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  • “Buenos Aires” è il nuovo singolo di Antonio D’Angiò

    Dal 12 dicembre 2025 sarà disponibile su tutte le piattaforme di streaming digitale “BUENOS AIRES”, il nuovo singolo di ANTONIO D’ANGIÒ (Matilde Dischi).

    Narrativamente, Buenos Aires è il primo tentativo del bambino, protagonista dell’album, di sedurre la bambina: le racconta una menzogna “affascinante”, una storia personale fatta di elementi fantastici, di ambienti grotteschi e inospitali ma, suo malgrado, ne risulta un ritratto surreale, in un ambiente sonoro dinamico, che alterna il movimento ruvido delle chitarre a momenti di buia e vertiginosa staticità digitale.

    Il videoclip della canzone, scritto e diretto dal regista Simone Romano, traduce in immagini le sensazioni che l’autore esprime attraverso la musica, facendone un racconto al fine di restituire forma visbile alla sostanza della musica e delle parole. L’impiego dell’intelligenza artificiale nel suo lavoro, si propone di sperimentarne i limiti di coerenza ma anche la sua capacità generativa a servizio della creatività umana.

    Clicca qui per guardare il videoclip: https://youtu.be/724TseUryAs?si=zl8N3mxmtZ69lhMt

    Commenta l’artista riguardo alla canzone: “Buenos Aires, regstrata presso lo studio Francesco Pio Maimone di Pianura (Napoli), l’ho scritta nell’afoso agosto 2021, nel silenzio della profonda campagna irpina, e approfondisce il tema dei Figli di plastica, che fanno parte del mondo delle idee, dell’affannosa ricerca di convalida da parte della società, a costo di mentire pur di dare l’impressione di essere ciò che si vorrebbe. Questo tema si potrebbe collegare a tanti aspetti dell’estistenza ma, nel contesto dell’album di cui fa parte, si riferisce alla produzione musicale che sembra non dominare le tendenze ma piuttosto esserne schiava, riducendo la libertà di espressione degli artisti che, più o meno consciamente, tendono a una sottile autocensura. Vittima e complice di questa dinamica è lo stesso Autore del brano che, pur cercando di distinguersi da ciò che racconta, comincia a lanciarsi in ambienti sonori e lirici gradualmente sempre più ambigui e semplici, inaridendo il proprio linguaggio”.

    Biografia

    Antonio D’Angiò è un cantautore e polistrumentista nato a Napoli nel 1995, attivo sulla scena musicale indipendente. Inizia a scrivere canzoni durante l’adolescenza, influenzato dai cantautori italiani, dal rock degli anni ’70 e dal grunge. Nel 2016 pubblica con Apogeo Records il suo primo album, “Spauracchio fritto”, frutto di un’intensa attività live e di una ricerca musicale istintiva e giocosa, co-prodotto con Lorenzo Campese (No Dada). Dopo l’uscita del disco, si prende una pausa dai palchi per approfondire lo studio della musica e lavorare a un nuovo linguaggio musicale. Nell’ottobre 2024 torna ufficialmente dal vivo con un concerto in band presso lo storico Auditorium 900, all’interno della rassegna Cosmofonie, curata da Massimiliano Sacchi, del Campania Teatro Festival. Termina intanto le registrazioni di “Figli di plastica”, secondo album co-prodotto con Roberto Guardi (alias Befolko) e Fabrizio Coppola, con la collaborazione di musicisti come Antonio Barberio (Dignità Autonome Di Prostituzione, Maradonas), Emanuele De Luca (Primo Amore), che mescola atmosfere Progressive Rock, Alternative e Pop, segnando un’evoluzione stilistica e sonora. La musica che propone utilizza spesso come soggetto turbamenti intimi e viaggi onirici-erotico-sentimentali, che secernono temi allegorici più che letterali, universali più che particolari. Nel suo lavoro video è coadiuvato dal giovane regista Simone Romano, mentre per la parte illustrativa si avvale della collaborazione dei disegnatori Domenico Di Francia “K” e Martina D’Angiò. La sua attività di cantautore si propone di arrivare a un pubblico interessato a sviscerare il senso dell’arte intesa come strumento di provocazione, di tortuosa indagine psicologica e non come passiva e scorrevole fruizione.

    “Buenos Aires” è il nuovo singolo di Antonio D’Angiò disponibile su tutte le piattaforme di streaming digitale dal 12 dicembre 2025.

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  • “Credo” è il nuovo singolo di Clotilde

    Dal 12 dicembre 2025 sarà disponibile sulle piattaforme digitali e in rotazione radiofonica “Credo” (Up Music Studio), il nuovo singolo di Clotilde.

    “CREDO” è un grido di verità. Una canzone che parla di fede in sé stessi, nel sentimento, e nella forza di andare avanti andando dritta verso i proprio sogni,anche quando tutto vacilla. La musica è intesa come chiave per guarire e uscire dai problemi.

    Nel ritornello “Non tornerò più indietro, perché ci credo”-la chiave di tutto è la forza di una scelta autentica, sentita fino in fondo all’anima. Crederci è ciò che dà senso a tutto.

    Commenta l’artista sul nuovo brano: “Credo è nato in un momento in cui avevo bisogno di fermarmi e capire se quello che stavo facendo avesse davvero un senso per me. È il brano che più mi rappresenta, perché racchiude una scelta: quella di credere in ciò che sento, anche quando fa paura.Durante la scrittura ho riscoperto parti di me che avevo messo da parte, e in studio ho capito che questa canzone sarebbe stata il cuore del mio progetto. Volevo che il messaggio arrivasse diretto, senza filtri, ma mantenendo una cura quasi minimalista.La voce tremava, ma era vera. Ogni parola è un passo avanti, un atto di fede — non verso qualcosa di esterno, ma verso me. Credo è il manifesto della mia coerenza artistica: è il momento in cui ho scelto di non indietreggiare più, né musicalmente ne umanamente.”

    Il videoclip di “Credo” è stato interamente girato in studio, immerso in un’atmosfera intima e accogliente. Grazie alla professionalità e al supporto del team di produzione, l’esperienza si è trasformata per l’artista in qualcosa di quasi magico. Tra giochi di luci colorate e una grande spontaneità, il video riesce a trasmettere la sensazione che l’artista si trovi esattamente nel suo spazio e nel suo mondo.

    Per questo motivo, l’interpretazione di “Credo” risulta profondamente autentica, essendo nata da un momento di sincera e personale verità.

    Guarda il videoclip su YouTube: https://youtube.com/watch?v=DlulIylKVA8&feature=shared

    Biografia

    Clotilde, giovane artista ventenne originaria di Gela, in Sicilia, coltiva la sua passione per la musica sin dall’infanzia. Fin da piccola ha dimostrato una naturale inclinazione per il canto e per l’interpretazione musicale, dedicandosi con costanza e determinazione alla propria formazione artistica. Ha conseguito il diploma in Canto e Discipline Musicali a Roma, città in cui ha avuto l’opportunità di affinare tecnica, interpretazione e presenza scenica.

