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  • Dal silenzio forzato al racconto in musica: il singolo che apre una crepa nella retorica digitale

    Un uomo, il suo telefono fuso al volto, come se l’interfaccia fosse diventata pelle, anagrafe. Lo sguardo smarrito in un’arena digitale dove nessuno ascolta nessuno. Si apre così “Dimmelo”, il nuovo singolo di Raffaele Poggio per Orangle Records/Mendaki Publishing. Una diagnosi istantanea del tempo in cui la conversazione pubblica è ridotta allo scontro, l’empatia scade a seccatura, intralcio, e la presenza altrui viene percepita come collisione e possibile intrusione.

    Un brano nato dall’osservazione del dissesto della parola, dove le frasi vengono scagliate come detriti, la compassione ha ceduto il posto a una finta interazione, senza un effettivo interesse nei confronti dell’interlocutore, e la presenza non coincide mai con il punto in cui accade la vita. Siamo ovunque, simultanei, raggiungibili, notificabili, visibili. Eppure raramente intenti a noi stessi nel tempo presente. In una frase, parliamo moltissimo, ci ascoltiamo pochissimo.

    Poggio, anziché descrivere il fenomeno da una posizione esterna, con tono giudicante, ci entra dentro perché l’ha attraversato, perché quel meccanismo gli si è rotto tra le mani. La scorsa primavera ha subito una battuta d’arresto, una malattia improvvisa lo ha costretto a frenare, interrompere: un corpo che dichiara sciopero e dice basta, mentre tutto intorno tutto chiede accelerazione e disponibilità costante. Nessuna lezione edificante, nessun risarcimento consolatorio: un arresto. Netto.

    Anni trascorsi a controllare lo sguardo altrui, a misurare il proprio peso con un indice esterno, a presenziare ovunque — tranne nella stanza meno affollata di tutte, quella senza spettatori, senza notifiche, senza giudici. La stanza dove la domanda non è come sembro, ma come sto. La malattia ha fatto precipitare i decibel, abbassando drasticamente il volume. Ha tolto intermediari, aspettative, maschere sociali e qualsiasi tipo di sovrastruttura, riportando il discorso al suo punto di origine: il corpo, il respiro, la verità più scomoda da eludere.

    A fare da contesto al brano non c’è un sentimento generico di saturazione digitale, ma un fatto osservabile: negli ultimi anni la conversazione in rete si è contratta, polarizzata, irrigidita in schemi rapidi — reazione, schieramento, sentenza. I commenti superano sistematicamente la lettura dei contenuti, i thread accorciano il pensiero a etichetta, la risposta arriva prima della comprensione. L’infrastruttura del confronto si misura in velocità, non in scambio costruttivo. In questo frangente, “Dimmelo” offre una cartografia dell’impatto, a partire da un singolo individuo, un singolo corpo, un singolo cedimento.

    Colpisce che il brano esca proprio mentre il consumo di contenuti supera la soglia dell’interazione reale: le persone scorrono, scrollano e archiviano più di quanto si fermino ad approfondire, reagiscono più di quanto rispondano, rispondono più di quanto leggano. Un ecosistema che produce soggetti visibili, ma raramente presenti. Poggio prende questa immaterialità e la riporta a un metro non discutibile: un fisico che a un certo punto si arresta. Niente allegorie. Un limite. Tangibile.

    Il valore del progetto sta proprio nella scelta dell’unità di misura. Mentre ogni cosa viene tradotta in impression, visualizzazioni, reach, reazioni, “Dimmelo” sposta il contatore sull’unica variabile che l’algoritmo non può quantificare: il corpo, quando chiede tregua. La narrazione smette di essere un’osservazione sociologica svolta da lontano perché non parla della rete, ma di ciò che la rete non registra: ciò che accade quando il pubblico si spegne e resta solo una persona, seduta con il proprio silenzio.

    Non è un caso che la traccia non sia un atto di accusa, né un rifiuto del digitale. Poggio non smonta il sistema, non finge di starne fuori. Ne mostra la soglia di tenuta, il suo punto di interruzione. Quello in cui il pubblico e il privato collidono senza camuffamenti, la performance non ha più terreno dove appoggiarsi, l’immagine finisce e resta soltanto il peso reale delle cose.

    “Dimmelo” svela una microstoria del nostro tempo, perché anziché rappresentare la piccola bandiera di un singolo, funge da termometro di un clima, quello in cui l’intensità dell’esposizione supera la capacità di assorbimento. Un clima che non esplode mai del tutto, ma si manifesta in segnali minimi: un’interruzione, una pausa forzata, un ritmo cardiaco che modifica la scaletta.

