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  • Jack Scarlett sfida il perbenismo italiano con “Il Corpo del Diavolo”, il suo nuovo inno queer

    Uno sguardo che brucia, una pulsione che divora. “Il Corpo del Diavolo” è il nuovo, coraggioso singolo di Jack Scarlett, attivista LGBTQ+ tra gli artisti più talentuosi e fuori dagli schemi della nuova scena pop italiana. Un racconto in bilico tra erotismo maschile e dinamiche tossiche che affronta senza retorica né censure il tema del desiderio omosessuale, elevandolo a narrazione sociale, poetica, politica e – inevitabilmente – provocatoria.

    Scritto dopo due relazioni intense e dolorose, non è un brano d’amore, ma un viaggio nell’ossessione ripetuta e autoctona. Nessun moralismo, nessuna richiesta di empatia: solo la necessità di rappresentare il proprio inferno – e di attraversarlo. «Assaporando il corpo del diavolo» diventa allora una resa consapevole, ma anche un atto di riscatto. Una confessione autobiografica che non cerca filtri né redenzione. E che culmina in una scena erotica esplicita – rara nel pop italiano, trattata con sguardo artistico, non compiacente.

    Qui il male ha un nome, ma non è un mostro: è il volto di chi ti stringe e ti consuma. La figura di Lucifero, lungi dall’essere satanica, è simbolo di un amore che affascina e distrugge. Jack Scarlett lo definisce “il principe della mia favola”, rovesciando la narrazione tradizionale e chiedendosi – con sguardo spietatamente onesto– chi siano davvero i buoni.

    La società del decoro, quella bigotta e perbenista, viene spogliata delle sue ipocrisie: mentre condanna chi ama in modo non convenzionale, non vede – o finge di non vedere – la violenza che si nasconde dietro la normalità, quella che si alimenta nel silenzio delle relazioni eteronormate.

    Prodotto da Yanomi (già per Alfa, Olly e molti altri) e Blame, “Il Corpo del Diavolo” si muove tra R&B, dark-pop e contaminazioni elettroniche. La scelta più radicale? L’inserimento di un coro di bambini dell’associazione L’AMACA di Milano. Una decisione che, abbinata al tema, ha già acceso il dibattito. L’accostamento tra purezza infantile e racconto esplicito del desiderio omosessuale ha sollevato critiche nei circuiti più conservatori – qualcuno parla già di “satanismo”. Ma per Jack non è una trovata scandalistica: è un modo per rompere i confini del pregiudizio e ribaltare i codici della narrazione dominante.

    Una provocazione? No, o almeno non del tutto. Una strategia comunicativa perfettamente consapevole, che cerca di far emergere – per contrasto – i paradossi dell’indignazione pubblica, smontando la retorica del finto scandalo e mettendo lo specchio davanti a chi si indigna a comando.

    Secondo l’ultimo report di ILGA Europe, l’Italia è al 34° posto su 49 paesi europei per tutela dei diritti LGBTQ+. Il dato peggiore riguarda l’educazione affettiva nelle scuole, spesso assente o fortemente osteggiata. In questo vuoto educativo e sociale, l’arte – e la musica – assumono un ruolo cruciale.

    Nel videoclip ufficiale, diretto da Brace Beltempo, Lucifero diventa un supereroe queer: non il carnefice, ma il salvatore. Il video celebra chi è stato definito “freak” o “diverso” e capovolge le categorie del giudizio. Chi discrimina, qui, ha il volto dell’ipocrisia. Chi viene condannato, rivendica la sua libertà. A interpretare Lucifero è Alex Nardelli, modello di nudo artistico, il cui volto incarna alla perfezione la visione del personaggio: «Sembra uscito dal quadro di Alexandre Cabanel – dichiara Jack Scarlett -. È il mio Lucifero ideale: un angelo caduto che conserva intatta tutta la sua bellezza.» Nella copertina del singolo, la somiglianza con l’iconica opera ottocentesca è immediata.

    In un momento storico in cui il linguaggio dell’odio guadagna spazio mediatico e politico, “Il Corpo del Diavolo” arriva come atto artistico dirompente, che parla di carne, passione, ma anche di liberazione, riconciliazione e affermazione: personale, sentimentale, identitaria.

    Quella di Jack Scarlett è una battaglia quotidiana contro l’omofobia e il conformismo:

    «Avevo bisogno di raccontare il più grande cliché – conclude -: restare in una relazione che ti consuma. Il diavolo era l’unico modo per darne dignità. Il coro infantilizza l’ombra, perché se si condanna il sacro si capisce cosa si teme davvero: l’istinto, l’istigazione, la verità.»

    Dopo il successo di “Io sono unico”, “Discorsi a metà” e “Senza più perdermi”, brani manifesto contro il bullismo omofobico, Jack Scarlett si conferma come una voce centrale dell’attivismo LGBTQ+, proponendo un dialogo con le istituzioni e la comunità.

    Con “Il Corpo del Diavolo” porta l’erotismo queer al centro del dibattito pubblico, in un’Italia dove – secondo Arcigay – il 62% delle persone LGBTQ+ ha subito almeno un episodio di discriminazione nel corso della vita, ma solo l’8% lo ha denunciato. In un clima simile, ancora ostile a ciò che viene percepito come “diverso”, esporsi è una forma di resistenza, raccontarsi diventa una presa di posizione, e rappresentarsi significa anche difendersi.

    Il cantautore milanese, con questo nuovo brano, rilancia il discorso queer in Italia: un discorso che non si accontenta più della visibilità, ma reclama spazio, ascolto e legittimità. Dal divieto di amare al diritto di raccontarlo senza filtri, questa canzone urla ciò che la società prova ancora a censurare: che il desiderio è legittimo, anche quando brucia. È un gesto culturale, uno specchio provocatorio che interroga una collettività spaventata dal contatto, dall’istinto e dalla libertà.

  • Un festival per la vita: la musica italiana si mobilita per la donazione degli organi in memoria di Bea

    Era il 27 maggio 2023 quando Beatrice Zaccaro, 17 anni, ha perso la vita in seguito a un tragico incidente stradale nei pressi di Cantù. Una ragazza sensibile, determinata, altruista, capace di cogliere le sfumature delle persone e delle cose. Nei giorni più difficili, i suoi genitori – Massimiliano e Grazia – hanno scelto di compiere un atto d’amore, rispettando una volontà che Bea aveva espresso in vita: donare i suoi organi, salvando così quattro vite.
    Un’azione concreta e coerente con l’animo generoso di Bea, che credeva nel valore dell’altro e nella possibilità di fare la differenza attraverso le nostre scelte quotidiane.

    Da quella decisione è scaturito un impegno: trasformare il dolore in qualcosa che potesse servire ad altri.

    Così ha preso forma BeaVive, un’associazione che ne porta avanti la visione, con progetti dedicati all’ascolto dei giovani, alla prevenzione del disagio e alla diffusione di una cultura del dono.

    Dalla stessa consapevolezza, e da un intreccio di responsabilità e amore, nasce il BeaLive Festival, in programma sabato 6 settembre 2025 in Piazza Garibaldi a Cantù: un grande evento musicale e sociale, aperto a tutti, con la partecipazione di artisti noti, emergenti e istituzioni.