    La sua carriera artistica l’ha portata a confrontarsi con importanti palcoscenici nazionali: ha partecipato alle selezioni di X Factor e di Amici di Maria De Filippi, esperienze che le hanno permesso di crescere come artista e di farsi notare dal grande pubblico. Parallelamente, Clotilde ha calcato i principali teatri di Roma, portando la sua musica dal vivo e costruendo un rapporto diretto con gli spettatori, dimostrando sensibilità, emozione e professionalità sul palco.

    Dopo il suo primo progetto discografico, Clotilde ha recentemente lanciato con Up Music il suo secondo singolo, “Non scorre più il tempo”. Si tratta di un brano dal tono malinconico e riflessivo, capace di toccare corde intime e allo stesso tempo di liberare l’ascoltatore, invitandolo a lasciar andare ciò che appartiene al passato. La sua musica racconta storie di vita, sentimenti autentici e momenti universali, e riflette la sua personalità intensa, sensibile e pronta a farsi conoscere nel panorama musicale contemporaneo.

    Con determinazione e passione, Clotilde continua a costruire il proprio percorso artistico, con l’obiettivo di far arrivare la sua voce e la sua musica a un pubblico sempre più ampio, mantenendo sempre viva l’emozione al centro di ogni sua esibizione.

    “Credo” è il nuovo singolo di Clotilde disponibile sulle piattaforme digitali di streaming e in rotazione radiofonica dal 12 dicembre 2025.

     

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  • “ROONEY” è il nuovo singolo di Piste

    Da venerdì 12 dicembre 2025 sarà in rotazione radiofonica “ROONEY”, il nuovo singolo di Piste già disponibile sulle piattaforme digitali di streaming dal 21 novembre.

    “ROONEY” è un brano che affonda nel racconto della vita di strada, tra ricordi che bruciano e un costante desiderio di rivalsa. Il testo mette al centro la differenza tra amici e opportunisti, e la lucidità necessaria per non farsi fregare da chi ti gira attorno. Il sound è crudo e diretto, con beat serrati e atmosfere scure che sostengono un flow deciso, sospeso tra introspezione e attitudine street.

     

     

    Spiega l’artista a proposito della nuova release: “Il brano si inserisce molto bene nell’immaginario che sto cercando di esprimere, portando un sound maturo e introspettivo quanto street”.

     

     

    Biografia

    Piste è un artista attivo da dieci anni nella scrittura e nella ricerca del proprio stile, pubblica ufficialmente i suoi brani da due, portando finalmente alla luce un percorso creativo iniziato molto prima. Dopo due anni di pianoforte e un periodo dedicato alla danza, trova nella scrittura musicale il linguaggio più naturale per esprimere ciò che vive e ciò che sente.

    La sua musica nasce dall’incontro tra il panorama sonoro americano – dalle influenze urban alle vibrazioni più melodiche – e la tradizione italiana, con cui fonde storytelling, emotività e cura del testo. Ogni brano diventa così un pezzo della sua storia: pensieri, sensazioni, momenti di crescita e riflessioni sulla vita quotidiana.

    Nel suo percorso collabora con produttori sparsi in tutta Italia e con un ulteriore riferimento professionale in Svezia, arricchendo il proprio sound con prospettive diverse e sperimentazioni continue.

    Il suo pubblico non ha confini: punta ad arrivare a tutti, senza distinzioni di età o genere, con una musica che parla di esperienze reali e di verità personali capaci di risuonare in chi ascolta.

    Il suo obiettivo è ambizioso e chiaro: diventare uno dei migliori nel panorama musicale, seguendo un percorso autentico, rispettando i propri tempi e imparando da ogni passo, da ogni errore, da ogni movimento.

     

    “ROONEY” è il nuovo singolo di Piste disponibile sulle piattaforme digitali di streaming dal 21 novembre e in rotazione radiofonica da venerdì 12 dicembre.

     

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  • “Slavonic Dance Op. 72, No. 2” è il nuovo singolo di Corrado Caruana

    Da venerdì 12 dicembre 2025 sarà disponibile su tutte le piattaforme di streaming digitale “Slavonic Dance Op. 72, No. 2” il nuovo singolo di CORRADO CARUANA, estratto dall’EP “NOUVELLE VAGUE” di prossima uscita.

    “Slavonic Dance Op. 72, No. 2”, brano originale di Antonín Dvořák appartenente al ciclo delle Slavonic Dances, richiama fortemente le radici folkloristiche slave. In questo arrangiamento per ensemble ridotto, l’orchestrazione è stata rielaborata e sintetizzata per un quartetto composto da chitarra manouche, contrabbasso, violino e violoncello.

    Questa scelta strumentale conferisce al pezzo un sound più intimo, unendo le sonorità classiche degli archi alla texture morbida e ritmica della chitarra manouche, tipica del jazz manouche.

    È presente anche un’improvvisazione di chitarra che rompe consapevolmente gli schemi della forma classica, introducendo un momento di libertà espressiva e ampliando il dialogo tra tradizione e contemporaneità.

     

     

    Spiega l’artista a proposito del brano: «Ho scelto di lavorare su Slavonic Dance: al primo ascolto, mentre un amico la suonava al pianoforte, ho sentito che doveva far parte del disco. Gli archi e la chitarra manouche si incontrano in modo naturale, fondendo le radici folkloristiche slave con la tradizione manouche, una pratica comune in questo genere.»

    CORRADO CARUANA | BIOGRAFIA

    Chitarrista e compositore di Parma, si è laureato in chitarra jazz presso il Conservatorio “G. Nicolini” di Piacenza, conseguendo il diploma accademico di secondo livello con il massimo dei voti.

    Pur avendo una solida formazione jazzistica e un background fortemente legato al linguaggio di Django Reinhardt, non si è mai riconosciuto in un unico genere, preferendo seguire un percorso personale, libero da etichette e sfuggendo a incasellamenti.

    Nel corso degli anni ha collaborato con numerosi musicisti di diversa estrazione, tra cui Stochelo Rosenberg, Michele Pertusi, Alessandro Nidi e l’Orchestra Toscanini, esperienze che hanno contribuito ad ampliare il suo orizzonte musicale e a consolidare una voce chitarristica originale e in continua evoluzione.

    Membro e fondatore del progetto “Django’s Fingers”, vincitore del festival nazionale “Barezzi” nel 2007, oggi alterna l’attività concertistica a progetti che uniscono musica e teatro, tra cui il duo comico-musicale “Attacchi di Swing” e “Première Étude sur Piaf”, spettacoli che porta regolarmente nei teatri in Italia e all’estero.

    Con l’uscita di “Nouvelle Vague”, il suo debutto discografico da solista, segna un percorso maturo e personale, frutto di anni di ricerca, incontri e libertà creativa.

    “Slavonic Dance Op. 72, No. 2” è il nuovo singolo di Corrado Caruana disponibile sulle piattaforme digitali di streaming da venerdì 12 dicembre.

