVO, autore reggiano attivo nella scena da diversi anni, è tra i primi a trasformare questo passaggio in un processo creativo concreto, utilizzando una voce generata tramite intelligenza artificiale modellata sul proprio timbro naturale. Una fase preparatoria, supportata da studio e lavoro mirato, pensata per accompagnare l’ingresso della sua voce reale nell’esecuzione dei brani che firma.

    Questa scelta non alimenta il dibattito già esausto sui “cantanti sintetici”, ma introduce un tema diverso, più attuale e più complesso, quello della costruzione dell’identità sonora come percorso, anziché come punto di partenza.

    L’aspetto più rilevante sta nel modo in cui GIVO usa questo passaggio. La voce generata non vuole essere una firma stilistica, ma un luogo di lavoro, un ambiente in cui testare sfumature, intenzioni, respiri, finché la sua voce naturale non sarà pronta a sostenerli.

    E c’è un altro elemento che rende questa scelta interessante per chi osserva la discografia dall’interno: GIVO arriva dalla scrittura e rivendica il valore dell’autore come figura autonoma, distinta dall’interprete. La voce sintetica diventa così una cerniera temporanea che gli permette di dare forma ai brani senza forzare un’identità vocale che sta ancora costruendo, mostrando come si possa scrivere per sé senza obbligatoriamente incarnare subito ciò che si firma, e senza togliere dignità al ruolo degli interpreti.

    La sua direzione cambia la prospettiva abituale, perché non parte dal timbro per costruirgli attorno un suono, un’immagine, un intero progetto, ma lascia che sia la scrittura a indicare quale voce dovrà sostenerla. Un metodo che, pur essendo parte del lavoro quotidiano di molti autori, raramente viene portato al centro del discorso. GIVO lo mette in luce dentro un contesto urban ed evita che resti un passaggio tecnico, rendendolo un’occasione per interrogarsi su come prende forma l’identità vocale di chi scrive.

    Negli ultimi due anni, l’ingresso dell’intelligenza artificiale nel campo vocale è diventato uno dei fronti più discussi dell’industria musicale internazionale. L’IFPI, nel suo Global Music Report 2024, segnala una crescita netta dei progetti che integrano processi vocali avanzati, soprattutto nelle scene urban e nelle produzioni indipendenti, dove la voce viene trattata come un materiale su cui lavorare e non come un elemento immutabile. Analisi parallele — da Loud & Clear di Spotify ai dossier “Music in the AI Era” di Goldman Sachs — confermano questa direzione: la definizione dell’identità vocale non coincide più necessariamente con la voce biologica dell’artista, ma entra in un’area intermedia in cui tecnologia, scrittura e ricerca timbrica dialogano.

    Una zona che in Italia resta poco esplorata e che rende il caso di GIVO particolarmente interessante anche per chi osserva il mercato da un punto di vista culturale e non solo musicale.

    Il suo nuovo singolo, “Paranoia Chic”, rappresenta il punto di sintesi di questo discorso. L’incipit — «Sto bene ma solo in apparenza» — introduce un testo fatto di immagini brevi. Lacrime che “sanno di Chanel”, “ghiaccio negli occhi”, “una città che ha perso ogni blink” sono tutte metafore volte a descrivere più uno stato mentale che una storia, e che si inseriscono perfettamente nel percorso che l’artista sta costruendo da mesi: una scrittura che riporta ciò che sente quando lo sente, onesta rispetto al momento in cui nasce.

    Il brano, che si collega ai capitoli precedenti — “Neve sulle Nike”, “Messaggi alle 2”, “Fumo e Sirene” — forma un’evoluzione coerente in cui solitudine, amori intermittenti e storie quotidiane occupano un proprio spazio.

    La parte più rilevante rimane però la questione vocale: un artista che usa la sintesi vocale per modellare il proprio timbro e arrivare, con maggiore consapevolezza, alla propria voce reale. Non si tratta di un espediente tecnico, ma di un’apertura a un tema nuovo nel comparto musicale italiano:

    come cambia la percezione dell’autorialità quando la voce non è più solo uno strumento ma un territorio da raggiungere; una meta e non un presupposto?