    Organizzato da BeaVive con il patrocinio del Comune di Cantù, il festival è pensato per ricordare Beatrice attraverso la forza più aggregante che esista: la musica. Un modo per dire che, in fondo, Bea è ancora qui. La sua storia ha commosso l’Italia e la sua luce, ora, vuole accendere quella degli altri.

    Dalle 16:00 alle 23:30, Piazza Garibaldi diventerà il cuore vivo di Cantù: un grande evento musicale a cielo aperto, un abbraccio collettivo pensato per unire arte e comunità nella memoria di Bea e nell’impegno costante dell’associazione che porta il suo nome.

    Sul palco si alterneranno grandi nomi della musica italiana e artisti emergenti, in un susseguirsi di suoni, voci e performance che, ciascuna a modo proprio, restituiranno il senso di ciò che Bea ha rappresentato per chi l’ha conosciuta, e di ciò che può continuare a rappresentare oggi, ispirando tutte le persone che ne raccolgono l’eredità.

    A esibirsi – tra gli altri – Studio 3, Simone Tomassini, Albe, Moreno, Blind, Grido, Greta Ray, BlckDawg, Veronica Cece, Francesco Facchinetti, Shaza, Shock, Daniele Stefani e DJ Jad.

    Il pre-serata, che darà la possibilità a giovani talenti di supportare questa importante causa con la loro sensibilità artistica, sarà condotto da Giulia Sara Salemi. A seguire, la serata principale vedrà alla conduzione Vanessa Minotti e Luca Rossi, volti noti del panorama musicale e televisivo.

    L’evento è organizzato in collaborazione con Greys Company ed Extreme Digital Production, con la direzione tecnica di Massimiliano Cenatiempo e la direzione artistica di Daniele Atlante. L’identità visiva e la comunicazione social del festival sono curate rispettivamente da Greta Giussani e Beatrice Folloni, per conto delle due realtà produttive coinvolte.

    Il palco, di dieci metri per otto, sarà dotato di impianti audio professionali ed effetti luce scenografici, per offrire al pubblico un’esperienza immersiva, curata in ogni dettaglio.

    Bea vive. E continuerà a farlo.

    Il festival è il primo grande evento dell’Associazione BeaVive, fondata da Massimiliano e Grazia, i genitori di Beatrice. La missione è chiara: trasformare il lutto in aiuto concreto. Il ricordo di Bea sarà il filo conduttore di tutta la serata. Un ricordo che, grazie a un gesto d’amore dei genitori, ha già salvato quattro vite – e che, con ogni progetto portato avanti in suo nome, potrà continuare a salvarne molte altre.

    Il BeaLive Festival sarà anche un momento di comunità e condivisione: area food con street food d’eccellenza, merchandising solidale (t-shirt, bracciali, gadget) e spazi d’incontro. Tutto il ricavato dell’evento andrà a sostenere le attività dell’associazione.

    Fondamentale il sostegno del Comune di Cantù, in particolare della Sindaca Alice Galbiati, dell’Assessora Isabella Girgi, dell’Ufficio Cultura e delle strutture comunali coinvolte. Un ringraziamento sentito va anche alle attività il cui contributo ha reso possibile la realizzazione di un evento di questa portata.

    «Questo concerto è il nostro modo per dire che Bea è ancora qui. In ogni canzone. In ogni abbraccio. In ogni vita che potrà essere salvata anche grazie a lei. La musica non cambia il passato, ma può accendere il futuro.»
    — Massimiliano Zaccaro e Grazia Tagliabue.

  • Il satellite più pop ritrova la sua iconicità con “Luna Calamita” di Iside

    Dalle copertine di Vogue alle playlist globali, la luna è tornata al centro dell’immaginario pop. Nelle ultime stagioni è ricomparsa nei visual di moda, nei testi musicali e nei videoclip, evocata come simbolo di trasformazione, mistero e desiderio. Ma mentre molti la trattano come sfondo onirico o totem estetico, la cantautrice sarda Iside fa una scelta più radicale: in “Luna Calamita” (Daylite/The Orchard), il suo nuovo singolo, la trasforma in un diario. Intimo, silenzioso, essenziale. Non un oggetto di scena, ma una presenza costante: che ascolta, e raccoglie tutto ciò che non trova voce.

    Magnetica e distante, la luna attira da sempre i sognatori, con i loro desideri e aspirazioni, come un campo gravitazionale invisibile. Dai set lunari di Vogue Korea ai concept visivi di artiste come Billie Eilish, Rosalía e SZA, il satellite è tornato protagonista del linguaggio contemporaneo: non più solo simbolo romantico, ma archetipo di trasformazione, femminilità e mistero. Negli ultimi anni, questo immaginario ha invaso videoclip, scenografie live e interi concept album, rivelandosi una delle icone più ricorrenti nella cultura pop recente. Un ritorno che attraversa i linguaggi: da “Fly Me to the Moon” – brano diventato standard grazie a Sinatra, e oggi anche titolo di un film hollywoodiano del 2024 – la luna continua a ispirare canzoni, copertine, e pellicole cinematografiche.

    Iside lo sa bene e lo canta – «Chiudo gli occhi, spengo il cell. Luna calamita, attira tutto anche me» – con una voce che sa di sale e vento. Il testo, scritto da lei stessa, non è solo il resoconto di un amore spezzato; è il ritratto di chi, nel cuore della notte, cerca un angolo di buio per riconoscersi. Non una ballad nostalgica né un esercizio di stile, ma un pezzo che si muove tra Afrobeat, pop e R&B, sottraendosi consapevolmente ai cliché estivi. Perché per Iside la luna non è solo un emblema da contemplare, ma uno spazio in cui rifugiarsi. Non serve a creare atmosfera, ma a tenere insieme ciò che si spezza. È silenziosa, ma centrale. È il punto fisso attorno a cui ruota una voce che trova la sua forza proprio in ciò che resta in ombra.

    Anche grazie alla produzione di Kidd Reo, Krade e Young Cruel, “Luna Calamita” percorre un immaginario notturno, introspettivo, che predilige pause e mezzi toni al ritmo frenetico dei tormentoni. Dentro ci sono le relazioni di oggi, fatte di spazi vuoti, telefoni sempre accesi, silenzi che non trovano più il loro margine d’espressione e, quando lo fanno, pesano più di mille parole. Perché ci mettono a disagio, perché, abituati come siamo a rifuggire la noia e la nostra stessa presenza, sono il rumore più difficile da sopportare.

    Per capirlo, basta leggere questi versi: «Le possibilità son 0002. Nella stanza il letto è separato in due. Le mani fredde sulle tue, i litigi delle 02». Non ci sono grandi discorsi sull’amore. Solo la realtà di chi convive con distanze che nemmeno la vicinanza fisica riesce a colmare; una riuscita sintesi dei rapporti amorosi figli del nostro tempo, fatti di case, stanze e letti condivisi ma menti lontane, notti frammentate tra il bisogno dell’altro e il desiderio di allontanarsi per conoscersi – e, finalmente, riconoscersi.