     

     

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  • “Il Demone che ho” è il nuovo singolo di Dose

    Da venerdì 12 dicembre 2025 sarà in rotazione radiofonica “Il Demone che ho”, il nuovo singolo di Dose già disponibile sulle piattaforme digitali di streaming dal 28 novembre.

    Il brano “Il Demone che ho” apre una finestra sul mondo interiore di Dose, trasformando il confronto con sé stesso in una riflessione cruda e lucida. «Lo sai, il demone che ho, me lo sono fatto amico» non è solo una barra, ma il manifesto di un equilibrio ritrovato tra fragilità e controllo.

    La canzone parla di accettazione del lato oscuro, di come l’ego e le proprie contraddizioni possano diventare strumenti di forza anziché catene. Tra immagini potenti e momenti di vulnerabilità, Dose racconta la fatica di restare lucido in un ambiente fatto di apparenze, invidia e silenzi, dando vita a un brano introspettivo, denso e maturo, che unisce riflessione personale e attitudine rap come un monologo mentale in cui la verità si impone parola dopo parola.

     

    Spiega l’artista a proposito del brano: “Questo pezzo l’ho scritto in un momento di lucidità totale, quando ho smesso di scappare dai miei pensieri. Il demone che cito non è qualcosa di esterno, ma la parte di me che non volevo ascoltare. In studio ho lasciato andare tutto, senza cercare la barra perfetta o la metrica pulita: volevo solo che ogni parola pesasse il giusto. E un brano che rappresenta la mia crescita mentale il passaggio dal reagire al comprendere. Non parla di successo o di chi ho intorno, ma di come sto imparando a convivere con me stesso. Ed è lì che, paradossalmente, ho trovato più verità che in qualsiasi vittoria”.

     

    Biografia

    Dose inizia il proprio percorso musicale nel 2015, spinto dal bisogno di trasformare esperienze personali e stati mentali in parole. Con il tempo, la scrittura diventa per lui una forma di identità: un modo per mettere ordine tra caos, silenzi e scelte difficili.

    Dopo anni di ricerca e sperimentazione, negli ultimi due anni dà vita a una collaborazione nata da un’amicizia e diventata un progetto artistico solido, dove la spontaneità e la visione si incontrano. La sua musica non segue schemi o generi precisi: nasce dall’osservazione, dall’ascolto dei testi del passato e dalla capacità di reinterpretare ciò che lo circonda con autenticità e introspezione. Senza una formazione musicale accademica, Dose basa la propria forza sull’impatto delle parole e sull’istinto.

    Ogni brano diventa una confessione o una fotografia mentale. Tra i titoli più significativi della sua discografia spiccano “Emme Erre”, “Come la TV”, “Click Click Boom”, “Au revoir” e il recente singolo “Il demone che ho”, che segna una svolta più interiore e matura nel suo percorso artistico.

    Nonostante non abbia un team strutturato, si circonda di collaboratori fidati che lo supportano nella produzione e nella parte visiva dei progetti, mantenendo sempre un controllo personale e diretto su ogni dettaglio creativo. Il suo pubblico è trasversale uomini e donne tra i 18 e i 40 anni accomunato dal desiderio di trovare autenticità e riconoscersi in rime che parlano di realtà, di crescita e di resilienza. Con la sua musica, Dose racconta il conflitto tra luce e ombra, la lotta con sé stessi e la ricerca di equilibrio. Nei suoi testi convivono rabbia e calma, paura e lucidità, in un percorso che riflette l’evoluzione di chi non vuole solo “arrivare”, ma capire fino in fondo cosa significa essere vero.

    Il suo obiettivo è portare la propria arte al massimo delle possibilità, costruendo una carriera fondata su autenticità, coerenza e impatto emotivo. Per Dose, il tempo non è una scadenza, ma un mezzo: la musica è il viaggio, non la destinazione.

     

    “Il Demone che ho” è il nuovo singolo di Dose disponibile sulle piattaforme digitali di streaming dal 28 novembre e in rotazione radiofonica da venerdì 12 dicembre.

     

     

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  • Tutto è visibile, niente è leggibile: il nuovo singolo di Roberto Funaro entra in una delle questioni più urgenti del nostro tempo

    Chiudere gli occhi per difendersi non dal buio, ma da un eccesso di luce. È questa la prima immagine che Roberto Funaro sceglie per “Non credere a niente”, il suo nuovo singolo disponibile in tutti i digital store per Watt Musik. Il brano va ben oltre il semplice racconto di uno stato d’animo per intercettare, attraversare e riflettere una condizione ricorrente, che segna gran parte del presente e descrive il clima di questo momento storico. L’abbaglio, inteso come sovraccarico visivo, cognitivo, emotivo, è diventato una costante degli ultimi anni: tutto è disponibile, tutto è visibile, tutto è immediato, e paradossalmente proprio questo produce confusione, disorientamento, fatica.

    In questo quadro, la canzone introduce un tema osservato con frequenza dalle analisi culturali recenti: la difficoltà di distinguere ciò che merita effettivamente attenzione da ciò che si impone solo per intensità o insistenza; la sensazione di non sapere più dove concentrarsi in mezzo a una quantità di stimoli che arrivano tutti insieme. Funaro sceglie l’immagine della “troppa luce” per aprire una lettura culturale specifica: quando tutto è illuminato allo stesso modo, nulla è davvero comprensibile.

    Da qui prende forma il primo asse del pezzo: la sovraesposizione come condizione ormai familiare a molti. Un concetto tutt’altro che astratto, tradotto in una routine fatta di notifiche, confronti continui, iper-visibilità costante. Tutto arriva simultaneamente e in fretta, senza lasciare il tempo per costruire una direzione interna. Nel 2025, questo tipo di esperienza quotidiana non ha più bisogno di spiegazioni, perché è il punto da cui si cerca di ripartire.

    Il secondo livello riguarda il rapporto con il sé originario. “Non credere a niente” mette in musica un dialogo sotterraneo tra l’adulto di oggi e il bambino di ieri, trattato come controcampo critico anziché come riparo affettivo. Quella voce lontana, meno indottrinata, meno addestrata a “funzionare”, diventa l’unico luogo in cui le domande restano integre, senza venir soffocate dalla pressione e dalla frenesia esterne. All’interno di una conversazione culturale sempre più attenta alla formazione dell’identità e alla rielaborazione del passato, questa scelta assume una direzione inequivocabile: tornare al momento in cui le domande non erano ancora sovrascritte, in quella zona iniziale che oggi rischia continuamente di perdersi.

    Il terzo asse si lega ad un’altra sensazione molto discussa: la difficoltà a immaginare il futuro. «Non guardare avanti se non vuoi veramente vedere il futuro» è una constatazione sulla precarietà climatica, economica e relazionale che ha dato forma a una generazione — e non solo ai più giovani —, un’osservazione che guarda al domani con cautela, talvolta con timore, spesso con la sensazione che l’orizzonte sia sfocato. Funaro dà uno spazio a questa percezione, lasciandola scorrere dentro il brano come una delle realtà con cui oggi si convive.

