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  • Un anti-eroe per la generazione disillusa: “Black Crow” di Anna Turrei veglia su un presente smarrito, ma ancora in cerca di giustizia

    C’è un mondo, oggi, che si sente fuori posto. Giovani e adulti accomunati da un senso diffuso di sfiducia, isolamento, saturazione. A questo mondo parla “Black Crow”, il nuovo singolo di Anna Turrei per Delma Jag Records, che per la prima volta sceglie l’inglese per raccontare il lato della sua identità artistica più scuro, più internazionale e decisamente più radicale.

    Non si tratta di una semplice svolta stilistica, ma di un percorso narrativo dentro il disagio di un’epoca che ha smarrito fiducia e direzione. Un disagio che non si consuma nel nichilismo, ma si traduce in conflitto interno, per poi trasformarsi in una forma di giustizia personale, sussurrata, costruita tra le pareti del proprio buio.

    Nella canzone, il corvo nero non è solo un simbolo dark. È un personaggio vero e proprio, un anti-eroe notturno che veglia mentre il mondo dorme. È la proiezione di chi, pur sentendosi ai margini, non rinuncia a cercare un significato, una direzione, una forma di giustizia possibile.

    È indicativo che ad incarnare questo ruolo non sia un essere umano, ma un animale. Forse perché – come recita il brano – «Animals are the real superheroes, they give true love» («Gli animali sono i veri supereroi, loro danno il vero amore»). Una frase che fa intuire sfiducia verso l’umanità, ma anche una scelta precisa: oggi, a molti, manca un modello reale a cui guardare. A cui ispirarsi. E allora quel modello si inventa. Si immagina. Il corvo nero diventa così la figura che non c’era: emblema di forza che non si impone, ma resiste, paziente, nell’ombra. Vigile, solitario, incorruttibile. Non ha bisogno di mostrarsi; agisce sul piano simbolico, quasi come una sentinella morale, un alter ego per chi si sente costantemente a disagio con ciò che lo circonda.

    «Revolution starts from our hearts / taking our values out of the drawer»
    (La rivoluzione comincia dai nostri cuori, tirando fuori i nostri valori dal cassetto)

    In un tempo in cui il termine “rivoluzione” è spesso parola svuotata o abusata, il verso chiave del brano rimette al centro la sfera interiore, il cambiamento personale come risposta etica a un mondo disilluso.

    Non c’è ideologia, né militanza, solo un gesto – semplice in apparenza, ma difficilissimo da compiere davvero: riaprire quel cassetto dove abbiamo riposto e chiuso i nostri valori, quelli autentici, quelli dimenticati.

    Nessun riferimento politico, nessuno schieramento o visione sociale strutturata, ma comunque una presa di posizione. A livello esistenziale, morale, spirituale. È una forma di rivoluzione che non passa dalle piazze, ma dal recupero della propria coscienza etica, dalla scelta di non restare anestetizzati di fronte al cinismo generalizzato.

    In un contesto generazionale segnato dalla stanchezza civile, dal rifiuto della retorica, “Black Crow” propone una via alternativa: l’intimità come forma di disobbedienza, un modo per restare sensibili in un tempo che narcotizza tutto. È anche da qui che si capisce perché Anna Turrei non è semplicemente una giovane cantautrice emergente, ma una voce che si impegna a riportare senso alle parole che usiamo ogni giorno.

    Ed è da questa posizione che il brano si apre a un’altra dimensione:

    «It’s a world connected just online, face to face can’t communicate. They retreat into their shell, I no longer have faith in the human race»
    (È un mondo connesso solo online, faccia a faccia non si riesce a comunicare. Si chiudono nel loro guscio, io non ho più fiducia nel genere umano)

    Qui il tono cambia, si fa più amaro, più diretto. Ma è proprio questa schiettezza, quasi ingenua nella sua onestà, che arriva dritta al punto.
    Non si tratta della solita critica all’iperconnessione: è la denuncia di chi constata una frattura profonda, quasi irreversibile, tra la vicinanza del digitale e la distanza delle coscienze. La digitalizzazione dei rapporti ha sostituito la connessione umana con l’interazione di rete, lasciando dietro di sé un vuoto affettivo che nessun like può riempire. Un’intera generazione è cresciuta tra schermi e filtri, e ora fatica a riconoscersi nel contatto diretto, nel volto dell’altro.

    Questa constatazione, però, non si traduce in passività: in “Black Crow”, anche chi ha perso fiducia cerca giustizia. Anche chi non si fida più, continua a vegliare sul mondo. In questo senso, il corvo nero non è il simbolo di una chiusura, ma di una volontà ancora accesa. «I am reborn like a phoenix» («Rinasco come una fenice»): una fenice che sceglie il coraggio della solitudine alla complicità dell’apatia.

    «Black Crow is coming, Black Crow is here» («Il corvo nero sta arrivando, il corvo nero è già qui») – recita il ritornello – e non è una minaccia, ma un annuncio: il ritorno di chi ha scelto di non arrendersi.

    Ed è anche il ritorno di un’estetica che sembrava marginale, ma che oggi è ovunque: il gotico, il dark, l’immaginario notturno, tornati centrali nella cultura pop contemporanea. Dopo l’onda lunga di Billie Eilish, il successo planetario della serie Netflix “Mercoledì” e il revival di atmosfere cupe nella musica e nella moda, “Black Crow” arriva nel momento esatto in cui il buio ha smesso di fare paura ed è diventato un vero e proprio linguaggio. Un universo che sembra uscito da un graphic novel, ma che parla con la lingua della psicologia contemporanea.

    Corvi, fenici, simboli archetipici, creature silenziose e notturne: la nuova generazione non si racconta più attraverso la luce, ma attraverso le zone d’ombra, quelle che costringono a guardarsi dentro, non fuori da sé.

    Anna Turrei entra in questo panorama con una voce che non asseconda il gusto del momento, ma l’adesione sincera a un’estetica che coincide con uno stato d’animo condiviso da molti.

    In un tempo musicale che spesso confonde l’introspezione con il manierismo e il disagio con il marketing dell’oscurità, “Black Crow” si distingue perché non vuole creare stupore, ma riflessione e dialogo. E lo fa senza spettacolarizzare il dolore e senza nascondere le fragilità che abitano e attraversano ciascuno di noi.