    GIVO, con i suoi brani, apre una discussione più ampia su rappresentazione, controllo di sé e sul modo in cui oggi un artista costruisce il proprio suono, collocandosi nel punto in cui scrittura, immaginario e ricerca vocale convergono.

    In studio, mentre riascolta le tracce isolate della sua voce sintetica e annota sul telefono le variazioni da provare nel take successivo, si legge con chiarezza la direzione che sta seguendo: la voce non come punto di partenza, ma come esito di un lavoro che ha bisogno di tempo, tentativi, strati successivi. E lì, in quel margine tra provvisorietà e intenzione, si sta formando la sua cifra distintiva.

  • Dal Sud profondo al dibattito globale sulle spose bambine: la traiettoria di IBLA

    Una ragazza di sedici anni, promessa a un uomo che non ha scelto, il destino già scritto da altri, il silenzio come unica lingua concessa. Non è una scena d’archivio etnografico, è un’immagine antica che torna a bussare, ruvida come la pietra, alle porte della contemporaneità. Ed è il punto di partenza di “Rituale”, il nuovo singolo di IBLA prodotto da James & Kleeve e Salvo Scibetta per The Orchard.

    Nata ad Agrigento, IBLA – al secolo Claudia Iacono – negli ultimi dieci anni ha portato la voce coraggiosa, politica, primigenia di Rosa Balistreri sui palchi italiani ed europei, dai teatri siciliani alle collaborazioni con Treccani e alla notorietà raggiunta con la partecipazione ad Amici nel 2021. Oggi depone il ruolo di tramite per diventare origine: non più solo custode e interprete, ma autrice del proprio lessico musicale, di un racconto popolare riscritto in voce presente, dove il folklore del futuro non è un’idea ma una lingua in formazione. La continuità viene riformulata, stratificata per essere tramandata in un altro codice, attraverso un passaggio di consegne che avviene per trasformazione anziché per replica.

    Per secoli, in Sicilia come in altre ampie zone del Mediterraneo, il matrimonio era alleanza tra famiglie, non unione tra partner che condividono lo stesso sentimento reciproco: un patto economico, sociale, territoriale, siglato spesso sul corpo delle figlie. Oggi la geografia cambia ma lo schema permane: secondo UNICEF, nel mondo sono più di 640 milioni le donne che vivono le conseguenze di matrimoni contratti prima dei 18 anni — un fenomeno che, soprattutto in vaste aree dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia meridionale, è ancora legato a decisioni familiari, pressioni comunitarie, accordi economici, codici d’onore, tradizioni vincolanti. Non è una linea di demarcazione tra epoche, ma un filo ininterrotto di consuetudini che si aggiornano, si travestono, si spostano e raramente scompaiono.

    IBLA non ha mai considerato il passato come una teca, ma come linfa, radice, forza germinativa. Un crocevia di logiche ancestrali, un sistema di lettura del mondo retto da soglie porose tra visibile e invisibile. In “Rituale”, questo principio all’apparenza astratto, prende forma e diventa materia udibile, spazio in cui irrompe l’eco di un rito di magia popolare siciliana, quello praticato un tempo dalle magare dell’entroterra per intrecciare due destini, attraverso invocazioni sussurrate e formule d’amore tramandate. È un frammento del pensiero che considerava il mondo un’unica trama, dove il sacro convive col pane quotidiano, e il canto, il sortilegio e la sopravvivenza abitano la stessa frase.

    La vicenda della sposa bambina apre alla domanda cardine del brano:

    quanto delle scelte che chiamiamo nostre nasce davvero da noi?

    È qui che il pezzo dilata i confini dell’episodio storico e si sposta sul terreno della condizione, dell’eredità invisibile di imposizioni, aspettative, ruoli; retaggi culturali ricevuti come destino, assorbiti come consuetudini e mai davvero interrogati.

