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  • “Where’d You Go Someday”: una ballata rock che chiede conto al nostro silenzio

    «Il coraggio è l’impronta delle paure». C’è una generazione che ha smesso di reagire. Che abbassa lo sguardo, anche quando a crollare sono i diritti, anche quando a pagarne il prezzo sono i figli. È da questa crepa nel tessuto sociale che parte “Where’d You Go Someday”, il nuovo singolo di Piero Campi, cantautore tarantino d’adozione fiorentina e da anni parte attiva della scena bolognese. Un brano ruvido, diretto, costruito su un sound rock asciutto e internazionale, prodotto e suonato al basso da Marco Schnabl (Think Ahead Studio) con la collaborazione del producer statunitense Analog Tears (Diego Carlo Magno, da Seattle) che ha curato le chitarre e di Andrea Rizzi alla batteria.

    Dopo l’album d’esordio “Tutto Tace”, il cantautore pugliese rompe il silenzio, chiedendo un nuovo sguardo sul presente. Un presente in cui l’indignazione si è fatta sussurro e la ribellione una posa estetica. Campi rimette al centro una domanda scomoda: che fine ha fatto il coraggio? E lo fa con una scrittura che non cerca scorciatoie, ma affonda nei paradossi dei giorni nostri:

    «Parlano di rivoluzione, ma si è fermi come coglioni!»

    In poche righe, una fotografia lucida e spietata. “Where’d You Go Someday” si nutre di contraddizioni, denunciando una generazione in bilico tra memoria e stallo, tra la voglia di cambiare e la paura di fallire ancora. Senza proclami, ma con onesta concretezza.

    «Non volevo un brano che consolasse – spiega l’artista -. Ho scritto questo pezzo in un momento in cui mi sembrava che tutto stesse scivolando nel silenzio: le proteste, i diritti, la coscienza civile. Mi sono chiesto se anche io stessi iniziando a far parte di quel silenzio. È da lì che è nata questa canzone.»

    Una denuncia, ma anche un esame di coscienza. “Where’d You Go Someday” è attraversato da immagini nette e parole dure, capaci di cogliere un’apatia che si è fatta normalità. Non c’è retorica, ma una richiesta implicita di responsabilità, soprattutto verso chi verrà dopo, nei confronti di «un figlio in attesa di un mondo senza eroi».

    Perché, come spiega lo stesso Campi, «Siamo diventati spettatori anche quando si tratta del futuro dei nostri figli». Un’affermazione che assume i tratti di un monito, in una contemporaneità in cui l’indifferenza sembra prevalere. E se, come recita il verso-mantra della traccia, «il coraggio è l’impronta delle paure», allora questa canzone è il tentativo di non farle dissolvere nell’abitudine, restituendo loro presenza e memoria.

    “Where’d You Go Someday” si inserisce perfettamente in un momento storico segnato da un crescente senso di impotenza generazionale. Secondo un recente studio del Pew Research Center, il 57% dei giovani adulti si dichiara “rassegnato all’idea che le proteste non servano a cambiare nulla”. Dato che si riflette in una cultura in cui la rinuncia ha preso il posto della lotta e in episodi recenti, come la sospensione di 17 studenti a Milano per un’occupazione pacifica di un’ora, o le minacce legali rivolte all’artista Badiucao per le sue opere politicamente provocatorie. In questo contesto, Campi non propone soluzioni, ma prova almeno a riaccendere una coscienza collettiva sopita: «Posso ancora immaginare questo mondo senza odiare».

    Ad accompagnare il brano, il videoclip ufficiale, presentato in anteprima nazionale su Sky TG24 e girato negli spazi scuri e simbolici dell’Ottostudio di Bologna, sotto l’attenta direzione di Cristian Spinelli. Al centro della scena, lo stesso Campi, una figura in controluce attraversata da un fascio di luce. Nessun effetto narrativo, solo un’immagine: quella di una via d’uscita possibile, ma non garantita.

    Un’unica inquadratura, una regia minimale ed emblematica, in cui l’immobilità diventa messaggio: la via d’uscita non è scenografica. È una possibilità. Ma per scorgerla, bisogna alzare lo sguardo, proprio come suggerisce il testo:

    «Basterebbe solo alzare lo sguardo, o almeno provare ad avere il coraggio.»