    È un pop che non si limita ad evocare simboli ma li vive e li assume come protagonisti di un’epoca in cui tutti vogliono esserlo, ma pochi accettano di assumersene il peso e la responsabilità. E che trova nella lingua inglese non un vezzo internazionale, ma una scelta narrativa necessaria, per parlare da dentro un’identità che si sente parte di un disagio più grande.

    “Black Crow” non cerca vendetta in senso stretto, ma dignità, e in una contemporaneità dominata dall’apatia e dal disincanto, ci ricorda che anche nella solitudine più cupa può nascere un’idea di giustizia.

  • Maternità e consapevolezza: Khris riscrive la narrativa femminile nella musica italiana

    In Italia, il soul e l’R&B non hanno mai davvero trovato casa: troppo americani per il mainstream, troppo laterali, intimi e sofisticati per un mercato veloce, dominato da playlist e ascolti mordi-e-fuggi. Ma oggi qualcosa si muove. E Khris – cantautrice e performer indipendente originaria di Cuneo – è una delle poche voci femminili che, senza imitare le grandi icone internazionali, sceglie di abitare l’R&B con una lingua, un’estetica e un’urgenza totalmente proprie.

    Dopo anni trascorsi tra il circuito underground e il lavoro come corista e ballerina, l’artista piemontese dall’animo cosmopolita torna alla musica con un’identità precisa e libera da logiche algoritmiche. Il suo primo EP, in arrivo nei prossimi mesi, raccoglie quattro brani già pubblicati – “Ali d’acciaio”, “Brucia il tempo”, “Diamante” e “Il disco gira” – che compongono un racconto unitario. Non si tratta di tentativi isolati, ma di un progetto che segna un posizionamento netto: portare il genere dentro la realtà italiana, con la voce di una donna che racconta sé stessa.

    Nei suoi testi c’è la maternità che cambia tutto (“Ali d’acciaio”), l’ansia che stringe lo stomaco in un tempo sempre più veloce (“Brucia il tempo”), il coraggio delle donne e l’identità imperfetta che diventa cifra ed espressione personale (“Diamante”), e la voglia di ripartire quando tutto sembra fermo (“Il disco gira”). Frammenti di vita trasformati in musica, in un momento in cui il pop nazionale oscilla tra TikTok e indie malinconico e dove l’R&B, a livello globale, è tornato centrale con artisti come SZA o Victoria Monét.

    L’elemento che più definisce il percorso di Khris è la coerenza: quattro singoli che non nascono per aderire alle aspettative del mercato, ma per portare avanti un discorso.

    In Italia, sin da primi 2000, l’R&B è stato spesso solo citazione marginale. Un registro preso in prestito: qualche riferimento sonoro, un’intonazione di matrice soul nei ritornelli, un beat che “fa black music” ma senza l’anima del genere. Raramente è stato adottato come linguaggio pieno, radicato, coerente. Il risultato? Canzoni che suonano R&B, ma non parlano come l’R&B. Manca spesso il contenuto, il vissuto, l’urgenza di dire qualcosa con quel suono. Khris fa un’altra scelta. Non prende in prestito nulla: adotta e vive quel linguaggio. Non lo adotta come ornamento alla sua musica, ma come forma espressiva naturale dei suoi pezzi, capace di raccontare in italiano emozioni, corpo, maternità, ansia, lentezza, imperfezione.

    Le sue canzoni non “fanno R&B”. Lo sono: nella struttura musicale, nella vocalità, ma soprattutto nella funzione narrativa ed emozionale.

    Khris ne fa un modo per dire le cose oggi, qui, con la propria voce.
    Con la stessa naturalezza con cui scriverebbe una lettera, ma con la carezza avvolgente del beat e il colore unico del suo timbro.

    Il suo primo EP raccoglierà questi capitoli e li condurrà più avanti, verso la loro compiutezza. Non tanto un debutto, quanto un posizionamento: la scelta di stare dentro a un genere che qui non ha mai avuto casa, e di farlo con un’identità femminile e indipendente.

    Indipendente come la squadra che ha seguito e curato tutti i suoi lavori: RKH Studio di Torino con Roberto Chetti, il producer Safe, Manuel Mosso alle registrazioni e master, la coreografa Lucrezia Rossi, le fotografie di Laura Atzeni. Un collettivo che ha dato vita a un immaginario coerente fatto di movimento, introspezione e carattere.

    «La mia musica è un rewind – dice – un modo per fermarsi, ballare, respirare e riscoprire un po’ di semplicità.»

    Il personaggio è tutto fuorché costruito: Khris non è un prodotto, è un processo. E si sente. È cresciuta con Lauryn Hill, Beyoncé e Janet Jackson, ha lavorato nel circuito underground italiano, si è fermata quando il sistema non le permetteva di essere vera. E adesso, ha deciso di farsi sentire. Non per dimostrare qualcosa. Ma per riprendersi il suo spazio.

    Khris porta in Italia una voce femminile che colma un vuoto culturale. Non un revival, non un ricordo romanticizzato: un linguaggio per raccontare il presente, in italiano, con un’identità chiara e riconoscibile. Non si allinea a mode o classifiche, le ignora consapevolmente. E in un momento in cui la musica italiana sembra aver perso le sue zone grigie – quelle dove si può essere fragili, dolci, complessi, non performanti – lei ne rivendica la centralità.

    La mappa sonora di Khris, una narrazione in quattro atti:

    “Ali d’acciaio”, il brano più intimo. Scritto per la figlia, è un R&B contemporaneo ed elegante in cui la voce di Khris diventa lo spazio in cui la paura si trasforma in speranza. «Indosso ali d’acciaio, le terrò qui per te» canta, raccontando quella capacità – tipicamente femminile – di reggere il mondo proteggendo chi si ama.

    “Brucia il tempo” è invece la sua dichiarazione più politica. Parla della società che corre, dei pensieri scritti senza pensare sui social, della mancanza di empatia. «Un secondo, un minuto, un’ora… al diavolo la fretta. Brucia il tempo sulla tua strada.» È un invito a prendersi tempo per capire cosa stiamo vivendo davvero. In un’Italia che consuma contenuti e persone alla velocità di uno scroll, “Brucia il tempo” è la compagna sonora ideale per chi ha scelto di non tenere il ritmo, ma il respiro.

    Con “Diamante” Khris mette al centro il tema della forza delle donne e dell’identità, e lo fa con una scrittura limpida e affilata. «Lei è diamante, il colore rosso in un film bianco e nero.» È una dedica all’universo femminile, alla fragilità come valore, alla forza che nasce dalle crepe, alla libertà di essere sé stessi anche quando si sbaglia. È anche il suo brano più cinematografico, quello che più ricorda la sensibilità R&B internazionale: linee vocali pulite, produzione essenziale, parole che restano sottopelle.