    A questo si collega il quarto livello, legato al titolo. “Non credere a niente” non suggerisce rassegnazione, ma, al contrario, una presa di posizione verso un contesto che produce risposte rapide e narrative preconfezionate. Il brano mette in pausa la retorica del “credi sempre e comunque” e si muove su un terreno più essenziale: ascoltare, selezionare, diffidare delle versioni immediate delle cose. È una direzione coerente con il bisogno di orientamento che supera quello di motivazione, dopo anni in cui si è privilegiata la spinta a “fare”, ad aderire a qualsiasi promessa pur di non rallentare, senza chiedersi da dove arrivasse quella corsa e se avesse davvero senso per noi.

    Il quinto e ultimo livello riguarda la forma musicale. “Non credere a niente” è un pezzo dalla linea melodica pulita, avvolto da un arrangiamento – curato dallo stesso Funaro con Lorenzo Sebastianelli – che lascia respirare il testo, sorretto da una voce che sceglie un registro sobrio, utile a tenere il focus sulle parole. Le influenze del pop d’autore incontrano sfumature, contaminazioni R&B e colori più morbidi, creando una struttura che non sovrasta ma accompagna il movimento interno del brano. La musica diventa parte integrante del discorso, una cornice che permette al testo di trovare la sua naturale collocazione.

    «Avevo la sensazione che tutto fosse troppo esposto, troppo immediato, troppo visibile – racconta l’artista -. Ho scritto questo pezzo per recuperare un ascolto più intimo, che passa anche dal silenzio. Chiudere gli occhi non è una rinuncia, ma un modo per capire cosa mi appartiene e cosa no.»

    “Non credere a niente” è un punto d’incontro tra esperienza personale e clima sociale contemporaneo. Un brano che non si pone l’obiettivo di parlare del presente dall’esterno, ma lo vive dall’interno, dal momento in cui la luce, invece di chiarire, guidare e illuminare la strada, abbaglia. E la comprensione non arriva dal gesto simbolico di chiudere gli occhi, ma dalla necessità di ridurre il bagliore per recuperare una misura più chiara delle cose.

  • Quattro lingue per un’unica identità: il mosaico culturale di “Piramide”

    «Cu sì scanta rà muarti è un uamu muaittu. Cu arriesta pì com’è vivi pì siempri»
    Chi ha paura della morte è un uomo morto. Chi resiste per come vive, vive per sempre»)

    Dentro “Piramide” di Andrea Gioè c’è un figlio che parla al padre, un siciliano che ha vissuto lontano senza smettere di sentirsi tale, un uomo che ha attraversato gli affetti senza indulgere al sentimentalismo e un musicista che rifiuta di trasformare la criminalità organizzata in materiale da cartolina o in folklore da intrattenimento. Una pugnalata nel petto della retorica, spoglia del mito che trasforma la realtà in leggenda e il male spettacolarizzazione del dolore. C’è coscienza del passato, rifiuto dell’indulgenza e della compassione per restare nei fatti, nelle ferite, nella verità nuda e cruda.

    Sei brani scritti tra il 2004 e il 2017, mai pubblicati prima. Gioè li aveva custoditi come documenti di un tempo irrisolto, appunti di anni in cui le canzoni nascevano per necessità e non per pianificazione. Oggi diventano prova di resa e liberazione, un gesto di riconciliazione con sé stessi e con ciò che il tempo aveva lasciato in sospeso. Nessun ritorno al passato, ma il bisogno di consegnarlo alla luce, una volta per tutte. Ogni brano conserva la temperatura di un’epoca personale e socio-culturale in cui dire la verità significava rischiare qualcosa e la musica era ancora un posto, forse l’unico, dove dirla.

    Oggi che la Sicilia vive una nuova esposizione mediatica, tra mitizzazioni seriali e rischi di semplificazione narrativa, “Piramide” (A.G. Production / Pirames International), rifiuta la retorica della tragedia spettacolarizzata e interviene lontano da qualsiasi racconto idealizzato. Gioè riporta l’isola alla sua gravità: memoria, famiglia, lavoro interiore, responsabilità civile.

    Non è un archivio riaperto; è un disco che si mette in ordine e prende forma tra desiderio di cambiamento, rabbia composta, elegia, blues e soprattutto rock’n’roll. Con una scrittura diretta, nervosa, chitarre in primo piano e nessuna smussatura, nessun accomodamento. Il rock, semplicemente, torna a fare il lavoro per cui è nato: stare dalla parte di chi non abbassa lo sguardo. Un modo di tenere la schiena dritta, senza voltarsi dall’altra parte.

    E vi è una linea morale sottile che attraversa la Sicilia quando rifiuta di farsi mito o vittima. È la stessa fibra che, in altre forme e altri tempi, ha abitato Sciascia, le poesie ferite e fiere di Buttitta, la nudità lirica di Beppe Salvia, gli sguardi senza protezione di Letizia Battaglia. Non si tratta di un’eredità rivendicata, né di genealogia dichiarata, ma dello stesso modo, fermo e consapevole, di stare dentro la realtà delle cose, di chi conosce il peso dei fatti e il dovere di nominarli.

    L’uso intrecciato di quattro lingue – italiano, francese, inglese e siciliano –è il segno di una vita spesa a guadagnarsi lo spazio per esistere fuori, senza cedere all’autoesotismo né invocare ritorni salvifici.

    Il brano d’apertura, “Mafia”, è il punto da cui tutto parte. Scritto in francese e siciliano, nasce come denuncia della complicità culturale che circonda il potere criminale. Gioè sceglie il francese per la prima parte del pezzo, come a voler tenere una distanza linguistica da ciò che ferisce se è troppo da vicino, ma la distanza non attenua, semmai, amplifica.

    «Mafia c’est les larmes d’un homme obligé de quitter sa terre»
    («La mafia sono le lacrime di un uomo costretto a lasciare la propria terra»)

    In questa frase c’è già tutto: l’esilio, la vergogna, la resa di chi non può restare. La mafia intesa non solo come “male assoluto”, ma come sistema che divora i propri figli, che toglie pane, dignità e casa.

    «Mafia c’est un père qui se suicide parce qu’il sait plus comment la nourrir»
    («La mafia è un padre che si suicida perché non sa più come sfamare la famiglia»).

    Non è una provocazione, ma un fatto sociale che si cela dietro la retorica delle serie TV e delle leggende criminali. Gioè utilizza la sua penna e la sua voce per parlare di miseria e di disperazione quotidiana. È la traduzione più cruda e letterale di cosa significhi vivere sotto il peso della criminalità organizzata, quando il ricatto economico diventa asfissia esistenziale. Un uomo comune schiacciato da un sistema che non lascia via d’uscita, un padre che non sa più come sfamare la famiglia e sceglie di togliersi la vita. È l’effetto collaterale di un territorio abbandonato a sé stesso, senza alternative concrete, senza lavoro e mani tese, solo nel silenzio che presenta il conto finale.