    Il brano condensa tutto in una frase, la frase:

    «Non importa se cadi, basta che non mi sfiori»

    Sette parole che descrivono la grammatica relazionale di questi anni: il dolore tollerato a distanza, la fragilità altrui accettata come notifica, mai come contatto. Poggio non accusa e non si assolve: si include nel quadro e lo espone. Prende atto del nuovo contratto sociale non scritto: cadi pure, ma fora dall’inquadratura. Meglio il rumore bianco della connessione permanente che la scossa viva di una presenza non filtrata. Meglio aggiornarsi che attraversarsi.

    È qui che l’artista toglie ogni residuo teorico alla questione, perché invece di parlare del collasso digitale, parla del suo effetto più sottile: la progressiva abilità a non farsi toccare. A non farsi coinvolgere. A non farsi davvero trovare da nessuno, pur restando disponibili a tutti.

    «Il corpo, quando cede, è l’ultimo cancello – afferma -. È il punto in cui la discussione finisce. Stavo vivendo dentro un rumore che chiamavo continuità. Si era trasformato in una gogna di rendimento. La malattia ha avuto la brutalità del reset forzato.»

    “Dimmelo” diventa così la cronaca di un doppio cortocircuito, sociale e individuale: la tirannia dei numeri, l’autovalore misurato in algide percentuali, i silenzi interpretati come verdetti, le porte che non sbattono ma restano socchiuse — e proprio per questo feriscono di più. Una rincorsa ininterrotta al “meritare”, al non sembrare mai insufficienti, al non sbagliare mai il passo. Una rincorsa che porta a crolli psicologici e fisici, che erode anche l’area più sensibile, quella affettiva, a cui crollano le impalcature reggenti e circostanti.

    Ad amplificare il discorso è il social video ufficiale, firmato Knowhere Studios, in cui l’iconografia religiosa diventa la lente per raccontare il nuovo culto del giudizio perenne, un tribunale che non prevede assoluzioni. Nel video, lo smartphone non è accessorio, ma prolungamento biologico, epidermide innestata, secondo volto: uno strumento di connessione più potente della connessione stessa, simbolo di un potere che avvicina e al tempo stesso schiaccia.

    A livello sonoro, il brano — prodotto agli Head Studios di Torino da Luca Testa, composto con Riccardo Novarese e scritto dallo stesso Poggio a quattro mani con Matteo Ferrari — sceglie un pop elettronico pulsante, dove la partitura ritmica spinge in avanti anche quando il testo frena e ammette il cedimento. È un pezzo che invita al movimento ma non concede l’evasione: si balla, sì, ma con una lama di disincanto nel ritorno di cassa.

    Il brano entra nel percorso live THE ENERGY PARTY, dove l’artista mette in sequenza repertorio proprio e canzoni dagli anni ’70 ai 2000. Un metro comparativo tra l’immaginario di epoche che prevedevano inciampi, pause, sparizioni momentanee e un presente che ammette solo presenza continua, piena all’apparenza ma completamente svuotata nella sua essenza.

    “Dimmelo” si ferma esattamente nel punto in cui il corpo ha fermato tutto il resto. Per questo, non arriva come risposta, ma come inversione di domanda: anziché chiedere cosa stiamo guardando, chiede cosa stiamo disimparando a sentire. E lascia tutto sospeso, perché è lì che viviamo: in sospeso. Connessi ma distanti, visibili ma assenti, parlanti ma mai ascoltati e in ascolto. È un pezzo che non parla dal centro del palco, ma dal punto in cui le luci virano, si abbassano e mostrano il bordo delle cose. Quello dove il pubblico smette di essere folla e torna persona, una per una, senza schermo in mezzo.

    E in quel cambio di temperatura dell’aria, Poggio si allontana da prediche futili sulle disconnessioni salutari per portare una constatazione nuda, raccontando il momento in cui il sistema si inceppa – non quello digitale, quello corporeo. Perché il futuro della connessione non si decide nell’ennesimo aggiornamento di un’app, ma nel microsecondo in cui qualcuno, finalmente, alza lo sguardo e incontra, anziché identificare.

  • Inclusione e riconoscenza: Raffaele Poggio canta “Grazie” e fonde musica e linguaggio dei segni

    Una parola semplice, spesso trascurata, sottovalutata e data per scontata, ma capace di cambiare prospettiva, irradiando luce anche nelle giornate più cupe ed ordinarie, con la forza che racchiude in sé: “Grazie”. Con il suo nuovo singolo, disponibile in tutti i digital store per Attic Records/Altafonte Italia, il cantautore, attore e showman torinese Raffaele Poggio invita il pubblico a riflettere sul potere della riconoscenza, restituendo significato ai gesti quotidiani e mostrando come la gratitudine possa mutare in un atto di intima connessione.