    Infine, “Il disco gira”, chiude il cerchio e riapre il futuro. È una canzone sulla ripartenza, ma senza nessun tipo di retorica. Il ritmo è contagioso, il messaggio netto: tornare a muoversi, a sentire, a credere nel proprio battito. «Il mio corpo si muove, è solo un’altra nota ma il disco gira»: non è solo una frase, è un modo di stare al mondo.

    Nei suoi brani c’è il calore delle produzioni anni 2000 e la consapevolezza di chi ha vissuto il silenzio e la fatica del ritorno. Khris non è un nome nuovo, ma è nuova la sua urgenza. Oggi, in un mercato musicale in cui tutto sembra già detto, lei sceglie la semplicità come tratto distintivo. Come modo per farsi ascoltare davvero. E in un Paese che spesso fatica a riconoscere l’R&B come linguaggio possibile, lo riporta dove deve stare: dentro la realtà, nelle storie comuni, nel cuore di chi ascolta. Perché, come lei stessa dichiara,

    «A volte la musica fa bene, altre fa male. Ma se smetti di sentirla, smetti anche di sentirti vivo.»

  • Dalla cultura del patinato alla verità che cola: il nuovo linguaggio pop-rock di Cino Cino

    Ci sono persone che ci restano accanto. Anche quando il trucco ci cola sul viso, gli specchi si incrinano e il respiro si fa corto. Cino Cino le chiama “bussole”: presenze che, nei giorni in cui perdiamo il senso, riescono a riportarci a noi stessi. Senza giudizio, senza chiederci nulla in cambio. Con “Ti cola il trucco”, ottavo inedito del suo percorso solista, il cantautore sardo affronta un tema che oggi parla a tutti, anche fuori dalla musica.

    Viviamo in un tempo in cui la permanenza è eccezione. Relazioni, lavori, luoghi: tutto scorre, e spesso si dissolve. Il linguaggio quotidiano si è riempito di termini come ghosting e burnout, mentre mostrare la propria umana fragilità è ancora visto come un rischio da evitare.

    Negli ultimi due anni, la rappresentazione di questo aspetto trascurato, a lungo considerato come debolezza da occultare, ha però trovato nuove forme di espressione: dai trend social che immortalano lacrime e mascara colato, fino ai podcast e alle serie che trattano la sfera delle relazioni come “luogo” di cura o di abbandono. Sulla piattaforma TikTok, i contenuti con hashtag legati al “crying make-up” hanno raggiunto decine di milioni di visualizzazioni, segno di una curiosità crescente per immagini e racconti che non nascondono ciò che solitamente si tende a tenere per sé stessi. “Ti cola il trucco” si inserisce in questo scenario ma lo sovverte: non sottolinea l’estetica della lacrima, ma la concretezza di chi rimane accanto quando tutto vacilla.

    Il brano nasce di getto, in pochi giorni, ma porta con sé anni di vissuto. Parole in primo piano, arrangiamenti ridotti all’osso, un pop rock essenziale: «pioggia d’estate», «lenzuola stropicciate», «occhi tra stelle gelate». Il ritornello — «Ti cola il trucco ma resti qui, non servono filtri per farti brillare» —non è una celebrazione dell’apparenza, ma un riconoscimento di chi ci vede per quello che siamo, meravigliosi nella nostra unicità, senza bisogno di aggiustarci l’immagine o trovare parole di circostanza. La scelta di questa struttura minimale rafforza l’impatto delle parole, che affiorano senza sovrastrutture, sostenute da un ritmo che le lascia respirare, facendo sì che si imprimano nella mente.

    «Mi interessava raccontare chi ci resta vicino, non chi scappa davanti alle prime difficoltà – spiega Cino Cino -. L’idea del trucco che cola è arrivata dopo una notte storta: non c’era niente da sistemare, serviva solo qualcuno che stesse lì. Le bussole sono quelle persone che ci riportano al centro quando perdiamo il nord. Sono coloro che ci aiutano a ritrovare la rotta, anche quando ci sembra di esserci persi per sempre.»

    Un concetto che si inserisce in un dibattito sempre più vivo – dal fenomeno del “crying make-up” su TikTok ai contenuti che mostrano momenti reali anziché filtrati -. In tempi in cui termini come ghosting e burnout sono diventati parte del vocabolario quotidiano, il brano sceglie di raccontare la permanenza, la presenza attiva. Una scelta narrativa che parla a un pubblico ampio, anche oltre quello musicale.

    Dietro Cino Cino c’è Andrea Careddu, musicista con oltre vent’anni di esperienza come voce e chitarra dei Magar, finalisti a Rock Targato Italia 2017 e protagonisti di festival e rassegne nazionali. Dal 2021 ha intrapreso un percorso solista indipendente che conta otto inediti, tra cui “Selvaggia e chimica”, “Come rose a novembre” e “Graffi sui muri”. Con “Ti cola il trucco”, raggiunge la sua cifra più intima, unendo l’esperienza maturata nei live con la libertà espressiva della scrittura personale.

    «Ho cercato un suono diretto, pulito, che non coprisse il senso del testo. È un brano scritto di getto, ma con dentro tutte le persone che hanno fatto la differenza nella mia vita» – conclude l’artista.

    Come il mascara che scivola dalle ciglia senza nascondere il volto, “Ti cola il trucco” mostra la bellezza di ciò che siamo quando le apparenze svaniscono. In un’epoca di presenze altalenanti, intermittenti, il brano ci invita ad esserci. Davvero. Per gli altri, e per noi stessi.

  • L’amore liquido raccontato dai Ferrinis: “Twins Deluxe” è il ritratto di una generazione

    Ci sono album che non si limitano a suonare bene, né a raccontare storie. Alcuni ti passano accanto, altri ti costringono a specchiarti dentro. Li ascolti, e ti sembra di vedere qualcosa che hai vissuto anche tu. Non perché ti somigliano, ma perché ti riportano a momenti, emozioni e parti di te che avevi lasciato indietro.