    Nel passaggio «Tout le monde plaisante sur eux mais eux ne rigolent pas» («Molti scherzano su di loro, ma loro non scherzano affatto»), vi è la condanna al linguaggio collettivo che banalizza il male, che trasforma una ferita in battuta, una tragedia in copione da fiction. Gioè ricorda che dietro quella parola, per altri, c’è un funerale.

    E in «Réveille-toi! Rebelle-toi! Crie très fort: Vafanculu Mafia!» («Svegliati, ribellati, urla forte: vaffanculo mafia»), non c’è alcun grido politico, ma la stanchezza di chi ha finito le metafore, l’urlo di chi non ce la fa più a vedere il dolore trasformato in icona, la povertà in show. Il “Vafanculu” non è volgarità fine a sé stessa: è l’unica parola possibile quando la retorica non basta più, quando servono gesti netti e linguaggi diretti. È un atto di rottura, il rifiuto secco di ogni complicità.

    Il siciliano arriva alla fine, come una sorta di sigillo morale: «Cu sì scanta rà muarti è un uamu muaittu. Cu arriesta pì com’è vivi pì siempri» («Chi ha paura della morte è un uomo morto. Chi resiste per come vive, vive per sempre»). È la chiave filosofica del brano, l’eredità di chi ha scelto di non piegarsi. Non è eroismo romanticizzato, è la consapevolezza che la dignità si misura nella capacità di stare in piedi, qualunque sia il prezzo.

    “Mafia” non denuncia, constata. E nel suo modo asciutto e disperato, dice molto, perché non spiega niente ma mostra tutto. Una dichiarazione di rifiuto, non di odio, e soprattutto, la volontà di non normalizzare più.

    Poi arriva la title-track, “Piramide”, dedicata al padre. Un dialogo che attraversa la malattia, il lavoro, la fatica di rialzarsi dopo una perdita. «Rassegnare, dimenticare e ricominciare» – canta Gioè -, come chi depone la pietra più pesante per poter tornare a respirare. L’immagine della piramide è costruzione e crollo, impalcatura di vita che si sgretola e poi tenta di ricomporsi. C’è dentro la dignità di chi non si arrende, la malinconia di chi finge normalità pur sapendo che «quel finta fa sentire il nulla dentro te». Le due voci che si rispondono – Paolo Gioè in palermitano e Omar Bakhit in egiziano -, sono due idiomi diversi che si uniscono in un unico lessico, quello del ricordo che diventa linguaggio privo di geografie, culture e religioni. La chiusura – «Ciao Pà, ti voglio bene!» – non è un congedo, ma la forma più diretta di gratitudine e riconciliazione possibile.

    In “Un Sicilien”, Gioè mette al centro la condizione di chi parte senza smettere di appartenere. Non c’è culto delle origini, ma la consapevolezza concreta di chi porta la propria terra nel modo di guardare il mondo, anziché nei souvenir. Un «volcan d’énergie qui se lève toujours» («vulcano d’energia che continua ad alzarsi»), dove la sicilianità è un modo di stare nel tempo, nella lingua, nella responsabilità verso ciò che si è stati e si è ancora. La voce cambia Paese, cambia accento, ma non abdica a sé stessa. Essere “sicilien”, qui, è portare addosso un’origine senza farne vessillo né alibi.

    La luce arriva con “Never betray me (… Merry Christmas)”, focus track del disco accompagnata dal videoclip ufficiale presentato in anteprima su Sky TG24. Nata nel 2016 con la band francese Les Branlagats e oggi riarrangiata da Alex Vecchietti, è una canzone sul legame indissolubile tra artista e strumento – «My instrument never betrays me, you stay with me all my life» («Il mio strumento non mi tradisce mai, tu resti con me per tutta la vita») -. Una traccia che non parla solo di musica, ma della necessità di un linguaggio che non tradisca mai e su cui sia sempre possibile fare affidamento, anche nei momenti di smarrimento. Il Natale evocato nel titolo non richiama la festa, ma l’ironia dolente del tempo in cui tutti fingono pace, mentre l’artista sceglie, ancora una volta, la verità. Se “Mafia” metteva a fuoco la sofferenza, “Never betray me (… Merry Christmas)” ne indica la via di salvezza possibile: la musica come unico territorio che non tradisce. Un messaggio asciutto, quasi notarile: quando tutto il resto vacilla, la musica rimane.

    In “Io, noi due… mai più” Gioè parla d’amore, ma come identità scucita. Quando il sentimento crolla, non resta il romanticismo, ma la perdita del proprio perimetro umano.

    «Falsa partenza, questa vita qua. Rimango senza, un sogno dentro me. Ed io sono distrutto, non esisto più.»

    Non è la rottura tra due persone, ma tra l’uomo e la propria immagine. La vita continua, ma non nello stesso corpo. È un dolore che si scrive in levare, come un referto, quello di «un cuore di vetro» che «fragile scoppierà». L’uomo si scopre scarto, avanzo, residuo. Gioè guarda i cocci e non li raccoglie, perché sa che i vetri incollati non tornano trasparenti.

    L’EP si chiude con “Branlagats blues in Sib”, un pezzo blues che è frizione pura, con la «voglia di salvare la musica e salvare anche noi». Questa linea, che potrebbe sembrare dichiarativa, è in realtà un bilancio morale. Nessuna ambizione salvifica; solo l’ostinazione di chi si sente responsabile di un mestiere e della propria dignità. La musica è rappresentata nella sua essenza più alta, come un lavoro serio, come unico spazio dove l’integrità non si baratta. La «polemica quasi bulimica» citata dall’artista, rappresenta l’accumulo di ciò che non si può più ingoiare in silenzio. Nell’oggi che dilania e ingerisce tutto, anche il dolore, questo brano si rifiuta di essere digerito.

    «Non volevo più avere paura delle mie stesse canzoni – racconta Andrea Gioè -. Le ho scritte quando non era tempo di pubblicarle. Oggi sì. Non per una questione di ego, ma per responsabilità.»

    “Piramide” non parla di un artista che si specchia nei propri brani: parla di noi, di un Paese che dimentica e di un Sud che ancora troppo spesso si racconta solo quando serve a vendere. Gioè, invece, sottrae la Sicilia al mito e la riporta alla realtà: una terra che ferisce ma forma, un’eredità che ha un peso, ma un peso che si sceglie ogni giorno di reggere senza retorica, come si fa con ciò che non si eredita, ma si assume.

    «”Piramide” è per mio padre, ma anche per la mia terra. Ho imparato che si può restare siciliani anche da lontano, purché non si rinunci a dire la verità.» – Andrea Gioè.