    IBLA scardina il punto in cui la tradizione smette di essere fondamento e diventa recinto, in cui l’appartenenza si converte in prescrizione, in cui l’identità somiglia più a un perimetro assegnato che a un territorio scelto. “Rituale” mette allo scoperto il momento in cui una donna riconosce il copione, lo sfila dalle mani altrui e si domanda, per la prima volta, se la propria vita stia procedendo per voce propria o per volontà altrui. Un cambio di asse dove l’adesione automatica si incrina, i modelli assorbiti senza verifica cominciano a cedere, l’obbedienza culturale smette di essere un riflesso e diventa finalmente visibile. Perché i cambiamenti iniziano così: con una crepa microscopica nel copione, con un pensiero che non rientra nei ranghi, con una domanda che continua a presentarsi finché il muro non si accorge di esistere.

    Il suono fa lo stesso lavoro del testo: mescola, disobbedisce, fonde. Tamburi arcaici, tonalità folkloriche e invocazioni cerimoniali isolano e convivono con bassi elettronici, texture digitali, tagli ritmici di matrice urban. A grattare il perimetro del genere, ci sono il canto tellurico di IBLA e una drammaturgia vocale che porta la lingua del rito fuori dal suo uso originario, la prende in prestito e la reinventa altrove.

    «Ho scritto “Rituale” per capire dove iniziavo io e dove finivano le voci degli altri – spiega IBLA -. Le scelte ereditate, le regole respirate come aria, le gabbie scambiate per destino: questo brano è il punto in cui ho detto basta. La libertà non si aspetta, si prende. E inizia quando smettiamo di confondere la nostra voce con l’eco delle istruzioni altrui.»

    Nel momento in cui un idioma nato per legare, assegnare, vincolare, viene sottratto al suo scopo originario e riadoperato per nominare un’altra possibilità, cambia funzione. Anziché venir rievocato come cifra identitaria, viene ripreso come alfabeto: un vocabolario di simboli, sonorità e formule che IBLA sposta dal terreno del destino scritto a quello della presa di parola. Un metodo antico di leggere il mondo che torna, riposizionato, a dire altro.

    Il percorso di IBLA, in questo senso, non riguarda un’emancipazione privata che si auto-assolve, ma la riapertura di un luogo emblematico in cui le storie individuali e i codici culturali si toccano, si riconoscono, si scambiano di proprietà. Il rito non appartiene più al passato che dirige, ma al presente che interroga. La magia, la ripetizione, la formula non sono reliquie, ma diventano strumenti di riappropriazione del sé, reagenti di coscienza, sintassi di una sintonia nuova tra corpo, voce e decisione.

    Il videoclip ufficiale che accompagna il singolo – diretto da Andrea Vanadia, con la fotografia di André Tedesco e il montaggio di Eleonora Cassaro -, evita l’iconografia folklorica edulcorata per sovrapporre corpi, terra, simboli ed elementi liturgici del Sud, come in un vero e proprio processo di svelamento in cui il rito filmato non rappresenta nulla, ma semplicemente accade.

    “Rituale” si inserisce nel progetto creativo più ampio in cui IBLA sta componendo un folk contemporaneo indisciplinato, una linea che collega tradizione orale, urban, elettronica, ritualità mediterranea e performance. Una forma espressiva che non mira al restauro, ma trasforma le rovine in nuovi orizzonti di possibilità.
    E mentre il tamburo batte, la voce prende corpo. Il resto, ancora, si deve compiere.

  • Dal silenzio forzato al racconto in musica: il singolo che apre una crepa nella retorica digitale

    Un uomo, il suo telefono fuso al volto, come se l’interfaccia fosse diventata pelle, anagrafe. Lo sguardo smarrito in un’arena digitale dove nessuno ascolta nessuno. Si apre così “Dimmelo”, il nuovo singolo di Raffaele Poggio per Orangle Records/Mendaki Publishing. Una diagnosi istantanea del tempo in cui la conversazione pubblica è ridotta allo scontro, l’empatia scade a seccatura, intralcio, e la presenza altrui viene percepita come collisione e possibile intrusione.