    “Twins Deluxe” dei Ferrinis è questo: non un aggiornamento, ma un nuovo inizio. Non è una semplice versione estesa, ma una ferita che si riapre per guarire meglio. Maicol e Mattia Ferrini non hanno solo aggiunto canzoni. Hanno aggiunto maturità, profondità e tratti di un percorso che li sta trasformando da hitmaker – figli della Romagna e delle sue piste da ballo – a due delle penne più riconoscibili del pop italiano contemporaneo. Hanno rimesso in discussione tutto. E lo si sente in ognuna delle quattro tracce inserite nella deluxe. Si percepisce nel sound, nello spessore dei testi, nei silenzi che diventano musica prima ancora che parole.

    Un disco che non si consuma nello scroll, ma chiede di fermarsi per abitarlo.

    “Twins Deluxe” nasce dalla necessità personale del duo di raccontare un tempo in cui i rapporti non finiscono mai davvero: restano irrisolti, incompiuti, e si confondono, implodendo prima ancora di definirsi. Una generazione che vive tra vocali non inviati e verità dette a metà, dove “non siamo più niente” non significa “non sento più niente”.

    E proprio per questo, l’album parla chiaro. I quattro nuovi singoli inclusi in tracklist – “Le Luci di New York”, “Giganti”, “Ti Verrò a Cercare” e l’inedita “Folle Bugia” – non sono un supplemento superfluo, ma una chiave di rilettura: riaccendono le dieci precedenti, le illuminano da altri angoli, le portano a compimento come scene di un film rimontato da capo.

    “Folle Bugia” non è solo l’inedito in tracklist: è il brano che rende esplicito ciò che “Twins” aveva solo suggerito. È la bugia che ci raccontiamo per andare avanti; un pezzo scritto per tutte le volte in cui abbiamo detto “sto bene”, sapendo che stavamo mentendo perfino a noi stessi.

    Non un tentativo di riconquista, ma la consapevolezza di quanto ci si perda lungo la strada. Due ex che non riescono ad esserlo fino in fondo, due cuori ancora collegati da un filo ostinato chiamato orgoglio.

    «E se dirai che tu non ci pensi più sarà solo una folle bugia» è il verso che sottolinea come spesso si scelga di negare ciò che si prova davvero. Secondo una ricerca pubblicata nel Journal of Social and Personal Relationships (2023), oltre il 60% delle persone, dopo una rottura, tende a minimizzare o negare la sofferenza per proteggersi dall’impatto che la perdita comporta sulla vita quotidiana e sulle relazioni successive. Un meccanismo di difesa che i Ferrinis mettono in primo piano, descrivendo quella zona grigia in cui si mente non per ingannare, ma per riuscire a convivere con un vuoto che non si lascia colmare.

    Le nuove tracce non sono semplici appendici, ma capitoli che riscrivono il senso di “Twins”, spostando lo sguardo oltre il racconto immediato, per aprire una riflessione più ampia sul modo in cui oggi ci amiamo, ci lasciamo e, in alcuni casi, ci riavviciniamo.

    “Le Luci di New York” è la fotografia di un amore liquido che brilla solo in superficie. Una situationship in stile HBO, tra skyline patinati e promesse che si spengono all’alba: una corsa dentro relazioni che iniziano già fragili, riflesso di una generazione abituata a vivere tra edonismo e instabilità.

    In “Ti Verrò a Cercare”, Maicol e Mattia cantano i legami che resistono anche quando sembrano finiti, fatti di silenzi e di ritorni possibili. La fotografia pop di giovani adulti abituati a relazioni intermittenti, tra chat e assenze. Musicalmente, il brano sceglie linee elettroniche essenziali e aperture melodiche: pochi elementi, calibrati, per custodire intimità e nostalgia.

    “Giganti”, infine, è il passo più maturo del duo, che arriva da estati di hit dance e oggi sceglie una scrittura più profonda, più consapevole. In un pop che spesso accumula suoni e crescendo, qui la scelta è opposta: sottrarre, lasciare spazio, raccontano il coraggio di ripartire tra cadute, silenzi e singole identità da ricostruire.

    Insieme, queste quattro canzoni, danno nuova luce alle dieci precedenti, rendendo “Twins Deluxe” un disco che puoi ascoltare da capo e sentire in modo diverso. Come rileggere un messaggio vecchio dopo aver vissuto qualcosa che ti ha cambiato. Una storia che continua a chiamare, anche dopo l’ultima traccia.

    Se “Twins” era un album-finestra – da cui osservare legami, derive e ritorni – “Twins Deluxe” è un album-eco. Risponde, riscrive, rimette in discussione.
    E i Ferrinis, in questo processo, non cambiano solo passo: cambiano pelle. Rimanendo, sempre, fedeli a loro stessi.

    Definiti dalla stampa “il duo pop più promettente della scena italiana”, i Ferrinis sono oggi un progetto in piena evoluzione, che ha scelto di accantonare la comfort zone delle hit estive per misurarsi con temi più complessi e scritture più essenziali. Un percorso che mostra maturità crescente e la volontà di ridefinire il genere attraverso sottrazione, introspezione e racconto.

    Maicol e Mattia non imitano nessuno. Non programmano le uscite in base alla moda del momento, ma in funzione del loro sentire e della loro urgenza espressiva. Hanno costruito un immaginario coerente, personale ma condivisibile da molti loro coetanei, dove le relazioni si sfaldano e si rincollano a ritmo di synth e parole nuove.

    In un mondo che cerca lo scroll, loro scelgono il tempo. E in un mercato che punta al ritornello virale, loro scrivono frasi che si incidono sottopelle.

    “Twins Deluxe” non chiude un progetto: lo apre davvero. Perché certe storie hanno bisogno di essere riviste da capo per essere capite fino in fondo.
    E a volte basta una frase, una canzone, un’intuizione, per rimettere tutto in discussione. I Ferrinis questo lo sanno. E nella versione deluxe del loro secondo album lo dicono: non tutte le ferite si chiudono, ma alcune iniziano a guarire quando smetti di nasconderle sotto il silenzio e trovi le parole per accettarle e attraversarle.