    Tracklist:

    1. Mafia
    2. Un Sicilien
    3. Piramide
    4. Never betray me (… Merry Christmas)
    5. Io, noi due … mai più
    6. Branlagats blues in Sib


  • “Feeling Bleeding Rising Shining” è il nuovo album di inDARoots Project

    Dal 12 dicembre 2025 sarà disponibile sulle piattaforme digitali di streaming “Feeling Bleeding Rising Shining”, il nuovo album di inDAroots Project per altodischi/Blackcandy Produzioni dal quale è estratto il singolo in rotazione radiofonica “Changing worlds”.

    “Changing Worlds” apre l’album con un’euforia travolgente, descrivendo un amore che trasfigura la realtà.

    Immagini sinestetiche dipingono un mondo di pura esperienza sensoriale in cui chi ascolta si ritrova immerso, quasi come in un sogno. La traccia svela immediatamente il sound psichedelico che ha ispirato il nuovo lavoro degli InDARoots e apre la strada ai temi cari agli artisti: la forza del desiderio, la bellezza della trasformazione; l’importanza del perdere se stessi per poi ritrovarsi, arricchiti dall’esperienza dell’invasione di sé che ogni amore si porta dietro. Un’invasione che è croce e delizia, crudeltà e bellezza. In ogni caso, meraviglia.

    Spiegano gli artisti a proposito del brano: “Changing Worlds è nato sul mare, alla nostra destra la costa e all’orizzonte una distesa di acqua infinita. Il tema ostinato che si ripete, lo abbiamo suonato con un ukulele – l’unico strumento a nostra disposizione in quel momento – molte e molte volte, prima di poter vedere che effetto faceva trasportato sul contrabbasso. E così, la prima volta che lo abbiamo arrangiato e suonato nelle condizioni “definitive”, anche con i loop, con gli effetti sul contrabbasso e sulla voce, con il sintetizzatore, ci è sembrato quasi di tradire un vecchio amico. Poi abbiamo imparato ad amarlo anche “vestito”, ma tutte le volte che lo suoniamo, ci torna alla mente quello stato di grazia, quella distesa di acqua infinita e quella luce accecante che ci faceva strizzare gli occhi dalla quale tutto è partito, per poi arrivare qua. Trasformato, ma in fondo uguale a se stesso, mutato nella forma ma non nell’essenza, ostinato come quel tema sull’ukulele, crudele e innamorato.”

     

    Con l’album “Feeling Bleeding Rising Shining”, il duo InDaRoots (Gabriella D’Amico e Cristiano Da Ros) abbraccia la lingua inglese, ampliando la propria cifra stilistica in una dimensione di più ampio respiro. Il titolo racchiude la complessa e intima confessione degli artisti sulle emozioni dirompenti, che vengono rielaborate e trasformate in esperienze significative.

    L’esperienza di ascolto è un viaggio immersivo in cui il contrabbasso spazia tra groove pulsanti e melodie ipnotiche, mentre la voce dipinge atmosfere sospese tra sogno e realtà. Questo nucleo acustico è potenziato da un sapiente uso di texture elettroniche, create con loop, sovraincisioni ed effetti, che arricchiscono il sound “nudo” del duo.

    Rispetto al lavoro precedente, InDaRoots continua a esplorare le fragilità umane, ma con una prospettiva matura. La scelta dell’inglese, lingua dal lessico più astratto e franco, si dimostra ideale per veicolare emozioni non mediate. Questo permette all’ascoltatore di connettersi agli artisti più sul piano dell’evocazione sonora che su quello razionale della narrazione.

    Ogni brano diventa una “piccola storia universale” ricca di immagini vivide – dolorose, sensuali, oniriche – spingendo l’ascoltatore a confrontarsi con le proprie ombre e a risvegliare identità sopite. Il risultato è un’opera di profonda consapevolezza, a tratti malinconica e a tratti piena di vitale speranza.

     

    Commenta il duo sul nuovo album: Con questo nuovo album, abbiamo compiuto una scelta poetica prima che linguistica. Passare all’inglese non è stato un tradire le nostre radici, ma un cercare una nuova terra espressiva per quelle stesse radici. Abbiamo sentito che la lingua italiana, così ricca di storia e di peso specifico, a volte ‘raccontava’ troppo. I suoi significanti – il suono stesso delle parole – erano così legati a un immaginario culturale preciso da rischiare di distrarre dall’emozione che volevamo trasmettere. L’inglese, per noi, funziona come un significante più ‘trasparente’. Non è che le parole non abbiano significato, anzi. Ma il loro suono, la fonetica stessa, si fonde con la musica in modo più organico, quasi fosse uno strumento aggiunto. Le vocali aperte, le consonanti liquide diventano parte della texture del contrabbasso e dell’elettronica. Ci permettono di essere più astratti, più universali, di guardare un pò più da lontano anche noi stessi. Le parole non narrano più un’emozione. Piuttosto ne diventano il suono, la evocano, lasciando a voi l’esperienza diretta di sentirla, senza la mediazione di una storia troppo definita.

    Questo disco parla di trasformazioni profonde, di confini da valicare, di amori folli, di morti e di rinascite. Sono temi che sentivamo avessero bisogno di uno spazio vuoto intorno, di un respiro più ampio. L’inglese ci ha dato quel respiro. È il vestito sonoro perfetto per le nostre storie, perché non le chiude in una narrazione, ma le apre a infinite interpretazioni. È un album nato dal desiderio che la nostra musica parlasse un linguaggio universale, non per convenienza, ma per essenza.”

    TRACK LIST:

    1. Changing Worlds
    2. My Foolish love for you
    3. Hopes
    4. Alabama Monroe
    5. Five Shades
    6. In Rainbows
    7. Stormy Bounds
    8. Flower of love

    Biografia

    InDAroots è il progetto musicale nato a Milano nel 2016 dall’incontro artistico tra il contrabbassista jazz Cristiano Da Ros e la cantante Gabriella D’Amico. Il duo ha unito due percorsi musicali ricchi e strutturati per dare vita a una sintesi originale che fonde le rispettive radici jazz e classiche con la passione per la musica elettronica e d’autore.

    Il progetto è partito in acustico, ma ha rapidamente evoluto il proprio sound verso un’ibridazione che vede l’elettronica assumere un ruolo sempre più centrale, culminando nell’attuale cifra stilistica che si può ritrovare nell’album Feeling, Bleeding Rising, Shining.

    La loro musica mira a dipingere stati d’animo e paesaggi interiori, esplorando i temi universali della condizione umana – dalle fragilità dell’animo alla vertigine delle relazioni – attraverso testi evocativi e la fusione di suoni organici e digitali.

    Entrambi gli artisti hanno intrapreso il percorso musicale in adolescenza, sviluppandolo in modo indipendente prima di convergere negli InDaRoots:

    • Gabriella D’Amico ha una formazione vocale che spazia dal repertorio classico al jazz, linguaggio che ha approfondito come voce del Blue Time Society, un quartetto jazz attivo nella scena milanese.
    • Cristiano Da Ros vanta una solida formazione accademica jazz, con diploma in contrabbasso e studi al Berklee College of Music. Polistrumentista (suona anche chitarra e pianoforte), ha collaborato con nomi di spicco del jazz italiano contemporaneo come Dario Walid Yassa, Antonio Bonazzo e Francesco Chiapperini.