    Ma cosa significa davvero ringraziare? E cosa accade, dentro di noi, quando ci fermiamo a dire “Grazie”? Ringraziare significa rallentare, riconoscere e apprezzare ciò che di prezioso abbiamo ricevuto, riscoprendo la virtù trasformativa di una parola che unisce e accorcia le distanze. E quando ci spogliamo di orgoglio e timori, e ci ricordiamo di esprimere riconoscenza, dentro di noi accade qualcosa di straordinario: attiviamo un processo che stimola la produzione di serotonina e dopamina, i cosiddetti ormoni della felicità, creando un senso di appagamento, gioia e benessere. Ringraziare non è quindi solo un gesto verso chi ci circonda, ma un atto che cambia il nostro stato mentale, aumentando la consapevolezza del presente, e rafforzando i legami.

    In un momento storico in cui le relazioni si frammentano e la velocità della quotidianità spesso ci distrae dal valore dei gesti più semplici, “Grazie” si fa spazio per la sua immediatezza e per una sincerità d’intenti a cui è impossibile rimanere indifferenti. Il brano, scritto dallo stesso Poggio e composto e prodotto da Stefania Tasca, si sviluppa intorno a un ritornello diretto e memorabile, che, ripetendo 9 volte il suo titolo, diventa un mantra per spostare il focus su quei momenti che spesso passano inosservati, ma che definiscono il senso del nostro esistere.

    “Grazie” è un progetto che trova il suo effettivo compimento sotto l’aspetto visivo, perché è il videoclip ufficiale che lo accompagna a fare la differenza: diretto dai Knowhere Studios, utilizza il linguaggio dei segni per sottolineare come la gratitudine possa superare ogni barriera. I gesti diventano protagonisti, rendendo una canzone un collante tra mondi che raramente si incontrano nella musica mainstream.

    «Volevo che questo progetto andasse oltre la musica – racconta Poggio -. Il linguaggio dei segni è un omaggio a chi ogni giorno trova modi alternativi per comunicare emozioni e sentimenti. È nei dettagli che la gratitudine diventa tangibile. Ho tratto ispirazione da una storia personale che mi ha colpito profondamente. Ho avuto il piacere di conoscere Dario, un giovane fan che ha perso l’udito e ha gravi problemi di vista, ma che nonostante ciò è un appassionato di cultura. Non potendo ascoltare la mia musica, Dario legge i contenuti e gli articoli che ne parlano. Per lui, e per tutti coloro che affrontano difficoltà simili, ho cercato rendere il mio messaggio più accessibile, dimostrando che la musica può arrivare anche dove le parole non riescono».

    Una narrazione sonora e visiva che glorifica l’amore in tutte le sue forme, un simbolo di apertura e inclusione che incoraggia a superare le barriere comunicative e tutti quei confini che, molto spesso, sono definiti solo dalla nostra mente.

    Ma “Grazie” non è una dedica a senso unico, bensì un invito a chi ascolta a ritrovarsi in quelle frasi che troppo spesso dimentichiamo, o ci vergogniamo a pronunciare, e in quei motti di affetto che quotidianamente passano inosservati, tra priorità accessorie e rincorse utopiche. Frasi e attenzioni che vanno ben oltre l’essere un omaggio alla persona amata, agli amici, alla famiglia, diventando una chiamata all’azione volta a valorizzare i piccoli gesti che rendono speciale ogni rapporto.

    Contemporaneamente al lancio del singolo, Raffaele Poggio continua il suo percorso artistico con nuovi progetti e appuntamenti live. Tra i più attesi, il “Latin Project”: un’esplorazione musicale che unisce grandi classici latini e brani originali. Inoltre, ogni venerdì sera, l’artista si esibisce al MI AMOR VIP CLUB di Torino nello show Magic Boys, un’esperienza unica che fonde energia, musica e intrattenimento.

    Torinese di nascita e anima latina per vocazione, Raffaele Poggio è un creativo poliedrico e instancabile, che non smette mai di cercare nuovi modi per raccontarsi e raccontare. Con “Grazie”, conferma la sua capacità di trasformare la semplicità in qualcosa di straordinario, invitando il pubblico a riscoprire il potere di una parola che, oggi più che mai, merita di essere pronunciata, espressa e vissuta.