    “Twins Deluxe” – Tracklist:

    1. Il Nostro Film
    2. Giganti
    3. Rollercoaster
    4. Lussuria e Desiderio
    5. Folle Bugia
    6. Poche Ore
    7. Aspettami
    8. Aspettavo Questa Notte
    9. Caldo Atomico
    10. Ti Verrò A Cercare
    11. Coca e Malibù
    12. Le Luci Di New York
    13. Labbra al Curry
    14. Senza Lieto Fine

  • Il primo artista italiano virale su TikTok, ai tempi di Musical.ly, torna con “Bandida”

    È stato tra i primissimi a portare TikTok in Italia, quando ancora si chiamava Musical.ly. Nel 2018, il suo brano “Chica Pequeña”, nato da un beat scaricato online e privo di diritti, esplose con oltre 80.000 video creati dagli utenti, milioni di ascolti e l’ingresso nella Viral 50 di Spotify. Fu condiviso da alcuni dei profili che oggi sono tra i creator più seguiti in Italia – da Gaia Bianchi ad Aurora Celli, da Emily Pallini a Jenny Preda –, contribuendo a trasformare quella spontaneità in un fenomeno destinato a cambiare il mercato. Un successo che anticipava di anni la rivoluzione dei social musicali e la nascita della creator economy. Oggi, in un mercato che discute di copyright, intelligenza artificiale e appropriazioni, SIDE BBS – al secolo Simone De Lucia – sceglie di trasformare quell’“errore di gioventù” in una carriera indipendente, aprendo un nuovo capitolo con il singolo “Bandida”.

    «Quattro milioni di ascolti con un brano senza diritti. Non ci ho mai guadagnato nulla, ma è stata la mia scuola – racconta -. Ho capito subito che bastava un’idea per smuovere un’intera generazione. E che senza un team vero, senza professionalità, non avrei mai potuto andare avanti. Oggi non cerco la via più semplice, voglio costruire passo dopo passo.»

    SIDE BBS è cresciuto tra le sonorità di Bad Bunny e Nicky Jam, ma ha trovato un’identità tutta sua, al confine tra l’urban milanese e la scena latina europea. Dopo le prime release in Italia, ha consolidato una base anche in Spagna: concerti, radio e collaborazioni lo hanno portato in Andalusia e alle Canarie, fino alla pubblicazione del brano “Dentro Di Me”, insieme a Rick, artista madrileno.

    «In Spagna ho sentito davvero che la mia musica aveva spazio – prosegue -. Persino il sindaco del mio comune mi ha chiamato per congratularsi. E allora mi chiedo: perché in Italia si conta solo quando ti riconoscono fuori dai confini?»

    “Bandida”, prodotto da Cristian Tiraboschi, è un brano reggaeton pensato per i club, ma non si limita a far ballare. Cullato da un beat morbido e articolato su una scrittura ibrida tra italiano e spagnolo, racconta dinamiche intermittenti, sparizioni, ricadute del cuore. La relazione narrata nel testo ha i contorni di una generazione che si muove su un filo instabile, quello tra l’intimità e la fuga, tra il bisogno di connessione e la tendenza a dissolversi.

    «Mami tu sei una bandida, dicevi vuoi stare fuori dai guai però poi ti sei persa, ma il fatto è che mi sono perso anch’io», è una delle strofe che meglio sintetizza tono e accezione del brano, a metà tra disillusione e attaccamento.

    «Con “Bandida” – conclude l’artista – volevo unire le due anime che ho dentro: quella che cerca la leggerezza del club e quella che vuole realizzare qualcosa di grande e duraturo. L’Italia, probabilmente, per ora non capirebbe un disco reggaeton intero, ma un giorno sarà pronta, ne sono certo. E quando accadrà, voglio essere lì. Oggi la mia città, Milano, è la capitale della moda e del design: può diventare anche la capitale europea del latin urban. Ma serve crederci.»

    Ad accompagnare il singolo, il videoclip ufficiale diretto da Simone Nicolaci, che vede la partecipazione di Vera Di Leo, sexystar italiana e content creator attiva nel settore dei contenuti per adulti. La sua presenza diventa la chiave di lettura perfetta per il tema centrale del brano: la tentazione.

    Il progetto si sviluppa con nuove collaborazioni sia italiane che internazionali, anche grazie al supporto di figure come Don Gigio, imprenditore italo-spagnolo, e Maestro Franz. L’obiettivo non è inseguire i numeri, ma dar vita ad un modello sostenibile, capace di durare nel tempo e di portare una nuova sensibilità musicale all’interno del mercato italiano.

    La traiettoria di SIDE BBS è anche il riflesso di un’industria musicale che, nel giro di pochi anni, è passata dall’improvvisazione dei video amatoriali a un mercato globalizzato in cui tutto è pianificato e misurato. In questo scenario, “Bandida” rappresenta non solo il ritorno di un artista, ma la presa di posizione di chi ha vissuto il cambiamento dall’interno e oggi sceglie di affrontarlo con consapevolezza.

  • Quando il rap incontra la psicologia dei social: DannyZ racconta il dolore invisibile

    Un telefono che vibra, lo schermo che si illumina, la notifica che speri abbia un nome preciso. Ma poi non è mai quella che stai aspettando.

    È da qui che parte “Non Hai Più Scritto”, il nuovo singolo di DannyZ, 20enne romano già noto per una storia personale che avrebbe fatto comodo romanzare — ma che lui ha sempre trattato con una distanza chirurgica.

    Stavolta, però, l’artista non parla nemmeno di sé. O almeno, non solo. Il brano nasce infatti da decine di messaggi ricevuti su Instagram: racconti di amori finiti, di ex che continuano ad abitare i pensieri, di fotografie salvate per non dimenticare. Poi, silenzi improvvisi, chat rimaste mute. DannyZ li ha letti, custoditi, e ne ha fatto una canzone. Una canzone letteralmente scritta partendo dai DM dei suoi follower. Non per spiegare. Ma per restituire una sensazione precisa: quella di una conversazione ancora aperta, che nessuno ha il coraggio di chiudere davvero.

    Nell’attuale scena urban è sempre più comune farsi notare alzando la voce, mostrandosi invincibili, raccontando conquiste. DannyZ fa il contrario: abbassa il tono. Il brano sta tutto lì: in versi che non spiegano, ma che riconosci. Frasi che parlano di ghosting, di quanto l’assenza di spiegazioni sia diventata consuetudine. Una sospensione che destabilizza e resta addosso come un nodo.

    Non ci sono metafore, nessun eroe e nessuna morale: solo la realtà di uno scambio ancora aperto, senza risposta. Una storia che non trova conclusione effettiva, scritta senza pietà né dramma. Una pagina che nessuno ha chiuso.

    Quella raccontata dall’artista non è una dinamica sporadica, ma una delle nuove forme di rottura affettiva più diffuse tra adolescenti e giovani adulti. Il ghosting come fenomeno sociale, spia di un’epoca iperconnessa che spesso evita il confronto diretto, e normalizzato al punto da non sorprendere più nessuno. Al punto da parlarne quasi sempre con superficialità, come se fosse un dettaglio trascurabile.