    Piero Campi nasce a Taranto nel 1982. La musica è da sempre il suo linguaggio privilegiato: dagli esordi con i Dharma, band protagonista della scena pugliese premiata in numerosi festival, fino al percorso solista che lo porta a Bologna. Qui incontra Lucio Dalla, che lo incoraggia a riscrivere partendo da una voce più personale e diretta. Da allora, il suo stile si evolve, tra rock viscerale e una scrittura che non cerca compiacimento, ma verità.

    Nel 2008 il singolo “Parole” entra nei circuiti nazionali di Virgin RadioRadio 105 e Kiss Kiss. Seguono partecipazioni a progetti collettivi, come “Aut – Artisti Uniti per Taranto” contro l’inquinamento ambientale, e diversi riconoscimenti da parte della critica e della stampa.

    «Non cerco eroi, e non mi interessa farmi ascoltare a tutti i costi – conclude -. Ma credo che oggi ci sia bisogno di qualcuno che dica ad alta voce quello che molti pensano. Se anche uno solo si riconosce in questa canzone, per me ha già fatto il suo giro completo.»

    “Where’d You Go Someday” non è un canto di protesta. È un gesto di responsabilità. Non solleva bandiere, ma domande. E nel farlo, ci costringe ad ascoltare ciò che il rumore ha coperto troppo a lungo: il nostro silenzio.

  • Dalla luce delle feste al vuoto improvviso: la cornice malinconica di “Film Romance”

    «All’improvviso, siamo diventati niente». Da questa frase, raccolta durante una conversazione tra amici, prende forma “Film Romance”, il nuovo singolo di Mario Signorile, già conosciuto con lo pseudonimo Mocky. L’artista ha scelto di firmare con il proprio nome, lasciandosi alle spalle un alias che per anni ha accompagnato la sua attività creativa. Una decisione semplice, sobria, ma significativa: dire le cose come stanno, anche in musica.

    “Film Romance” è stato scritto dallo stesso cantautore, attore e regista pugliese in un periodo di apparente festa: le giornate che precedono il Natale. Una stagione di luci, unione e rituali condivisi che, per molti, diventa anche occasione di bilanci, nostalgie, questioni rimaste in sospeso e ferite ancora aperte.

    Proprio su quel contrasto, Signorile realizza un brano che non racconta solo una fine, ma il modo in cui la metabolizziamo mentre ci siamo dentro. Quello che ci diciamo per non vederla arrivare, e quello che ci raccontiamo mentre la viviamo. “Film Romance” parla di come idealizziamo i rapporti, di quanto restiamo legati a un’immagine più che a una persona. E del momento in cui tutto si spegne, senza una scena madre, solo con la domanda: «E ci fa male. O mi fa male?». È la distanza tra le aspettative costruite su modelli idealizzati e la realtà di storie d’amore che, spesso, si sgretolano senza rumore, lasciando solo il peso dei non detti.

    La struttura del brano è dichiaratamente cinematografica: frammenti di quotidianità si intrecciano a citazioni pop – «Come Ted e Robin, come Ross e Rachel» -, componendo un racconto che si muove con naturalezza tra il piano intimo e quello collettivo, tra la playlist personale e l’immaginario condiviso di una generazione cresciuta con le serie TV.  Il videoclip ufficiale, in uscita nei prossimi giorni, rafforza questa dimensione: un protagonista che rivede su videocassetta la propria storia d’amore, mentre lo spettatore scopre che quei ricordi sono proiezioni mentali. Un loop emotivo da cui, a un certo punto, sceglie di uscire.

    «Ho scritto questa canzone in un momento di grande malinconia – spiega l’artista -. Parlando con un’amica, ho sentito il bisogno di mettere in musica quel senso di vuoto improvviso che segue la fine di qualcosa in cui avevi creduto. Mi sembrava assurdo come tutto potesse sparire così, senza un vero epilogo. E invece, ogni addio è un sipario che cala su uno spettacolo che pensavamo infinito.»

    Il testo procede per immagini secche, nitide, taglienti: «Cammino chino ma tu non ci sei, storia antica come i musei». Nessuna concessione alla retorica.