    «La Luna, per me, è sempre stata una presenza che attira i pensieri e i desideri, anche quelli che non sappiamo confessare nemmeno a noi stessi – racconta Iside –. Non è solo una metafora, è un po’ come un riflesso muto, qualcosa che c’è sempre ma che non pretende attenzione. In quelle notti, nella mia stanza, avevo bisogno di silenzio. È da lì che è nata questa canzone: non da un evento preciso, ma da una sensazione che tornava ogni volta che guardavo fuori dalla finestra.»

    E in tutto questo, la Sardegna non è uno sfondo, né una cartolina da Instagram. È le onde che brillano sotto il cielo stellato, le scogliere che sfidano il maestrale, il luogo da cui si parte e a cui si torna quando serve stare lontani da tutto. È un epicentro. Con un aumento del 35% nelle produzioni musicali locali (FIMI, 2025), l’isola sta riscrivendo la mappa della musica italiana. Iside è una delle sue voci, contribuendo a quella scena locale che oggi non ha paura di parlare con voce propria.

    Il videoclip ufficiale che accompagna il pezzo, diretto da Matteo Varchetta e Kidd Reo, lo conferma: niente spiagge patinate, ma un’isola viva, che guarda il mondo dritto negli occhi.

    «In fondo, questa canzone parla anche di una forma di leggerezza – conclude l’artista -. Non quella che serve a distrarsi, ma quella che arriva quando smetti di forzare tutto. È una leggerezza che non ignora il peso delle cose, ma lo accoglie. Non è una fuga: è una piccola pausa consapevole, un modo per tornare a sentirsi interi, anche solo per un momento.»

    E proprio come la luna, che cambia ogni notte pur sembrando immobile, il brano coglie quella trasformazione silenziosa che spesso sfugge allo sguardo. Non c’è un climax, né una risoluzione. Solo l’onestà di chi si concede un momento per ascoltarsi. Niente cocktail o cliché da vacanze social, ma camere semi-buie e pensieri che restano addosso come il caldo umido di luglio. Un’estate vissuta nel cuore delle città, tra finestre aperte e silenzi interrotti da notifiche.

    Con un’estetica che richiama le atmosfere notturne della new wave pop internazionale, filtrate attraverso lo sguardo di una giovane artista italiana cresciuta tra i paesaggi di Olbia e le playlist globali, “Luna Calamita” non si rivolge a chi ha sempre tutte le risposte, ma a chi non ha paura di restare in ascolto. A chi, tra le sue tante domande, ogni tanto sceglie di perdersi. Non per cercare soluzioni, ma per abitare meglio i propri pensieri.

    E in queste notti d’estate, mentre la luna continua ad attirare pensieri e sognatori, c’è chi – ascoltando questo brano – potrà finalmente dare un nome a quel senso di attrazione inspiegabile che ci tiene svegli quando il mondo dorme. Invitandoci, implicitamente, a fermarci, anche solo per il tempo di una notte, e chiederci chi siamo quando nessuno ci guarda.

  • La musica di Vi Skin continua a dare voce a chi non si sente mai abbastanza: il nuovo singolo è “Non è male (Studio Version)”

    «La vita è un gioco che non so giocare. Tanto vale che mi lasci andare». Comincia così “Non è male (Studio Version)”, il nuovo singolo di Vi Skin, cantautrice che negli ultimi anni ha saputo conquistare l’attenzione di pubblico e critica alternando brani di taglio intimista e personale come “Sei”, “Nei Guai”, “Calamita” e il recente “Mi avevi perso già” – una riflessione sul rapporto padre-figlia e sul percorso per imparare a bastare a se stessi – a inni sportivi quali “Amore Incondizionato” e “Ho scelto di vincere (We’re an only thing)”, dedicati all’Inter, la sua squadra del cuore, con cui ha emozionato migliaia di tifosi e preso parte a eventi ufficiali della società nerazzurra. Con questo nuovo lavoro, l’artista ciociara sceglie di pubblicare in piena estate una canzone fuori dagli schemi stagionali, senza ritmi da tormentone né parole leggere. Una decisione controcorrente, ma necessaria, che parla a chi, proprio quando tutto sembra spingere verso la spensieratezza, continua a interrogarsi, a cercare senso, a fare i conti con le proprie inquietudini e con il bisogno, spesso inascoltato, di fermarsi a respirare.

    Mentre l’immaginario collettivo invita a vivere questi mesi come evasione obbligata, Vi Skin riporta l’attenzione sul valore del dubbio e sull’importanza di accettare il fallimento, di accogliere l’errore come parte del percorso. “Non è male (Studio Version)” diventa così una risposta implicita a quella cultura della performance e del controllo che, secondo il 58° Rapporto Censis, riguarda il 58 % dei giovani (18‑34 anni) che si sente fragile e il 51,8 % che dichiara di soffrire di stati d’ansia o depressione. Un ritratto che conferma la crescente difficoltà di convivere con l’incertezza e l’imperfezione tra i più giovani, sempre più esposti alla pressione di dover essere impeccabili e vincenti.

    Il brano nasce in un pomeriggio qualunque, ma si misura con interrogativi concreti, domande che, prima o poi, attraversano la mente di chiunque cerchi di restare a galla tra aspettative e realtà: fino a che punto possiamo controllare ciò che viviamo? E cosa accade quando smettiamo di farlo? La risposta arriva, limpida, in un verso:

    «Devo imparare che sbagliare in fondo non è male.»

    Con questa frase, Vi Skin toglie il superfluo e porta in primo piano le parole e la loro fragile verità. La scelta di una “Studio Version” minimale non è solo stilistica, ma funzionale a mettere in risalto il senso e il peso di ogni verso: il focus resta sul messaggio, sui pensieri più immediati, sinceri e difficili al tempo stesso, quelli che in molti tengono per sé e pochi trovano il coraggio di ammettere, perfino a sé stessi.

    La canzone si snoda tra le contraddizioni di un amore sbilanciato, in cui la libertà di uno diventa il confine, il limite dell’altro – «La mia libertà la tua ossessione, la tua gelosia la mia prigione» -.

    «Frammenti che mi compongono», canta Vi Skin, dipingendo nel bianco e nero del suo pianoforte un’immagine, quella che racchiude l’essenza del pezzo: l’idea che siamo fatti di parti sparse, contraddittorie, a volte spezzate, e che proprio da quelle imperfezioni prende forma la nostra identità. Non esiste un’unità perfetta, ma un insieme di pezzi che, accettati e ricomposti, danno vita a qualcosa di unico.

    Dietro una melodia elegante, delicata e attraversata da una sensibilità rara, si cela il racconto di una relazione tossica, fatta di incomprensioni e privazioni, dove la passione per la musica viene vissuta dall’altro come una minaccia, non come una risorsa. Un’esperienza personale che Vi Skin sceglie di trasformare in un messaggio costruttivo, come lei stessa dichiara

    «Ho vissuto una relazione in cui la mia libertà veniva vissuta come una minaccia, la mia felicità ignorata, e la mia passione – la musica – non veniva accolta. Ho dato tanto, ho cercato di rendere il mio cuore un posto accogliente, ma ho ricevuto solo briciole. Anche da questa esperienza, però, ho scelto di trarre qualcosa di buono: ora so meglio cosa voglio e, soprattutto, cosa non voglio più.»