    Un brano nato dall’osservazione del dissesto della parola, dove le frasi vengono scagliate come detriti, la compassione ha ceduto il posto a una finta interazione, senza un effettivo interesse nei confronti dell’interlocutore, e la presenza non coincide mai con il punto in cui accade la vita. Siamo ovunque, simultanei, raggiungibili, notificabili, visibili. Eppure raramente intenti a noi stessi nel tempo presente. In una frase, parliamo moltissimo, ci ascoltiamo pochissimo.

    Poggio, anziché descrivere il fenomeno da una posizione esterna, con tono giudicante, ci entra dentro perché l’ha attraversato, perché quel meccanismo gli si è rotto tra le mani. La scorsa primavera ha subito una battuta d’arresto, una malattia improvvisa lo ha costretto a frenare, interrompere: un corpo che dichiara sciopero e dice basta, mentre tutto intorno tutto chiede accelerazione e disponibilità costante. Nessuna lezione edificante, nessun risarcimento consolatorio: un arresto. Netto.

    Anni trascorsi a controllare lo sguardo altrui, a misurare il proprio peso con un indice esterno, a presenziare ovunque — tranne nella stanza meno affollata di tutte, quella senza spettatori, senza notifiche, senza giudici. La stanza dove la domanda non è come sembro, ma come sto. La malattia ha fatto precipitare i decibel, abbassando drasticamente il volume. Ha tolto intermediari, aspettative, maschere sociali e qualsiasi tipo di sovrastruttura, riportando il discorso al suo punto di origine: il corpo, il respiro, la verità più scomoda da eludere.

    A fare da contesto al brano non c’è un sentimento generico di saturazione digitale, ma un fatto osservabile: negli ultimi anni la conversazione in rete si è contratta, polarizzata, irrigidita in schemi rapidi — reazione, schieramento, sentenza. I commenti superano sistematicamente la lettura dei contenuti, i thread accorciano il pensiero a etichetta, la risposta arriva prima della comprensione. L’infrastruttura del confronto si misura in velocità, non in scambio costruttivo. In questo frangente, “Dimmelo” offre una cartografia dell’impatto, a partire da un singolo individuo, un singolo corpo, un singolo cedimento.

    Colpisce che il brano esca proprio mentre il consumo di contenuti supera la soglia dell’interazione reale: le persone scorrono, scrollano e archiviano più di quanto si fermino ad approfondire, reagiscono più di quanto rispondano, rispondono più di quanto leggano. Un ecosistema che produce soggetti visibili, ma raramente presenti. Poggio prende questa immaterialità e la riporta a un metro non discutibile: un fisico che a un certo punto si arresta. Niente allegorie. Un limite. Tangibile.

    Il valore del progetto sta proprio nella scelta dell’unità di misura. Mentre ogni cosa viene tradotta in impression, visualizzazioni, reach, reazioni, “Dimmelo” sposta il contatore sull’unica variabile che l’algoritmo non può quantificare: il corpo, quando chiede tregua. La narrazione smette di essere un’osservazione sociologica svolta da lontano perché non parla della rete, ma di ciò che la rete non registra: ciò che accade quando il pubblico si spegne e resta solo una persona, seduta con il proprio silenzio.

    Non è un caso che la traccia non sia un atto di accusa, né un rifiuto del digitale. Poggio non smonta il sistema, non finge di starne fuori. Ne mostra la soglia di tenuta, il suo punto di interruzione. Quello in cui il pubblico e il privato collidono senza camuffamenti, la performance non ha più terreno dove appoggiarsi, l’immagine finisce e resta soltanto il peso reale delle cose.

    “Dimmelo” svela una microstoria del nostro tempo, perché anziché rappresentare la piccola bandiera di un singolo, funge da termometro di un clima, quello in cui l’intensità dell’esposizione supera la capacità di assorbimento. Un clima che non esplode mai del tutto, ma si manifesta in segnali minimi: un’interruzione, una pausa forzata, un ritmo cardiaco che modifica la scaletta.