    Verso dopo verso, viene descritto quello che resta: il disorientamento, la fatica di riassorbire l’assenza. Fino all’ultima battuta, che apre una possibilità:

    «E mi ricordo che m’hai insegnato, che dietro il sipario c’è un nuovo spettacolo».

    Quello di Mario Signorile non è un racconto fine a se stesso. “Film Romance” tocca un punto centrale della nostra contemporaneità: l’incapacità diffusa di elaborare la fine di un rapporto senza attribuirle il valore di un fallimento. Oggi, dove le relazioni amorose vengono spesso sovraccaricate di aspettative sociali e narrative, questo brano restituisce dignità anche alla chiusura, ricordando che, proprio come a teatro, dietro ogni finale può esserci un inizio.

    La carriera di Signorile è una sintesi creativa coerente tra musica, regia e scrittura. Dopo il successo delle web serie “Odio il Mio Migliore Amico” e del fan film “The Last of Us Forsaken”, che gli sono valsi diverse candidature e premi nel circuito indipendente, ha esordito nella musica nel 2024 con il singolo “Io“, seguito da “Non ci scotta più” e “Sorriso sulle labbra“. Con “Film Romance”, l’artista affina una scrittura che non rincorre effetti né soluzioni consolatorie, ma sceglie la precisione del dettaglio per fermare in un testo quel punto cieco in cui tutto cambia, senza bisogno di proclami.

    «Nessuna storia d’amore è come nei film – conclude -, eppure tutti ci siamo ritrovati a viverne una come se lo fosse. Questo brano è il mio modo per salutare quella parte di me che ancora si aspettava un finale scritto da altri, e iniziare finalmente a scriverlo con le mie mani.»

    “Film Romance” non è la classica canzone su una storia d’amore giunta al capolinea, ma la fotografia nitida, satura e disincantata del momento preciso in cui ogni rapporto diventa reale: quando il sipario cala e siamo costretti a scrivere da soli il nostro finale. Con questa canzone, Mario Signorile abbandona ogni idealizzazione romantica e riscopre il valore delle storie vere: imperfette, lontane dai copioni televisivi. Perché, dietro ogni addio, c’è sempre una nuova possibilità.

  • LIIA rilegge un classico e ci aggiunge se stessa, tutta intera

    Certe canzoni non si toccano.
    Oppure sì. Ma solo se hai qualcosa di urgente da dire. LIIA, cantautrice slovacca naturalizzata italiana, fa una cosa che pochi avrebbero il coraggio di fare e lo fa con “Always” dei Bon Jovi: non lo omaggia, lo riscrive. Lo prende, lo svuota, lo trasporta altrove. E nel farlo, ci si mette dentro tutta.

    «This Juliet is bleeding, but you can’t see her blood». Il brano è lo stesso. Ma non la voce. Non l’intenzione. Non il tempo. LIIA cambia sguardo, cambia genere, cambia carne. Il tono non è quello di chi implora, ma di chi ha attraversato il dolore. E adesso lo racconta senza chiedere comprensione. Perché il dolore non ha bisogno di spiegarsi, solo di esistere.

    La melodia resta. Il testo, quasi. Ma l’anima cambia pelle: l’epica si dissolve, la potenza si trattiene, la narrazione si sposta. Non è più un uomo a parlare d’amore. È una donna a cantare quello che resta dopo, quando l’innamoramento è già passato.

    «Non volevo imitare il brano originale – spiega LIIA -. Volevo restituirgli qualcosa. Da donna a canzone. Una donna che non si salva, ma resta in piedi. E dice la verità.»

    Il risultato è una cover che non è una cover. È una riscrittura. Un punto di vista. L’originale sfoga, questa invece trattiene. L’originale esplode, questa resiste.

    L’arrangiamento, firmato da Christian Bendotti, abbandona ogni epicità per ridurre tutto all’essenziale: voce, suono e ferita. Le luci della ribalta si spengono e si accendono quelle di un interno sera. Tutto è più scuro, più sommesso. Ogni parola ha un peso, ogni silenzio qualcosa da dire. In particolare, il verso «I wish I was her» («Vorrei essere lei») assume un’accezione confessionale: la sofferenza c’è ancora. Ma non ha bisogno di farsi vedere.