    Le reference musicali degli InDaRoots si collocano in un terreno ibrido:

    • Dal Jazz attingono alla potenza narrativa di Charles Mingus, all’approccio modale di Miles Davis e all’energia contemporanea di Esbjörn Svensson Trio (EST), Brad Mehldau e Avishai Cohen.
    • Dal Rock Psichedelico e Progressive prendono ispirazione dalla rivoluzione melodica dei Beatles, dalle esperienze sonore totali dei Pink Floyd e dal camaleontismo visionario di David Bowie e PJ Harvey.
    • Dall’Elettronica Colta sono attratti da producer che lavorano sulle atmosfere e la profondità (Moderat, Apparat, The Cinematic Orchestra, Jon Hopkins) e sono profondamente influenzati dalla visionarietà di Björk.

    Il loro pubblico è un target colto ed eterogeneo, che apprezza l’ascolto approfondito, la sperimentazione e la fusione di generi.

    Per conoscere il progetto, il duo suggerisce l’ascolto di brani come: “Di crepe, di sogni, di futili desideri”, “Shades of Freedom”, “Mordi e Sogna”.

    InDaRoots è attualmente supportato dall’agenzia di booking Anthill Booking e da Alessandro Gallicchio.

    “Feeling Bleeding Rising Shining” è il nuovo album di inDARoots Project per altodischi/Blackcandy Produzioni disponibile sulle piattaforme digitali di streaming dal 12 dicembre dal quale è estratto il singolo in rotazione radiofonica “Changing worlds”.

     

     

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  • “Il primo bacio sulla Luna” di Marino Alberti, un brano che parla del coraggio di essere leggibili e non enigmatici

    Negli ultimi mesi linguisti, psicologi e analisti del digitale stanno segnalando la stessa tendenza: nelle relazioni ci si parla molto, ma ci si dice poco. Le frasi arrivano tardi, le intenzioni vengono diluite, la chiarezza viene rimandata. È un comportamento che attraversa tutte le fasce d’età, con un impatto ancora più evidente nelle generazioni cresciute dentro la comunicazione continua.

    Nelle analisi più recenti sul modo in cui ci si relaziona, dalla gestione dei messaggi alla cautela nel dichiarare le intenzioni, molti studiosi stanno descrivendo una difficoltà crescente nell’esprimere i propri sentimenti. Una dinamica trasversale, che attraversa contesti e fasce d’età diverse e che molti considerano uno dei tratti distintivi della comunicazione contemporanea.

    In questo quadro si inserisce “Il primo bacio sulla Luna“, il nuovo singolo di Marino Alberti, cantautore e polistrumentista con oltre 2,5 milioni di stream, una carriera costruita su palchi di primo piano e collaborazioni di livello nazionale e internazionale (PFM, Loredana Bertè, Patty Pravo, Emma Marrone, Faso, Lewie Allen, Riccardo Kosmos).

    Il brano non tratta l’innamoramento di per sé, ma il momento in cui una persona decide di non muoversi più attorno alle proprie difese e sceglie di raccontarsi all’altro in totale trasparenza. Una scelta naturale solo a livello logico, ma che nella pratica di oggi raramente lo è.

    La scena da cui parte il pezzo – un bacio “sulla Luna”, lontano dalle cautele che regolano molti rapporti – non è un espediente, ma il modo di raccontare cosa avviene quando si interrompe l’abitudine a lasciare tutto in pausa e ci si assume il rischio di essere leggibili, chiari prima di tutto con sé stessi e poi con l’altro. Allo stesso modo, il verso portante, «Non c’è mistero se quello che provi è vero», contiene l’intero orientamento del brano. È un’affermazione controcorrente in un tempo che spesso premia la distanza come forma di autodifesa e considera la trasparenza un’esposizione eccessiva.

    La scelta della Luna, che nella cultura popolare è sempre stata un luogo di proiezione, traccia una dimensione in cui convivono promesse, sentimenti e possibilità. Fin dall’antichità, arrivando ai giorni nostri passando dall’allunaggio, la luna simboleggia tutto ciò che sembra irraggiungibile finché qualcuno non decide di oltrepassarlo.

    In questo brano, la sua funzione emblematica coincide con un altro importante aspetto, quello della sottrazione volontaria alle corazze che quotidianamente indossiamo per difenderci dal mondo. La luna diventa lo spazio dove le frasi non devono attendere il momento ideale per essere pronunciate, il luogo in cui l’incertezza smette di filtrare ciò che si prova davvero.

    La scrittura di Alberti entra in questo discorso in modo diretto, delineando un partner che non viene idealizzato né proiettato, ma percepito come figura quotidiana, riconoscibile, fatta di dettagli, esitazioni, singolarità che lo rendono prezioso senza mitizzazioni.

    Nel testo compaiono elementi che Marino utilizza per definire un contesto – crateri, ricami sui muri, la luna cucita sul petto –, volti a descrivere una generazione che alterna slanci immediati a ritirate improvvise, che chiede chiarezza e allo stesso tempo fatica a sostenerla.

    Tra essenzialità, attenzione al dettaglio e un arrangiamento che accompagna le parole del testo, “Il primo bacio sulla Luna” è un passo ulteriore in un percorso che negli ultimi anni ha mostrato una maturazione evidente, anche nel modo in cui Alberti inserisce la propria scrittura dentro il modo in cui oggi si ragiona sulle relazioni.

    Il brano anticipa nuove tappe del progetto discografico dell’artista, che proseguirà seguendo la stessa direzione: guardare le ombre, i tentativi di chiarezza, il continuo equilibrio tra bisogno di proteggersi e desiderio di essere compresi.

    “Il primo bacio sulla Luna”, porta l’ascoltatore a riflettere su un sentimento che potrebbe nascere se si smettesse di tenerlo prigioniero di insicurezze e retaggi culturali. Nel dibattito attuale sulle forme di comunicazione affettiva, offre un punto d’osservazione che coincide con molte analisi: il momento in cui la cautela smette di essere protezione e diventa distanza.

  • La generazione delle storie a metà: il debut album di Sergio Melone parla delle occasioni mancate

    È insegnante di inglese, attore – il pubblico lo ricorda nel ruolo di Eduard Zonte nella serie “Maggie & Bianca Fashion Friends” – content creator e cantautore. Con “Deleted Scenes”, il suo debut album, Sergio Melone riunisce queste dimensioni apparentemente distanti in un progetto che sintetizza la sua esperienza tra musica, didattica e racconto digitale: dieci brani (più un’intro) in lingua inglese che si muovono tra vita quotidiana e linguaggio cinematografico, con un’impostazione più adulta rispetto ai lavori precedenti.