    In un’epoca in cui il dibattito sulle relazioni tossiche è sempre più centrale – basti pensare all’aumento di denunce per stalking e violenza psicologica registrato dal Viminale nel 2024 – Vi Skin punta i riflettori su un altro aspetto spesso taciuto: il controllo emotivo. La difficoltà di lasciare all’altro lo spazio per essere felice senza sentirsi meno amati.

    «Ho scritto questa canzone in un periodo in cui sentivo il bisogno di mollare le redini – prosegue l’artista –. Cercavo di controllare tutto per proteggermi, ma ho capito che così facendo stavo solo limitando la mia libertà. Ho capito che proprio ciò che sfugge al controllo può diventare una lezione preziosa: imparare a lasciar andare, a volte, è l’unico modo per respirare davvero. In fondo, sbagliare “non è male” se da quell’errore nasce qualcosa di nuovo.»

    Pubblicare una ballad introspettiva a luglio è una decisione controcorrente. Ma Vi Skin non cerca il consenso facile. Cerca chi, proprio nell’estate delle apparenze felici, ha bisogno di sentirsi meno solo nelle sue inquietudini.

    «Spesso pensiamo che questa stagione debba per forza coincidere con la leggerezza – conclude -. Ma conosco tante persone per cui l’estate non è una pausa dai pensieri, anzi. È un momento in cui il silenzio esterno amplifica il rumore interiore. Ho voluto dare voce anche a loro.»

    “Non è male (Studio Version)” è un invito a vivere le emozioni senza paura, ad accettare la vulnerabilità, e a concedersi il lusso di sbagliare, perché l’unico vero errore è rinunciare a vivere per il timore di fallire. E infondo, in un tempo che ci chiede di essere sempre impeccabili, imparare a fallire può essere la forma più concreta di libertà.

  • Nel cuore della tradizione, Giacomo EVA trova il futuro del cantautorato con “San Rocco”, il suo nuovo singolo fuori il 18 luglio

    Un borgo del Sud Italia, la processione di San Rocco tra vicoli antichi, il crepitio della fede e dell’umano che si intrecciano: così nasce “San Rocco”, settimo apripista dell’atteso nuovo album di Giacomo EVA, “Storie di uomini e di bestie”, in uscita il prossimo settembre. Un brano che parte dalla tradizione popolare per raccontare l’equilibrio misterioso tra opposti. Un equilibrio che affascina, talvolta stordisce, avvolge – consegnando un’esperienza sonora che trasmette un senso di novità pur restando ancorata alle radici.

    L’artista – già autore multiplatino noto per il Premio Lunezia e le collaborazioni con grandi nomi della musica italiana – propone una narrazione musicale che si misura con la tradizione e con il bisogno di rallentare, in antitesi con l’odierna accelerazione sociale. San Rocco fa da filo conduttore a quel tipo di cantautorato capace di immortalare una società in bilico tra spiritualità e quotidianità.

    Ambientato in una notte estiva, il brano attraversa un corteo dove bene e male si sono scontrati e confusi senza mai mischiarsi. Le parole del testo – scritte dallo stesso artista calabrese – sono in grado di restituire all’ascoltatore l’importanza del gesto religioso, insieme al respiro collettivo di chi attende un segno. Un’immagine tradizionale che Giacomo riesce a rendere esperienza contemporanea, non costruita ma vissuta, non descritta ma interiorizzata, trasudata, filtrata dalla pelle.

    La partitura orale del pezzo – «Passa passa San Rocco (…) Ogni casa conosce, di ogni campana sa il suo rintocco» – riporta istantaneamente a quella notte mistica, tra danze sacrali e consuetudini secolari. Il ritornello ripetuto simula il passo del corteo tra i vicoli e volge in musica il battito unanime di una comunità. La descrizione del santo che «passa col suo fedele accanto», fa emergere un vivido spaccato di fede popolare e presenza profana, rendendo il brano un documento musicale sull’identità locale e sulle pratiche rituali in costante ridefinizione, come dichiara lo stesso EVA:

    «Quella notte, camminando nel borgo illuminato a candela, ho visto il confine tra sacro e profano diventare labile. “San Rocco” porta in sé questa ambiguità: una preghiera e un racconto, insieme.»

    L’artista ha elaborato un “luogo immaginato” che unisce la memoria personale e quella popolare, tra rito e introspezione, raccontando un Sud contemporaneo che ha ancora voglia di radici.

    “San Rocco” si innerva nel flusso narrativo di “Storie di uomini e di bestie”, progetto che da marzo ha visto già altri sei singoli esordire uno dietro l’altro: da “Dannata tu” a “Il tango del giuramento”. L’album – che è stato presentato dal vivo proprio in Calabria lo scorso inverno, registrando tre sold out consecutivi – prende ora forma definitiva, in attesa dell’ottavo inedito, “Ninna nanna per adulti”, in uscita il 1° agosto.

    Il file rouge del disco sono le storie archetipe, narrazioni che abbracciano varie tematiche – tra cui l’amore, le radici, la fuga di un adolescente dalla propria terra, la vita di un naufragio, una festa di paese, una ninna nanna per adulti, un tango per gli innamorati -. L’artista ha vissuto un punto di rottura che l’ha portato a domandarsi che fine avessero fatto le storie che ci hanno formato come persone, trovando risposta nelle emozioni più intime che troppo spesso ci vengono rubate da una società sempre più veloce. Il mondo che Giacomo EVA crea con le sue canzoni è favolistico, ma non infantile, un mondo fatto di materia viva, di natura, di legno, di acqua, di verde, di istinti passionali e di verità forti, sia positive che negative.

    Con un format strutturato, Giacomo coniuga narrazione e musica, legando ogni canzone a un tema. Qui, “San Rocco” si fa strada tra la gente come invito a indagare la presenza di sacro in un mondo sempre più veloce e disgiunto dai rituali, ma soprattutto dalla fede. In sé, negli altri e nell’Altro.

    In un momento storico in cui le comunità tentano di ritrovare un senso di appartenenza, “San Rocco” parla di ritorno ai riti, di rivalutazione della memoria popolare, della riscoperta del territorio come radice e cura. Un fenomeno confermato da dati recenti: secondo ISTAT (2024), il 68 % degli italiani sostiene che le feste tradizionali rafforzino il senso di comunità. Un fenomeno culturale che si lega al viaggio interiore narrato da Giacomo – e che rende “San Rocco” più rilevante e attuale che mai.

    «”San Rocco” – conclude – non racconta solo una festa di paese, racconta l’energia che attraversa le persone, che oscilla tra attesa e abbandono – un riflesso di quanto accade dentro ciascuno di noi.»

    “San Rocco” è la fotografia musicale di un’Italia che rinasce dalla sua storia, nei gesti, nelle parole e nell’incontro. Un racconto che Giacomo EVA propone con grande rigore compositivo, sensibilità espressiva e un’inedita tensione tra tradizione ritrovata e ricerca emotiva. Un brano che merita attenzione, perché sa restituire senso a un tempo che spesso lo smarrisce.