    Ma i numeri raccontano altro.

    Uno studio del 2023 pubblicato sul Journal of Social and Personal Relationships, segnala che oltre il 65% dei ragazzi tra i 18 e i 29 anni ha vissuto almeno una volta un’esperienza di ghosting. Le conseguenze? Frustrazione, calo dell’autostima, difficoltà a fidarsi. Di sé e dell’altro. Ferite silenziose – e silenziate – che spesso non trovano un linguaggio per essere dette.

    In questo contesto, “Non Hai Più Scritto” è la fotografia asciutta e musicale di ciò che succede ogni giorno — e che raramente viene raccontato. Per pudore. Per paura di sembrare deboli in una società che sembra volerci sempre forti, performanti. E che ci chiede di archiviare tutto in fretta, anche ciò che non è stato davvero metabolizzato, superato, chiuso. O semplicemente, perché certe mancanze, anche se fanno male, non sembrano abbastanza importanti da meritarsi una narrazione.

    «Questo brano l’ho scritto a partire dai messaggi che i miei fan mi hanno mandato nei DM: storie di relazioni finite, di ex che restano nella testa anche dopo mesi, di attese che fanno soffrire – dichiara DannyZ -. Dentro ci ho messo anche un pezzo della mia vita. Credo che ognuno, ascoltandola, possa dare a questa canzone un nome e un cognome.»

    Nelle barre si percepisce lo stesso approccio netto che ha contraddistinto i brani precedenti: non compiacere, ma raccontare. Non ostentare, ma mettere in luce la realtà per quella che è.

    Un percorso coerente che riconferma l’artista capitolino come una voce riconoscibile nel panorama urban italiano: dalla sua vicenda personale di disabilità fisica trasformata in determinazione – che lo ha portato ad essere definito dalla stampa “il rapper che ha imparato a camminare due volte” -, fino al racconto delle difficoltà sociali, personali, sentimentali ed emotive condivise da migliaia di coetanei.

    “Non Hai Più scritto” è un pezzo che funziona non perché è profondo, ma perché non cerca di esserlo. Non c’è strategia, non c’è climax, non c’è redenzione. C’è solo un dato di fatto: molte relazioni, oggi, finiscono in silenzio. E quel silenzio fa rumore dentro.

    Non è il solito sfogo personale.
    Parla anche di chi lo ascolta, non solo di chi lo ha scritto.
    E soprattutto, mostra qualcosa che succede tutti i giorni: le chat che si spengono, i legami che si sciolgono senza dire niente, le emozioni che vengono raccontate prima a un artista in DM che a uno psicologo in studio.
    E forse è proprio questo il punto.

    «Scrivere questa canzone è stato come lasciare aperta una chat che in realtà si è chiusa da tempo. È il modo che ho trovato per dire che certe attese non finiscono mai davvero, ma si trasformano in musica. E forse, proprio ascoltandole, troviamo anche il coraggio di voltare definitivamente pagina.» – DannyZ

  • La sensualità che non é oggetto né statement: la “Collana di Perle” di Iside

    Il pop femminile oscilla spesso tra empowerment dichiarato e ipersessualizzazione estetica. Parla di libertà, ma a volte resta prigioniero dello sguardo esterno. La giovane cantautrice sarda Iside, dopo aver riportato la luna al centro della narrazione musicale con “Luna Calamita”, sceglie un nuovo simbolo per parlare di femminilità e desiderio: una “Collana di Perle” che brilla, si tende e poi si spezza. Un desiderio raccontato dal punto di vista di chi ne è oggetto e soggetto insieme. Nessuno statement, nessuna provocazione: solo l’immagine di un corpo che smette di compiacere e comincia a riconoscersi.

    Nel testo, le perle non sono gioielli. Sono una seconda pelle, un’epidermide sociale. Il codice muto di chi è guardata e interpretata dall’esterno, dagli occhi degli altri. La collana va in frantumi, e con lei l’idea che mostrarsi, concedersi, essere leggibili – sia una forma d’amore.

    Non è una liberazione. È una crepa nella dinamica.

    «Io mi vendo e mi svesto d’amore» è il verso che meglio rappresenta il senso del brano. Perché non racconta una vittoria: racconta la consapevolezza di un prezzo. Dentro c’è una donna che ha dato tutta sé stessa per essere cercata, apprezzata. Per essere amata. Ma che, per la prima volta, si guarda mentre lo fa.

    Non c’è una rottura evidente. Ma una frizione tra desiderio ed esposizione.
    Ed è lì che nasce un punto di vista diverso: non da fuori, ma da dentro.

    “Collana di Perle” è il momento esatto in cui ci si accorge che qualcosa non torna più. E che forse, quella sensualità, va riscritta da zero.

    Il messaggio del singolo è nella scelta di interrompere la richiesta di legittimazione. Una scelta che attraversa una generazione di giovani donne che non cercano conferme, ma spazio. Spazio per essere chi vogliono essere. Per esistere senza dover piacere ad ogni costo. Per mettere un confine, anche quando il mondo si aspetta dolcezza.

    La collana è il contatto con la materia, la pelle che torna esperienza, il desiderio che si adatta, che si camuffa per non essere frainteso. È il punto in cui il corpo diventa cosciente di essere esposto, ma non si riconosce più nello sguardo che lo osserva. Dove la sensualità non si espone, ma prova ad affermarsi. Un gesto minimo, che tenta di restituire al corpo il diritto di appartenersi. Senza chiedere il permesso. Senza scusarsi.

    Iside canta:

    «Aretha, chiedi un po’ di rispetto per me

    Non è una citazione soul, non è un omaggio nostalgico. È un’invocazione, una fenditura del presente, fatta da chi non cerca più parole nuove per spiegarsi. Ma si affida a una voce più grande — non per evocare il passato, ma per chiedere a un’icona di rimanere in campo.
    Perché il rispetto non è negoziabile e non ha scadenza storica: vale adesso, e ancora. Vale per il corpo, per il desiderio, per il posto che ogni donna deve potersi prendere — senza doverlo prima giustificare.

    Da qui, il brano si trasforma, il punto di vista si capovolge: non più una narrazione su “come si viene guardate”, ma su come si sceglie di guardare. Iside non sta domandando attenzione. Sta affermando che il rispetto non è una concessione. È un diritto.