    E così “Always” torna, ma da un altro tempo. Uno dove le eroine non aspettano, ma riscrivono il finale, senza chiedere il permesso.

    Poi arriva “Run Tonight”. E tutto si ricompone. Un brano inedito scritto dalla stessa LIIA, che suona come l’altra metà del racconto: quella in cui si smette di chiedere il via libera per essere sé stessi e si comincia, finalmente, a scegliere.

    Una corsa che non è fuga, ma direzione.

    Se “Always” è la memoria che torna e brucia ancora, “Run Tonight” è la decisione di non restarci dentro. È la pagina bianca che si scrive solo dopo aver attraversato tutto il resto.

    «Realizzare questo brano – conclude l’artista – è stato come dirmelo una volta per tutte: puoi correre. Non per scappare, ma per raggiungerti, per arrivare finalmente ad abbracciare chi sei davvero.»

    «I dream of fearless life, where I’m always true. I’ve found my truth, I’ve claimed my right. I know why I run tonight» («Sogno una vita senza paura, dove posso essere sempre vera. Ho trovato la mia verità, ho rivendicato il mio diritto. So perché corro, stanotte»). La voce torna piena, determinata, ma mai sopra le righe.
    Non è una rivendicazione in senso stretto: è consapevolezza, lucidità che diventa azione.

    “Run Tonight” fotografa cosa succede quando smetti di aderire a un’idea che non ti assomiglia più. Mentre tutti osservano, commentano, scrollano – «Everyone’s on the internet watching strangers live for clicks» («Tutti sono su internet a guardare sconosciuti vivere per un clic») – c’è chi si alza. E parte.
    In silenzio, ma con passo deciso. Dove nessuno può dirgli chi essere. Non via da qualcosa: verso di sé.

    Secondo i dati MIDiA Research (2024), solo il 27% della musica promossa a livello globale è firmata da donne. E meno della metà ha pieno controllo su scrittura e produzione. In questo scenario, progetti come quello di LIIA non sono solo artistici. Sono necessari. Non perché alzino la voce, ma perché non chiedono spazio. Lo occupano. Con rigore. Con libertà. Con una voce che non cerca conferme, ma verità.

    LIIA non concede nulla. Non abbassa. Non semplifica. Racconta ciò che va raccontato, nel modo in cui va raccontato. Non presenta due brani. Mette in fila due istanti dello stesso movimento interiore: la trasformazione. Due traiettorie diverse, lo stesso approdo: scegliersi. Per poter scegliere. E lo fa con una voce che – per estensione, precisione, assenza di manierismi – non somiglia a nessuna nel panorama attuale. Una voce che non si confonde, non si compiace, non compiace.

    Anche i due videoclip che accompagnano i singoli, diretti da Mirko Parrini, parlano chiaro: il video di “Always” è statico, denso, girato in studio con una luce che sembra trattenere il fiato e richiama le atmosfere anni ‘90. Quello di “Run Tonight” è scattante, asciutto, come il primo passo dopo la stasi. Insieme, sono un corpo unico. Una dichiarazione sussurrata, ma definitiva: non esiste libertà più grande di quella di scegliere chi si è e chi si vuole diventare, senza chiedere il permesso.


  • Perché il talento da solo non basta: la start-up italiana HAT Music offre agli artisti le connessioni che contano

    Ogni minuto nascono 83 nuove canzoni. Il 45% delle quali non verrà mai ascoltato. Milioni di artisti cercano ogni giorno produttori, manager e professionisti per costruire la propria carriera, ma si affidano a piattaforme generaliste come LinkedIn o ai social media, sprecando tempo e risorse. Il risultato? Il 98% delle release restano invisibili e oltre 7 miliardi di euro l’anno vengono investiti in collaborazioni inefficaci.

    Per risolvere questa distorsione, nasce HAT Music, la prima app dedicata a connettere in modo rapido ed efficace artisti e professionisti della musica, offrendo un sistema di matching personalizzato, grazie all’intelligenza artificiale, basato su genere, esperienza, budget e necessità specifiche.

    Perché il problema non è la mancanza di talento, ma l’assenza di connessioni giuste. E senza connessioni, il talento resta in ombra.