  • “Ti Verrò A Cercare” dei Ferrinis parla a chi ha amato nel silenzio

    C’è chi se ne va e chi resta. E poi ci sono legami che, anche quando sembrano dissolti, continuano a chiamarci. Invisibili, ma insistenti. In “Ti Verrò A Cercare”, il nuovo singolo dei Ferrinis, Maicol e Mattia raccontano proprio questo: la forza silenziosa che ci spinge a cercare chi sentiamo ancora vicino, anche quando la distanza non è solo fisica, ma fatta di tempo, assenza e coraggio.

    Secondo uno studio condotto nel 2024 dalla LuvLink Research Unit, oltre il 70% degli studenti universitari europei ha sperimentato almeno una relazione a distanza, e più del 60% di queste storie si sono protratte per oltre sei mesi. Un dato che non parla solo di chilometri, ma di un’intera generazione abituata a creare connessioni resistenti all’instabilità. In un tempo di amori intermittenti, di legami sospesi tra notifiche e sparizioni, “Ti Verrò A Cercare” si fa portavoce di una domanda ricorrente: cosa resta quando l’altro non c’è, ma continua ad abitare i nostri pensieri?

    Un quesito che torna a farsi sentire proprio in questo periodo dell’anno, nel cuore dell’estate, quando tutto si dilata. Le città si svuotano, i ritmi si spezzano, le distanze si moltiplicano. Ma non tutte le separazioni sono visibili. Alcune si consumano in silenzio, tra messaggi non inviati e pensieri ricorrenti. “Ti Verrò A Cercare” non parla di una partenza, ma di un ritorno possibile. Di quella forza ostinata che, anche quando tutto sembra in stallo, continua a chiamare l’altro.
    Un contesto tutt’altro che raro. Ed è proprio in questa condizione condivisa – spesso ignorata dalla narrazione musicale – che i Ferrinis riconoscono l’urgenza di una canzone.

    Il «Ti verrò a cercare, dove il sole incontra il mare» – ripetuto nel testo, crea uno spazio sicuro, un luogo simbolico dove ritrovarsi, dove il suono non elude la nostalgia, ma la attraversa. E in quella «forza magnetica che ci collega e non se ne va», Maicol e Mattia incidono una promessa capace di resistere al tempo.

    Non è una formula magica, ma una direzione. Un punto da raggiungere, o semplicemente da desiderare. La scrittura sceglie la sottrazione, lascia che siano poche immagini a sostenere tutto il peso emotivo: la distanza, la speranza, la perseveranza del cuore.

    Sul piano musicale, “Ti Verrò A Cercare” si muove in equilibrio tra elettronica essenziale e apertura melodica. I synth accompagnano la voce senza sovrastarla, i suoni restano liquidi, dilatati, come a sospendere gli attimi. La produzione è asciutta, ma calibrata, in grado di dare spazio alla parola e alla pausa. Tutto – nel ritmo, nei timbri, nella scelta di non forzare l’emotività – sembra cucito ad hoc, pensato per custodire l’intimità di chi ascolta.

    «Abbiamo scritto questo brano pensando a chi ha continuato a cercare qualcuno che sembrava sparito – raccontano i Ferrinis –. A volte non sappiamo neanche cosa stiamo cercando. Ma il fatto stesso di metterci in cammino dice qualcosa di noi: che non ci siamo arresi.»

    Dopo il secondo album “Twins” e il singolo “Le Luci di New York”, “Ti Verrò a Cercare”, accompagnato dal videoclip ufficiale diretto da FG Pro Studio, segna una nuova svolta per i fratelli forlivesi: aria più rarefatta, immagini essenziali, nessuna pirotecnica. I Ferrinis scelgono ritmo misurato, melodia calibrata e parole che non lasciano vuoti.

    Sullo sfondo, la percezione di una generazione che ha imparato a vivere ricongiungimenti digitali e separazioni anticipate. Una generazione che sa salutarsi con uno schermo acceso e restare connessa anche quando tutto sembra interrotto.

    Proprio per questo motivo, “Ti Verrò a Cercare” racconta qualcosa di più: diventa una colonna sonora collettiva per chi ama da lontano. Non un’operazione commerciale estiva, ma un piccolo rito che unisce chi resta a chi parte – chi non molla, pur nella distanza.

    “Ti Verrò A Cercare” non chiede di essere capita, ma sentita. Non promette risposte, ma resta lì, nel punto esatto in cui il legame non si è ancora spezzato. Quello spazio fragile in cui cercare diventa già un modo di restare.

  • Una Traviata all’aperto per un pubblico senza barriere: Marco Severi riporta l’Opera tra la gente

    Riportare la musica classica tra la gente, senza barriere, e connetterla alle nuove generazioni: è questa la visione che guida il lavoro del Maestro Marco Severi, oggi protagonista di un nuovo allestimento de La Traviata. Il 28 luglio lo dirigerà all’aperto, in Piazza del Campo a Siena, dove l’opera torna dopo oltre vent’anni di assenza, trasformando uno spettacolo in una delle produzioni più attese della stagione estiva.

    Ex primo violoncello dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino – ruolo ricoperto per tre decenni – Severi ha progressivamente affiancato alla carriera da strumentista quella da direttore, guidando orchestre in Italia e all’estero, con particolare attenzione al repertorio lirico e sinfonico.

    La rappresentazione de La Traviata in Piazza del Campo non è solo un appuntamento culturale, ma un momento simbolico. È il ritorno della lirica nel cuore civico delle città, uno spazio che storicamente ha ospitato riti collettivi, civili e spirituali, e che oggi si riapre al gesto artistico come forma di partecipazione. Non un contenitore scenico, ma un luogo vivo, dove arte e comunità possono tornare a dialogare. Per Severi, dirigere in una cornice come questa è anche una forma di responsabilità:

    «Dirigere in piazza – dichiara – restituisce dignità al suono. Portare l’opera fuori dai teatri non significa ridurla, ma ricondurla al centro della vita pubblica. Dove è nata, e dove dovrebbe tornare.»

    È un’idea di musica che va oltre l’esecuzione tecnica: un atto civile, un invito a riscoprire la bellezza come bene comune. Un gesto che ha a che fare con il contesto, con le persone, con ciò che si vuole trasmettere davvero. In quest’ottica, il ruolo del direttore non si esaurisce nell’atto visibile, ma continua nel rapporto con l’orchestra e con chi ascolta. È lì che si gioca tutto: nel rendere possibile un tempo e uno spazio per la piena percezione della musica.

    Una visione che si traduce nella pratica quotidiana: la direzione orchestrale, per Severi, non è mai un esercizio di controllo. Al contrario: è un lavoro sulla relazione. Un equilibrio che si costruisce prova dopo prova, senza forzature, lasciando che la musica fluisca dal confronto. È una concezione non gerarchica del podio, che chiama in causa la responsabilità di ciascun musicista e valorizza l’ascolto reciproco.

    «La musica emerge dal confronto, non dall’imposizione – spiega -. Il direttore deve facilitare, non dominare.»

    Lo stesso principio guida il suo rapporto con il pubblico. Spesso considerata distante, la musica classica va restituita come linguaggio vivo, umano. E per farlo, servono esperienze effettive, non operazioni di facciata.

    «C’è bisogno di accorciare le distanze – conclude Severi –. Ma con contenuti, non con scorciatoie. La musica classica ha ancora molto da dire. Ma va fatta vivere con strumenti adeguati, senza mediazioni superflue.»