    Il punto di partenza sono le scene che non vediamo. Quelle che si fermano prima di trovare una forma, che avrebbero potuto modificare una relazione e che invece sono rimaste e restano confinate nella memoria di chi le aveva immaginate. “Deleted Scenes” nasce da qui, dalle storie che non hanno fatto in tempo a diventare tali, dalle possibilità interrotte sul nascere, dagli inizi che non si sono mai trasformati in un capitolo vero e proprio.

    Il progetto discografico si incrocia con grande naturalezza alla sua attività di docente: insegnando, Melone si confronta ogni giorno con una generazione che vive relazioni brevi, discontinue, spesso interrotte prima di trovare una forma. Un’osservazione diretta che coincide con quanto emerso da diverse ricerche internazionali degli ultimi anni, secondo cui una quota crescente di rapporti, soprattutto tra i giovani, si ferma nelle primissime fasi, senza arrivare a definirsi come legami stabili. “Deleted Scenes” trova la sua collocazione proprio nella zona intermedia in cui molte relazioni oggi si muovono. Un territorio in cui le probabilità non diventano mai esperienza e che, proprio per questo, lascia una traccia più complessa di quanto appaia.

    Quello di Melone non è un album costruito sull’intimismo, ma un progetto che prende in prestito una categoria propria del mondo audiovisivo per leggere un fenomeno molto attuale. Le scene tagliate diventano un modo per osservare le relazioni che si arrestano prima di avere una direzione chiara e consentono all’artista di lavorare su questo terreno con una scrittura più solida e più definita, utilizzando l’idea di montaggio come cornice attraverso cui guardare ciò che rimane quando una storia non arriva alla sua versione definitiva.

    Il disco si apre come un archivio di momenti cancellati: frequentazioni che non hanno trovato la loro forma, messaggi rimasti senza risposta, capitoli che avrebbero potuto diventare altro se solo il tempo, il coraggio o una parola diversa avessero spostato l’asse della storia.

    Dentro questo archivio prende forma una sequenza di brani che, da prospettive diverse, tornano allo stesso punto d’origine.

    C’è l’istante in cui una relazione si spezza e la quotidianità perde orientamento (“Without Me”), il rimpianto che riemerge quando tutto è già svanito (“With Me”), la distanza resa come un’eclissi tra due corpi celesti (“The Sun and the Moon”), fino al peso delle parole che segnano un limite definitivo (“The Reason Why I’m Broken”). In altri momenti la grammatica del cinema diventa strutturale: la scena perfetta che vive solo nella mente (“My Perfect Movie Scene”), il dietro le quinte di quello che non è mai stato detto (“Deleted Scene”), la confessione di un sentimento che arriva troppo tardi (“Dear Lover”). E poi c’è lo spazio più intimo, quello del lutto, con “Hey Girl”, in cui l’assenza familiare continua a orientare la vita quotidiana; e la chiusura affidata a “A Million Stars”, che apre uno spiraglio senza forzare un esito consolatorio.

    «”Deleted Scenes” – dichiara l’artista -. Rappresenta quello che non ho vissuto fino in fondo. Le scene che avrei voluto vedere sullo schermo della mia vita, ma che non sono mai state girate davvero.»

    Il filo conduttore è la domanda che attraversa tutte le dieci tracce:

    Cosa resta delle persone che se ne vanno prima che la storia abbia una forma? E cosa resta di noi quando proviamo a mettere ordine tra le possibilità perdute?

    Il progetto alterna pop ballad intime e un linguaggio che guarda alla narrativa cinematografica più che alla retorica amorosa. Il montaggio diventa la chiave di lettura di un sentimento che si compone e scompone continuamente, lasciando fluire voci interiori, monologhi, tentativi di dialogo, frasi immaginate e altre che arrivano troppo tardi.

    “Deleted Scenes” porta nel pop una categoria tipica del linguaggio audiovisivo e la usa per leggere un comportamento molto contemporaneo: rapporti che si consumano prima di diventare storie. È in questa zona d’ombra, tra ciò che sarebbe potuto accadere e ciò che non ha avuto il tempo di accadere, che Melone struttura il suo lavoro più consapevole. Un album dove tutto avviene fuori dall’immagine principale: nelle parole che non arrivano, nei frammenti che continuano a incidere anche quando sembrano scomparsi. È in quella parte marginale — quella che di solito resta fuori campo e fuori copione — che Melone trova la sua scrittura più nitida.

    “Deleted Scenes” – Tracklist:

    1. Intro
    2. A Milion Stars
    3. Deleted Scenes
    4. The Reason Why I’m Broken
    5. With Me
    6. The Sun and The Moon
    7. Stay
    8. Hey Girl!
    9. My Perfect Movie Scene
    10. Dear Love
    11. Without Me

    “Deleted Scenes” – Track by Track:

    Intro. Un’apertura essenziale, quasi un varco: prepara l’ingresso nel mondo del disco, introducendo il tema centrale delle scene mancate e del non-detto.

    A Million Stars. Il vero e proprio inizio dell’album. Un brano che apre alla possibilità di ricominciare senza negare ciò che si è attraversato. Nitido, non consolatorio, quasi un nuovo inizio che non forza direzioni ma lascia respirare l’orizzonte.

    Deleted Scene. La title track, lo spazio simbolico in cui convergono tutte le storie dell’album. Il brano è un “dietro le quinte” sulle emozioni, tra ciò che si sarebbe potuto dire e ciò che non è mai stato pronunciato.

    The Reason Why I’m Broken. Il pezzo più duro dell’album, un atto d’accusa verso il peso delle parole e delle definizioni date con leggerezza. La struttura è tesa, frontale, quasi un fermo-immagine del cuore.

    With Me. Un brano che guarda al rimpianto con occhi meno ingenui. Qui Melone introduce il tema cardine dell’album: ciò che sarebbe potuto accadere se la storia avesse avuto una sola pagina in più.

    The Sun and the Moon. Distanza, idealizzazione, attrazione non corrisposta: il brano trasforma una metafora astronomica in un racconto sulla disparità di un sentimento che segna l’inizio di tante storie mai nate davvero.

    Stay. Una ballad che si muove tra il desiderio e il commiato, con immagini che sembrano provenire direttamente da un set cinematografico mai esistito.

    Hey Girl. Il capitolo più intimo del disco, un dialogo con un’assenza che non riguarda l’amore, ma il lutto. Una lettera che conserva la delicatezza delle storie familiari che continuano a parlarci anche quando non abbiamo più modo di rispondere.

    My Perfect Movie Scene. Qui entra in gioco la grammatica del cinema: la scena perfetta che vive solo nella mente di chi l’ha immaginata. Il brano è il manifesto del concept, tra illusioni narrative e sabotaggi interiori.

    Dear Love. Una confessione tardiva, una lettera che arriva dopo la fine. Il focus non è il rimpianto, ma il confronto con le proprie mancanze.

    Without Me. Il punto di fine e al tempo stesso di origine: l’istante in cui una relazione si frantuma e la quotidianità perde il suo suono. La canzone è un ritorno mentale agli attimi precedenti alla fine, con un linguaggio diretto che rende perfettamente l’impatto di un distacco improvviso.