    E in quel «Mi chiedo se cercherai la mia voce tra le note, tra la pelle, tra le perle della collana che strapperai», la domanda non è solo per un interlocutore maschile. È rivolta, soprattutto, alla parte di sé che si svuota per piacere.

    È il punto di rottura tra il dover piacere e la possibilità di riconoscersi. E bastarsi. Non come gesto di chiusura nei confronti degli altri, ma come atto di amor proprio. Perché piacersi non dovrebbe essere la conseguenza di come ci vedono gli altri. Ma il primo passo per smettere di esistere solo attraverso i loro occhi.

    «Questa canzone – dichiara l’artista – nasce all’idea che, per piacere, a volte ci si svuota. L’ho scritta nel momento in cui mi sono chiesta: quante parti di me ho lasciato andare per sentirmi scelta? Non volevo parlare di libertà come se fosse una conquista già fatta. Volevo mostrarla mentre si costruisce, mentre ancora inciampa.»

    Musicalmente, il brano abita quella zona in cui Afrobeat e R&B si fondono in un groove arricchito da pochi elementi essenziali e un respiro caldo. È un pezzo fisico ma elegante, radiofonico senza rinunciare alla scrittura. Scrittura che colloca Iside tra le autrici che raccontano la propria generazione con il lessico del corpo e la profondità della parola.

    Prodotta da Kidd Reo e disponibile in tutti i digital store per Daylite/ADA Music Italy, “Collana di Perle” segna un cambio di passo: meno notturno, più fisico. Ma resta fedele alla cifra autoriale che distingue Iside: fare del pop un linguaggio in cui estetica e contenuto convivono senza che l’una prevalga sull’altro. Con canzoni che non vogliono fare grandi proclami per ottenere attenzione. Vogliono silenzio attorno. Per farsi sentire meglio.

    “Collana di Perle” non definisce la sensualità, la mette in discussione. La osserva mentre cambia forma – da costruzione per piacere, a spazio per appartenersi. E ci porta a domandarci: cosa rimane, quando ci si sveste l’anima per essere scelti? E se il rispetto passasse anche da lì, dal riscrivere il desiderio come forma di consapevolezza, non di concessione?
    Forse non dà una risposta. È solo una possibilità, un passaggio. Un modo per tornare a sé. Senza scusarsi. Senza dover per forza giustificare tutto. Specialmente, davanti a sé stesse.

  • Il nome di Albano Carrisi diventa simbolo di educazione musicale e cultura: nasce una sala a suo nome

    Un laboratorio di educazione musicale dedicato ai valori della tradizione italiana. Nel cuore del quartiere Pigneto, Techpro Records ha inaugurato la Sala Albano Carrisi, un nuovo ambiente dedicato alla formazione artistica e alla crescita dei giovani musicisti. Non un semplice spazio per lezioni, ma un luogo di incontro e ispirazione, in cui la musica diventa strumento di espressione, disciplina e dialogo tra generazioni.

    La sala, intitolata ad Albano Carrisi, rende omaggio non solo a una delle voci più riconoscibili della canzone italiana, ma anche all’uomo e ai valori di umanità, passione e impegno che hanno contraddistinto la sua carriera. L’artista ha partecipato personalmente all’inaugurazione, tagliando il nastro e condividendo con studenti e insegnanti un momento di confronto e di emozione.

    Ospitata negli studi di Techpro Records in Via Giovanni Brancaleone 61, Roma, la Sala Albano Carrisi accoglierà corsi di Canto, Chitarra e Pianoforte, oltre a laboratori e masterclass aperti a giovani aspiranti musicisti. L’obiettivo è quello di offrire un percorso di formazione professionale che unisca tecnica, creatività e consapevolezza artistica, in un contesto dove la produzione musicale incontra l’insegnamento.

    «Volevamo creare uno spazio che restituisse alla musica il suo valore educativo. La sala dedicata ad Albano Carrisi rappresenta il legame tra esperienza e futuro, tra la grande tradizione della canzone italiana e i giovani che oggi cercano la propria voce – dichiara la dirigenza di Techpro Records -. Crediamo che la musica non sia solo intrattenimento, ma anche una forma di crescita personale e culturale. Questo è il messaggio che vogliamo trasmettere ai nostri studenti.»

    Con questa iniziativa, Techpro Records consolida la propria vocazione di centro di formazione e produzione musicale, impegnato nella valorizzazione dei talenti emergenti e nella diffusione della cultura musicale, italiana e internazionale.

  • Oltre Sanremo e TikTok: chi sono gli artisti che pubblicano ancora musica dopo i 50 anni?

    C’è una generazione di musicisti che sembra essere invisibile al mercato, eppure continua a pubblicare, a suonare nei locali, ad auto-produrre. Mentre l’industria tende a considerare gli under 25 virali su TikTok, c’è chi non ha mai smesso di vivere la musica, senza pensare ai numeri né agli algoritmi.

    Che fine hanno fatto gli artisti adulti? Cosa succede a chi persevera, ma resta fuori da tutto?

    Dentro questa narrazione c’è la storia di Gennaro Fasano, 58 anni, pugliese, che dopo una vita passata sui palchi – dalle navi da crociera ai festival con Franco Califano, Ron, Fiordaliso e gli O.R.O. – rilancia il suo percorso con “Noi Due”, il nuovo singolo edito da Monocroma. Un debutto discografico che arriva dopo una vita spesa nella musica e che lo ha visto recentemente anche protagonista della prima puntata della dodicesima edizione di Tu sì que vales su Canale 5.

    «Ho sempre creduto che la musica non fosse questione di età, ma di verità – racconta Fasano -. Ho cantato nei piano-bar e nei villaggi turistici, ho fatto tournée come tastierista e corista, ma non ho mai smesso di scrivere. Oggi pubblico “Noi Due” e sento che, nonostante tutto, la mia voce ha ancora un posto.»

    Con “Noi Due”, Fasano sceglie una ballata semplice, per raccontare un amore che dura, resiste. «Non siamo un esame, l’amore rimane», canta. È una canzone romantica, sì. Ma anche un modo di restare nel tempo, senza rincorrere nient’altro. Nient’altro se non l’urgenza di dire quello che ha imparato vivendo. E di raccontare una storia che vale ancora la pena di essere cantata.

    «Questa canzone nasce dalla mia esperienza personale, ma credo ci si possano identificare tutte le persone che hanno vissuto una relazione lunga, con le sue altezze e le sue fatiche – conclude l’artista -. Oggi vedo tanti giovani che inseguono i numeri e i trend, e lo capisco: è il mondo in cui vivono. Io invece sento il bisogno di raccontare ciò che ho vissuto sulla mia pelle. È la differenza tra un momento storico che cerca il virale e chi ha attraversato la vita con la musica come compagna.»