    Negli ultimi due anni, secondo recenti osservatori, l’interesse degli under 35 verso la musica classica è cresciuto del 15%. Inoltre, da un’indagine condotta dal Royal Philharmonic Orchestra (“The evolution of the orchestral audience in the digital age”, Marzo 2024), il 65% degli under 35 la ascolta regolarmente, superando gli over 55 (57%) e confermando una partecipazione giovanile in crescita. Una tendenza che intercetta il lavoro di chi – come Severi – punta a recuperare il rapporto con le nuove generazioni, non con strategie d’immagine e artifici comunicativi, ma con contenuti, qualità e coerenza.

    Alla fine di ogni concerto, il Maestro Severi saluta i presenti con una frase semplice: “Da cuore a cuore”. Una citazione legata alla Missa solemnis di Beethoven, in cui il compositore annotò sul manoscritto: «Vom Herzen – Möge es wieder – zu Herzen gehen» (“Dal cuore possa tornare al cuore”).

    Non è un vezzo, ma un modo per richiamare alla musica la sua accezione originaria: passaggio, esperienza condivisa, linguaggio che unisce – prima ancora che esibizione.

    Accanto all’attività trentennale al Maggio Musicale, Severi ha diretto titoli come NabuccoElisir d’amoreToscaDon GiovanniLa Bohème, lavorando con orchestre quali l’Orchestra Sinfonica di Sanremo, l’Orchestra della Città di Grosseto, i Solisti del Maggio e l’Orchestra Maderna. Ha collaborato con registi come Grisha Asagaroff e si è esibito in teatri quali il Goldoni di Livorno, il Sociale di Rovigo, il Verdi di Lucca, Torre del Lago, Cortona, Piombino.

    Dopo vent’anni, l’opera torna in piazza. Ma ancor di più, torna l’idea che la cultura appartiene a chi la vive, e che la musica non ha bisogno di barriere per arrivare – da cuore a cuore.

  • Hanno lasciato il Sud per vivere di musica: i Numbers 22 debuttano con un EP che ha il suono del sacrificio

    C’è un momento in cui la passione smette di essere un sogno e diventa una scelta. Per i Numbers 22, quel momento ha coinciso con un trasloco di 700 chilometri: da Napoli a Treviso, passando per il luogo in cui sono cresciuti, Cassino (FR), tra le mani sporche di lavoro e intere nottate in sala prove, per inseguire un’unica certezza — vivere di musica, o non vivere affatto.

    Non li ha lanciati un talent né un algoritmo: il loro primo EP, “22”, è nato così: dalla passione, dalla distanza, dalla rinuncia. Lavorando di giorno e suonando di notte, la frustrazione si è trasformata in canzoni. E quelle canzoni, oggi, parlano per loro.

    “22” è il loro primo progetto alternative rock: cinque tracce come cinque incisioni sulla pelle, che raccontano cosa significa lasciare tutto – davvero – per inseguire un’idea. Un disco nato dalla fame, non solo in senso metaforico: quella che ti spinge a fare turni, risparmiare su tutto, e poi rinchiuderti in sala prove fino all’alba per registrare, scrivere, riscrivere, sbagliare, crederci.

    Il progetto nasce dal legame viscerale tra Luca (Cory) e Francesco (Mad), cugini cresciuti come fratelli. In piena pandemia decidono di lasciare il Sud e trasferirsi a Treviso per una scommessa: costruirsi da soli un futuro nella musica. Senza etichette, senza certezze, ma con una consapevolezza rara in una scena spesso distratta:

    «Abbiamo capito che se non ci credevamo noi, non l’avrebbe fatto nessun altro. Allora abbiamo messo tutto in discussione, tranne la musica», raccontano.

    “22” è il numero che li accompagna da sempre. È diventato il nome della band e, ora, anche quello dell’EP. Ma è soprattutto un simbolo: della loro unione, del punto di svolta, del codice di una generazione che non si riconosce più nei modelli preconfezionati, ma prova a inventarsi una strada alternativa. È un rituale, un segno ricorrente che torna nei momenti chiave. Il giorno di una decisione importante. L’orario di una telefonata. Il numero scritto su un muro, su una porta, su un biglietto. Un richiamo costante che ha segnato la loro storia — e ora ne scrive il suono.

    Durante la lavorazione dell’EP, al duo si uniscono Giordano (JJ) al basso e Iacopo (Papo) alla batteria, portando nuova energia e solidità alla band. Ma la direzione resta intatta: suonare e cantare la verità, anche quando fa male.

    “22” è un EP in inglese, scritto e interpretato da chi conosce bene la parola ricominciare, prodotto e curato in ogni dettaglio da soli: per il mercato indipendente italiano, una rarità.

    Il pop del Belpaese è tornato al centro e l’inglese è spesso visto come un vezzo da export: mentre gran parte della nuova scena nazionale rincorre la lingua madre o l’estetica mainstream con la speranza di aggiudicarsi like e playlist, loro fanno un’altra scelta, completamente controcorrente. Scrivere e cantare in una lingua non loro — non per moda, ma perché è così che pensano, parlano, si raccontano. Una forma di distanza che protegge, ma non filtra. Con un’identità che non simula nessuno.

    E soprattutto, perseguono una linea chiara: dai visual al concept, senza team, senza major, senza hype. Nessun team creativo, nessuna agenzia. Solo loro, uno per uno, a costruire un progetto coerente e preciso, che oggi sembra professionale, ma che è nato in un garage.
    In un tempo in cui il DIY è spesso un trend, i Numbers 22 lo incarnano sul serio: senza estetica “lo-fi”, senza storytelling estetizzante. Solo lavoro.

    E una convinzione granitica: la forma deve reggere il contenuto.

    Nel 2025, chi canta in inglese partendo dal nulla ha due possibilità: sembrare fuori tempo, o sembrare fuori posto. I Numbers 22 non sono nessuna delle due cose: sembrano fuori dagli schemi, ma dentro l’unico spazio che conta davvero, quello della sostanza.

    In “22” non c’è un brano scritto a tavolino, una hit guida imposta, ma c’è un’esigenza chiara: raccontare ciò che brucia, ciò che non si riesce più a tenere dentro. Pezzi scritti nei giorni in cui le parole servivano per stare a galla.

    È per questo che proprio “R U Looking?” — la traccia di apertura — è attualmente in rotazione radiofonica: perché funziona come manifesto del progetto. Un brano che dice quello che molti pensano ma pochi hanno il coraggio di chiedersi davvero:

    «Your eyes are open, but are you looking?»
    («I tuoi occhi sono aperti, ma stai guardando?»)

    Tra scroll infiniti e silenzi pieni di rumore, questa domanda è diventata il mantra della band.

    Il resto dell’EP prosegue con la stessa urgenza. Ogni traccia è un frammento vissuto, una storia vera. Non c’è un sentiero preciso, c’è solo un bisogno: dire quello che spesso si ingoia.

    Nessun tentativo di piacere, nessun effetto scenico. Solo cinque canzoni che stanno in piedi da sole. Cinque verità da affrontare.

    A seguire, tracklist e track by track del disco.