    Il brano condensa tutto in una frase, la frase:

    «Non importa se cadi, basta che non mi sfiori»

    Sette parole che descrivono la grammatica relazionale di questi anni: il dolore tollerato a distanza, la fragilità altrui accettata come notifica, mai come contatto. Poggio non accusa e non si assolve: si include nel quadro e lo espone. Prende atto del nuovo contratto sociale non scritto: cadi pure, ma fora dall’inquadratura. Meglio il rumore bianco della connessione permanente che la scossa viva di una presenza non filtrata. Meglio aggiornarsi che attraversarsi.

    È qui che l’artista toglie ogni residuo teorico alla questione, perché invece di parlare del collasso digitale, parla del suo effetto più sottile: la progressiva abilità a non farsi toccare. A non farsi coinvolgere. A non farsi davvero trovare da nessuno, pur restando disponibili a tutti.

    «Il corpo, quando cede, è l’ultimo cancello – afferma -. È il punto in cui la discussione finisce. Stavo vivendo dentro un rumore che chiamavo continuità. Si era trasformato in una gogna di rendimento. La malattia ha avuto la brutalità del reset forzato.»

    “Dimmelo” diventa così la cronaca di un doppio cortocircuito, sociale e individuale: la tirannia dei numeri, l’autovalore misurato in algide percentuali, i silenzi interpretati come verdetti, le porte che non sbattono ma restano socchiuse — e proprio per questo feriscono di più. Una rincorsa ininterrotta al “meritare”, al non sembrare mai insufficienti, al non sbagliare mai il passo. Una rincorsa che porta a crolli psicologici e fisici, che erode anche l’area più sensibile, quella affettiva, a cui crollano le impalcature reggenti e circostanti.

    Ad amplificare il discorso è il social video ufficiale, firmato Knowhere Studios, in cui l’iconografia religiosa diventa la lente per raccontare il nuovo culto del giudizio perenne, un tribunale che non prevede assoluzioni. Nel video, lo smartphone non è accessorio, ma prolungamento biologico, epidermide innestata, secondo volto: uno strumento di connessione più potente della connessione stessa, simbolo di un potere che avvicina e al tempo stesso schiaccia.

    A livello sonoro, il brano — prodotto agli Head Studios di Torino da Luca Testa, composto con Riccardo Novarese e scritto dallo stesso Poggio a quattro mani con Matteo Ferrari — sceglie un pop elettronico pulsante, dove la partitura ritmica spinge in avanti anche quando il testo frena e ammette il cedimento. È un pezzo che invita al movimento ma non concede l’evasione: si balla, sì, ma con una lama di disincanto nel ritorno di cassa.

    Il brano entra nel percorso live THE ENERGY PARTY, dove l’artista mette in sequenza repertorio proprio e canzoni dagli anni ’70 ai 2000. Un metro comparativo tra l’immaginario di epoche che prevedevano inciampi, pause, sparizioni momentanee e un presente che ammette solo presenza continua, piena all’apparenza ma completamente svuotata nella sua essenza.

    “Dimmelo” si ferma esattamente nel punto in cui il corpo ha fermato tutto il resto. Per questo, non arriva come risposta, ma come inversione di domanda: anziché chiedere cosa stiamo guardando, chiede cosa stiamo disimparando a sentire. E lascia tutto sospeso, perché è lì che viviamo: in sospeso. Connessi ma distanti, visibili ma assenti, parlanti ma mai ascoltati e in ascolto. È un pezzo che non parla dal centro del palco, ma dal punto in cui le luci virano, si abbassano e mostrano il bordo delle cose. Quello dove il pubblico smette di essere folla e torna persona, una per una, senza schermo in mezzo.

    E in quel cambio di temperatura dell’aria, Poggio si allontana da prediche futili sulle disconnessioni salutari per portare una constatazione nuda, raccontando il momento in cui il sistema si inceppa – non quello digitale, quello corporeo. Perché il futuro della connessione non si decide nell’ennesimo aggiornamento di un’app, ma nel microsecondo in cui qualcuno, finalmente, alza lo sguardo e incontra, anziché identificare.