    Il progetto musicale di Gennaro Fasano è sostenuto anche dall’esperienza di Rossano Eleuteri, polistrumentista, autore, produttore e compositore che ha lavorato al fianco di grandi nomi della musica italiana, tra cui Riccardo Cocciante, Ivan Graziani, Nek, Gipsy Kings, Loredana Bertè, Paola Turci, Toto Cutugno, Modà e Gianluca Grignani. Un legame che porta dentro il singolo “Noi Due” l’eredità di una stagione musicale italiana capace di mescolare pop, rock e sensibilità cantautorale.

    In un mercato in cui tutto sembra misurarsi in visibilità, velocità e KPI, la storia di Fasano diventa un controcampo necessario: la testimonianza di chi ha continuato a fare musica con costanza, anche quando non c’erano i social, lo streaming, e l’unico indicatore era il palco.

  • Il nuovo singolo di Priscilla Marvel fotografa la disillusione del lavoro precario

    C’è chi dice che il lavoro nobiliti l’uomo. Priscilla Marvel risponde con una strofa che non lascia spazio a equivoci: «Odio il mio lavoro ma qualcuno lo deve fare. Hanno detto che nobilita l’uomo, ma io ho le rate da pagare». “Cuore di panna”, il suo nuovo singolo, non è l’ennesima canzone sul disagio giovanile: è un piccolo trattato pop sulla stanchezza sociale come condizione permanente, raccontata con il linguaggio dei millennial e della Gen Z. A firmarne la produzione è Velli (Valentina Samberisi), producer e musicista con cui Priscilla porta avanti un percorso interamente al femminile: una scelta consapevole e quasi politica, in un settore dove il gender gap resta evidente e i talenti femminili faticano ancora a trovare spazio.

    Un brano che affronta il tema dell’anticapitalismo con una chiave ironica e sorprendentemente leggera, sottolineando la fatica di una generazione costretta a correre sempre più veloce, tra precarietà e continua ricerca di efficienza, mentre il mondo attorno si sgretola. «È impossibile fare la rivoluzione se sei stanca» non è solo l’incipit del brano, ma la sintesi di una condizione diffusa. Il corpo, la mente, il tempo: tutto viene cannibalizzato da un modello di vita che pretende produttività continua. La retorica del “se vuoi puoi” e del “basta impegnarsi” si infrange contro la realtà di lavori precari, salari bassi e aspettative di efficienza permanente. Priscilla Marvel rovescia questa narrazione e lo dice senza giri di parole: se sei esausta, se non riesci nemmeno a respirare, non puoi cambiare le cose. La rivoluzione non è un atto eroico, ma richiede energie che il sistema stesso toglie.

    In tal senso, il titolo, apparentemente innocuo, racconta molto più di quanto sembri. “Cuore di panna” intercetta quella parte di resistenza sottile e silenziosa che si rifiuta di farsi consumare completamente dal logorio della società contemporanea, anche quando tutto sembra chiedere perfezione.

    Sotto l’immaginario zuccherino si muove un disagio concreto, che si inserisce in un dibattito molto più ampio: quello di chi è cresciuto con la promessa di opportunità illimitate, e che invece si trova schiacciato da instabilità, disillusione, precarietà, burnout e sogni lasciati nel cassetto.

    Accanto al beat elettronico curato da Velli, le chitarre di Guido Fontana spezzano la freddezza digitale con incursioni più materiche. Dentro questo intreccio si innestano versi che, tra allegoria e disincanto, scelgono la nuda evidenza, come «Sei una statua di marmo ma dentro sei un caos come un quadro di Picasso»: uno scarto netto che diventa cortocircuito, specchio dello stato catatonico in cui si riconosce una parte della generazione a cui Priscilla appartiene.

    Dietro “Cuore di panna” c’è un percorso che parte da lontano. Gabriella Marvulli – questo il vero nome dell’artista – inizia nel 2012 con un progetto sperimentale basato su pianoforte, voce e batteria. La svolta arriva nel 2022 con Alka Record Label, con cui pubblica i singoli “Venerdì”, “Toy Boy” e “Sempre in guerra” – brani in cui il cantautorato incontra l’indie-pop – e le prime tracce elettroniche. Con “Fenice” (2024) nasce invece la collaborazione con la producer Valentina Samberisi, in arte Velli: una scelta che riflette una visione ben definita: quella di un progetto al femminile, capace di mettere al centro la condivisione e la possibilità di scrivere nuove regole nel panorama musicale.

    Oggi, quell’esperienza confluisce in “Donna Ostile”, l’EP in uscita nei prossimi mesi: cinque canzoni nate senza un concept predefinito, ma legate da uno sguardo critico verso il presente. Dalla “felicità di plastica” all’amore ridotto a bene di consumo, i testi raccontano un disagio condiviso tanto dai millennial quanto dalla Gen Z, in bilico tra il godere del momento e la sensazione di non poter cambiare nulla.

    «Con questo singolo – dichiara Priscilla – ho voluto dire ad alta voce quello che spesso ci viene chiesto di tacere. Ci hanno abituato ad accontentarci, a credere che correre e consumare fosse normale. Io penso sia giunto il momento di dire basta, anche solo con una canzone. So che non cambierò il mondo, ma almeno posso raccontarlo per come lo vedo.»

    Accompagnato dal videoclip ufficiale, diretto da Sofia Zanotti, “Cuore di panna”, è una satira amara che mette in scena quella corsa continua che lascia le persone esauste e svuotate.

    Tra elettronica e cantautorato, Priscilla Marvel dimostra la sua abilità nel trasformare disincanto e precarietà in materia musicale. Non chiede indulgenza e non edulcora la realtà: mette a fuoco cosa significa vivere in apnea tra lavori instabili e ambizioni spezzate. “Cuore di panna” non si erge a proclama, ma a cronaca cantata che intercetta un sentimento comune: quello di chi non vuole più fingere di avere energie illimitate.

    E in un periodo storico in cui si parla molto di burnout e di “grandi dimissioni”, “Cuore di panna” è la voce di una generazione che ha smesso di credere alle promesse e vuole finalmente raccontarsi per quello che è. Una generazione che non cerca eroi, ma riconoscimento. E che trova, in una canzone pop, il modo più semplice e insieme più politico per dirlo.