    “22” – Tracklist:

    1. R U Looking?
    2. Time Files
    3. Too Bad
    4. Goodbye
    5. Piece of Myself

    “16m²” – Track by Track:

    L’EP si apre con “R U Looking?”, una sveglia in forma di brano che interroga chi ascolta e denuncia il torpore della vita digitale. «Your eyes are open, but are you looking? The world spins fast, but are you moving?» («I tuoi occhi sono aperti, ma stai guardando? Il mondo gira veloce, ma ti stai muovendo?»). Una domanda scomoda in un’epoca che anestetizza, che riempie di rumore ma toglie il senso. Il pezzo rompe il vetro della bolla online e chiede un ritorno alla realtà, come un grido di battaglia che ha il coraggio di non essere accomodante.

    Segue “Time Files”, il cui tema cardine è la liberazione da relazioni tossiche e dinamiche di dipendenza affettiva. È il racconto dell’istante in cui si smette di rincorrere chi ferisce e si sceglie, finalmente, di stare dalla propria parte: «I don’t wanna play your game. This time I’m the one who decides» («Non voglio giocare al tuo gioco. Questa volta sono io a decidere»).

    Too Bad” è forse il brano più crudo dell’EP. Una battaglia interiore che non cerca facili soluzioni: «Say you won’t let go ‘cause we’ll never go back. This is too bad» («Dì che non mi lascerai andare perché non torneremo mai più indietro. Questo è un vero peccato»). La voce si spezza, si riflette nello specchio, chiede di non essere lasciata da parte. Qui, l’alternative rock della band mostra la sua vena più fragile, ma senza perdere la forza comunicativa e narrativa. C’è la paura di essere lasciati all’angolo, ma anche la rabbia di chi non vuole arrendersi.

    In “Goodbye”, invece, la scelta diventa definitiva: il saluto alla sicurezza, alla casa, all’abitudine. «Close the door behind me, I have to find myself at all cost» («Chiudi la porta alle mie spalle, devo ritrovare me stesso a ogni costo»), cantano, raccontando cosa significa andarsene per ritrovarsi, anche se il cuore resta dov’era.

    A chiudere l’EP, “Piece of Myself”, un brano che è quasi un testamento. Una forza quietamente devastante: reiterata come una formula, ma mai sterile. Una confessione frammentata, l’alternanza tra controllo e rottura, tra il dire e il non riuscire a dirlo fino in fondo. Un pezzo che non ha bisogno di rincorrere il climax: resta lì, immobile, come una ferita che non si rimargina.
    «In everything I do, I leave a piece of myself» («In tutto ciò che faccio, lascio un pezzo di me stesso»): è un pensiero che si ripete, ossessivo, come se ogni verso fosse un tentativo di dirsi la verità fino in fondo. Il racconto delle notti in cui non si dorme, delle fughe che non funzionano, della fatica di provare a cambiare e fallire. Perché c’è chi scrive per guarire, e chi scrive per restare vivo. Qui non si cerca conforto: si cerca solo di reggere. È la chiusura più onesta possibile di un disco nato per necessità.

    «Facciamo musica perché non sappiamo vivere altrimenti – concludono i Numbers 22 -. Questo disco non lo vediamo come un inizio, ma come una conseguenza. È il frutto di tutte le volte in cui ci siamo detti “non ce la faremo mai”, e invece siamo andati avanti.»

    In un momento storico in cui sempre più giovani scelgono di emigrare per inseguire una possibilità, il percorso dei Numbers 22 intercetta un tema attuale e trasversale: la disillusione, la rinascita, il valore del sacrificio.

    “22” non è un EP che chiede di piacere. È un disco che pretende di essere ascoltato. E che lascia addosso qualcosa, come un tatuaggio. Come un numero che ritorna. Come qualcosa che non hai scelto, ma che ti sceglie. Un disco che rimane, anche quando tutto il resto scorre. Un punto fermo. O un punto di rottura.

  • Jazz e contaminazioni: la ricetta vincente di Edoardo Baroni. Il tour mondiale lo porta in Giappone

    Dalla raffinatezza delle sue composizioni al riconoscimento internazionale, Edoardo Baroni continua a tracciare una traiettoria artistica che unisce tecnica, sensibilità e dedizione. Dopo l’uscita di “By Heart” (Clockbeats), il suo terzo album acclamato da pubblico e critica, il chitarrista jazz bresciano si prepara a partire per un tour internazionale che lo porterà a suonare in Svizzera, Bulgaria, Italia e, soprattutto, in Giappone, con sei date previste tra Tokyo, Osaka e altre città chiave della scena culturale nipponica.

    La data simbolo del tour sarà il 24 luglio, giorno in cui Baroni si esibirà all’Expo 2025 di Osaka, rappresentando l’Italia con un live che racchiude l’essenza del progetto: un dialogo intimo tra virtuosismo jazzistico, omaggi colti alla tradizione classica e un’estetica fortemente emotiva. Il tour conferma così il profilo internazionale dell’artista, già noto per le sue reinterpretazioni di Django Reinhardt, Bach e Wes Montgomery, e per la capacità di fondere improvvisazione e rigore con una cifra stilistica unica.

    «Suonare all’Expo è un onore e una responsabilità – racconta Baroni –. Porterò con me ogni nota di “By Heart” come se fosse un gesto personale, una carezza fatta musica, nella speranza che il pubblico giapponese possa sentirla per com’è nata: dal cuore.»

    Oltre al Giappone, il tour ha fatto tappa a Roma, Berna e Sofia, con nuove date in aggiornamento in Lombardia e Piemonte. In ogni città, il repertorio sarà centrato su “By Heart”, alternando brani originali come “Let off steam” e “Silvia” a rivisitazioni colte come “All the things you are” o il Preludio BWV 999 di Bach. Non mancherà il tributo a Reinhardt, figura chiave nella formazione musicale di Edoardo e oggetto della sua tesi di laurea.

    Il tour si accompagna a una narrazione visuale curata fin nei dettagli, dalla copertina dell’album firmata dall’artista serbo Ivan Bjorn, alla regia del videoclip ufficiale di “Let off steam”, presentato in anteprima su Sky TG24.

    Calendario ufficiale del “By Heart Tour 2025”:

    🇮🇹 30/05/25 – Lestro Restaurant, Brescia (IT)
    🇨🇭 01/06/25 – ONO, Bern (CH)
    🇮🇹 07/06/25 – Sarnico, Brescia (IT)
    🇮🇹 28/06/25 – Crash, Roma (IT)
    🇧🇬 09/07/25 – Schroedinger Bar, Sofia (BG)
    🇧🇬 11/07/25 – In the Mood, Sofia (BG)
    🇯🇵 22/07/25 – Taiyo to Tora Music Zoo, Kobe (JP)
    🇯🇵 24/07/25 – TEAM EXPO Pavilion, Osaka World Expo (JP) (AS)
    🇯🇵 24/07/25 – Hi Five, Osaka (JP) (ES)
    🇯🇵 25/07/25 – Cloud 9, Chiba (JP)
    🇯🇵 26/07/25 – Mogumogu, Tokyo (JP) (AS)
    🇯🇵 26/07/25 – Mogumogu, Tokyo (JP) (ES)
    🇯🇵 27/07/25 – Legacy Lounge, Tokyo (JP)

    (AS) = Afternoon Set — (ES) = Evening Set

    Il “By Heart Tour 2025” va ben oltre il concetto di tournée internazionale: è il percorso di un musicista che porta con sé un’idea precisa di bellezza, fatta di ascolto, radici e incontro. Un progetto culturale che attraversa confini, celebrando la musica come linguaggio senza traduzione, in grado di arrivare ovunque ci sia qualcuno disposto ad ascoltare.