  • La ricostruzione dopo l’addio: Alessio Bernabei produce “Dolce Amaro”, il nuovo singolo di Lisa Ardini

    Una tazza scheggiata sul tavolo: un dettaglio minimo, ma impossibile da trascurare. Non serve altro, a volte, per capire che qualcosa non torna e che una storia è giunta al suo compimento. Da lì riparte Lisa Ardini, voce calda dalle sfumature soul e timbro pieno che guarda alle radici black senza emularle, ma integrandole con piena coscienza espressiva. E lo fa con “Dolce Amaro”, secondo inedito prodotto da Alessio Bernabei che segna il passaggio dalle reinterpretazioni d’autore – “Come si cambia”, “Rolling in the Deep” – alla definizione di un linguaggio proprio.

    Il brano prende forma la scorsa primavera, in una fase di ricomposizione personale per l’artista, con la volontà concreta di riprendere i pezzi e rimetterli al loro posto, come chi ha pianto già abbastanza e ora sceglie di andare avanti.

    Lisa Ardini si discosta dalla narrazione struggente dell’addio tipica della grande ballata sentimentale e propria di un pop eccessivamente effusivo, per concentrarsi sull’urgenza di ritrovare i propri frammenti e riconciliarsi con sé stessi dopo aver avvertito il naturale smarrimento post-rottura. L’attenzione, qui, non è sulla storia che finisce, ma sul modo in cui si decide di attraversarla, metabolizzarla e superarla. Un nero su bianco per disciplinare il trauma anziché spettacolarizzarlo, che sposta il baricentro dall’evento alla sua elaborazione. Una scelta risoluta e controcorrente, che instaura una nuova, differente grammatica per raccontare il dolore, lontana dall’esposizione continua che la nostra epoca sembra richiedere. La sofferenza si restringe, si mette in ordine, e traccia il sentiero per l’unica affermazione possibile: «vado punto e a capo».

    Il passato si riduce all’essenziale, quel tanto che basta per non negarlo e non farsene travolgere. E poi, in quel «vivere in prigione», il brano mostra come anche l’attaccamento, a volte, possa stringere più di quanto sostenga.

    “Dolce Amaro” muove i propri passi in un territorio oggi poco frequentato: Lisa non cancella, non commenta e non idealizza. Sistema il possibile, riconosce la nostalgia, la lascia scorrere, e inizia a ricomporre sé stessa – «quello che voglio fare finalmente lo farò». Nelle sue parole non c’è nessuna promessa di rinascere dalle ceneri, perché rifiuta il cliché della fenice e della rivalsa teatrale, privilegiando il silenzio operoso del ripristino. Solo una constatazione: si può chiudere una porta senza far rumore.

    Anche oggi, dove saper chiudere senza mettere in risalto ogni evento che accade, è diventata una competenza. Non solo sentimentale: riguarda relazioni professionali, identità digitali, percorsi di vita. Il problema non è più tanto la capacità di iniziare, quanto quella di terminare senza distruggere. Di uscire da una stanza senza sbattere la porta, ma nemmeno lasciandola socchiusa per nostalgia.

    “Dolce Amaro” non propone soluzioni miracolose, ma registra un fatto: si può andare avanti. Si deve. E si può farlo senza trasformare ogni passo in contenuto, ogni lacrima in capitale narrativo.

    «Avevo bisogno di un taglio netto – dichiara l’artista -. Non di cancellare, ma di rimettere in fila ciò che restava di me. In studio con Alessio ho imparato a scegliere: meno parole, più verità. “Dolce Amaro” è il suono di quella scelta.»

    Ventisei anni, padovana, Lisa cresce con i classici anni Settanta/Ottanta che la madre le fa scoprire da bambina. Dal 2020 avvia un percorso formativo che allena voce e scrittura; nelle esibizioni dal vivo alterna piano e sax. Con “Dolce Amaro” prosegue la transizione dalle cover al repertorio originale, mantenendo una linea chiara: raccontare un’esperienza senza indulgere in facili espedienti o in artifici retorici.

    Questa direzione si traduce nella ricerca del senso ultimo dell’accaduto. La tazza resta scheggiata, ma si può scegliere di posarla e andare avanti.