  • A 46 anni pubblica il suo primo singolo: l’“Estate Infinita” di Sonia Vantaggio racconta il valore delle seconde possibilità

    Debuttare a 46 anni legando il proprio battito a quello di un’estate che sembra non finire mai. La luce del Salento che attraversa i ricordi e li trasforma in futuro. La voce di chi ha scelto, con consapevolezza e determinazione, di tornare a fare spazio alla propria musica, senza rincorrere mode o consensi. Così nasce “Estate Infinita”, il primo singolo inedito di Sonia Vantaggio, cantautrice salentina classe 1978, che dopo una lunga pausa dedicata alla famiglia, torna alla musica con una nuova consapevolezza.

    Disponibile su tutte le piattaforme digitali, il brano porta con sé un significato molto più intimo della leggerezza legata alla stagione, suonando come un vero e proprio inno gentile alle seconde possibilità.

    Dopo anni passati tra piano bar e serate nei locali del Sud, Sonia aveva messo da parte la musica per dedicarsi alla vita privata. Ma l’arte, come il mare che torna sempre a riva, ha ripreso a bussare.

    La scelta di tornare alla propria passione, debuttando non con una cover, ma con un brano scritto e composto interamente da sé è, di per sé, controcorrente. In un contesto musicale dominato da esordi in giovanissima età e che spesso fatica a dare spazio alle voci femminili – soprattutto se over 40 -, la storia di Sonia offre un esempio virtuoso: la musica non ha scadenza, né età.

    Nata a Tricase e cresciuta a Salve, la Vantaggio è profondamente legata al Salento, non solo come cornice, ma come luogo dell’anima. E proprio da lì riparte, con un progetto interamente autoprodotto, fatto di sincerità e indipendenza creativa. Un progetto che racconta la leggerezza non come evasione, ma come partecipazione attiva, partendo da una domanda:

    Cosa significa, oggi, scegliere la leggerezza?

    Non quella superficiale, di chi ignora il peso delle cose, ma quella di chi ha imparato a portarle con grazia, lasciandosi attraversare dalla bellezza. Sonia ha fatto proprio questo: è tornata a sé attraverso le cose semplici — la sabbia che scotta sotto i piedi, un tramonto, una festa che non ha bisogno di luci artificiali per cominciare.

    «“Estate Infinita” è la mia rinascita – dichiara -. Ho scritto questa canzone una notte d’estate, guardando il cielo e ascoltando il rumore del mare. Mi sono chiesta cosa mi mancava davvero. E la risposta era semplice: la musica. Ho pensato a tutto ciò che mi faceva sentire viva: il mare, il vento, i sorrisi. Dopo tanti anni, ho sentito che era il momento di riprendermi il mio spazio. E il mio spazio è, da sempre, la musica.»

    Tra i fuochi accesi e i gabbiani in volo, il Salento diventa il simbolo delle radici, quelle che ci ricordano sempre chi siamo, da dove veniamo, quelle che non tradiscono. Sonia Vantaggio attinge al suo vissuto più intimo per raccontare un’estate che non è solo una stagione, ma un tempo sospeso, fatto di suoni, colori e libertà. L’immaginario salentino percorre tutto il brano come un fil rouge, dalla spiaggia sognata «col mio amor, fino all’alba» al «volo di gabbiani che volano lontani», emblema di un orizzonte che si allarga ma resta sempre connesso alla terra d’origine.

    L’estate cantata da Sonia non è quella da cartolina, ma quella reale e concreta che molti italiani vivono ogni anno: quella dei rientri nei paesi del Sud, delle sagre e dei falò, dei ritmi che rallentano e dei pensieri che si fanno più lievi. Un’estate che oggi, nel post-pandemia, ha acquisito un nuovo valore: quello di una possibilità di ritrovarsi — non in senso spirituale, ma relazionale, familiare, identitario.

    Il suo progetto si distingue per una maturità che non ostenta e una scrittura limpida, capace di parlare a più generazioni. “Estate infinita” è una canzone senza tempo, scritta e interpretata da chi ha deciso di ripartire da ciò che conta davvero. Senza rincorre l’estate perfetta, ma raccontandola per quello che può essere: un luogo interiore da cui ricominciare.

    «Non si smette mai davvero di essere ciò che si è – prosegue l’artista -. Avevo messo la musica in pausa, non via. Quando ho scritto questo brano, ho capito che era arrivato il momento di farle spazio di nuovo, senza aspettarmi nulla se non il piacere di condividere.»

    È proprio in questo che “Estate Infinita” trova la sua forza narrativa: in una stagione in cui si moltiplicano hit scritte a tavolino, il brano di Sonia Vantaggio colpisce per la sua semplicità, senza forzature. Non c’è pretesa di stupire, ma la volontà di condividere.

    Una canzone “scritta a voce alta”, con un lessico immediato e immagini che scorrono come flashback di un tempo leggero, ma non per questo meno denso. Dai «baci rubati» al «cuore che batte», dai cori che si alzano «fra sogni lontani» alle onde che «urlano e ci vogliono dentro», ogni strofa è ideata come una piccola scena vissuta in prima persona. L’arrangiamento pop, fresco ma non scontato, accompagna le parole senza sovrastarle. La produzione, volutamente essenziale, lascia spazio al racconto e alla voce di Sonia, capace di restituire quel senso di verità che spesso manca nei tormentoni estivi.

    Nel pieno di un dibattito pubblico sempre più affollato da cronaca, tensioni e instabilità, c’è un valore nel parlare di leggerezza. Ma serve farlo con consapevolezza, evitando l’evasione e scegliendo invece l’evocazione. È quello che riesce a fare la cantautrice pugliese, riportando al centro l’estate come spazio simbolico, dove tutto sembra ancora possibile, dove le giornate sembrano durare di più e le promesse non sono ancora scadute.

    Sonia parla a chi decide di ricominciare. Non per rincorrere un sogno rimasto in sospeso, ma per affermare la propria presenza. E il proprio desiderio di esserci, in un tempo in cui l’industria musicale sembra premiare solo l’istantaneità.

    Con “Estate Infinita”, accompagnata dal videoclip ufficiale girato a Marina di Pescoluse (LE) sotto la direzione di Samuele Del Colle con la produzione di Luciana Negro Supersano per Hybridstudio, Sonia Vantaggio apre uno scenario più ampio. Non una “carriera da iniziare”, ma una voce da ritrovare e una storia da raccontare, a modo proprio. Ed è proprio questo il senso di un’estate che non finisce mai: non il perenne alternarsi dei tormentoni, ma il tempo scelto per tornare a sé stessi. Con una canzone, con la propria voce, con un cuore che batte ancora.