    In un’industria sempre più affollata, non bastano semplici piattaforme di pubblicazione: serve un sistema che offra a chi muove i primi passi l’accesso alle figure adatte, permettendo di trasformare il potenziale in una carriera concreta. Eppure, nonostante una crescita annua del 10,29% e un fatturato di 26,2 miliardi di dollari nel 2023, il settore musicale non ha ancora sviluppato strumenti in grado di sostenere adeguatamente le nuove generazioni di creatori, rimanendo indietro rispetto alla sua stessa evoluzione.

    HAT Music offre una soluzione chiara e scalabile, una piattaforma digitale che consente a chi fa musica di prenotare consulenze e appuntamenti con le figure professionali di cui ha bisogno (A&R, produttori, social media manager, fotografi, uffici stampa, ecc ecc.) con un sistema trasparente, sicuro e veloce. L’elemento chiave sarà l’AI Matching, che analizzerà i bisogni dell’artista e suggerirà i professionisti più idonei, riducendo il tempo di ricerca da mesi a pochi minuti.

    Ma come funziona HAT Music?

    • . Per gli artisti: iscrizione gratuita, possibilità di rispondere a un breve questionario per ottenere un percorso personalizzato e connessione immediata con professionisti verificati.
    • . Per gli esperti musicali: creazione di un profilo professionale, gestione delle prenotazioni, possibilità di ricevere richieste di lavoro da artisti selezionati.
    • . Sistema sicuro di pagamenti in-app: nessun rischio di mancati pagamenti o truffe, grazie a transazioni integrate e tracciabili.
    • . AI Assistant (in arrivo): un’intelligenza artificiale che aiuta artisti e professionisti a monitorare la crescita della loro carriera con dati e suggerimenti.

    Dietro HAT Music c’è un team con esperienza diretta nell’industria musicale e tecnologica:

    • . Emanuele Sanfelici (CEO, ex PwC, imprenditore tech, ex DJ e musicista)
    • . Riccardo Lapi (CTO, ex-freelance tech, specialista in sviluppo software e intelligenza artificiale)
    • . Gea Venneri (CMO, psicologa, esperta in Human-Robot Interaction e brand strategy)

    Nel team di advisor figurano nomi di primo piano del music-biz, tra cui ex-dirigenti Warner Music e YouTube Music (EMEA), oltre a figure di spicco nel settore delle startup tecnologiche.

    HAT Music, attualmente parte del programma di Accelerazione di B4i – Bocconi for innovation (hub imprenditoriale dell’Università Bocconi), ha recentemente celebrato un importante traguardo, chiudendo un round di investimento da 200.000 euro, con B4i -Bocconi for innovation come investitore principale. Questo risultato rappresenta non solo un’importante validazione della visione di HAT Music, ma fornisce anche le risorse necessarie per accelerare lo sviluppo della piattaforma e ampliare la sua presenza nel mercato.

    Secondo Goldman Sachs, il valore globale della musica raddoppierà entro il 2030, raggiungendo i 131 miliardi di dollari. Un dato che si riflette anche negli investimenti nel settore, che nel solo 2023 ha visto oltre 2,5 miliardi di dollari in finanziamenti per startup innovative. Aziende come LANDR (piattaforma AI per il mastering audio), Splice (marketplace per produttori musicali) e SoundCloud Repost (servizio per la distribuzione musicale) hanno attratto centinaia di milioni di dollari, dimostrando come il mercato stia premiando chi porta soluzioni scalabili e basate sulla tecnologia.

    E in Italia? Il MusicTech è ancora in una fase iniziale, ma sta crescendo rapidamente. Startup come Aulart (educational per produttori musicali) e Anghami (lo “Spotify del Medio Oriente”, quotato al Nasdaq) dimostrano che c’è spazio per soluzioni innovative.

    HAT Music si inserisce in questo trend con un modello di business B2B e B2C e una piattaforma freemium che può ridefinire il modo in cui gli artisti investono nella propria carriera. L’obiettivo è intercettare almeno il 5% dei 14,8 milioni di artisti emergenti presenti in Europa, generando un recurring revenue annuale multimilionario. Grazie alla combinazione di intelligenza artificiale, strumenti finanziari e matching strategico, HAT Music risponde a un bisogno concreto del mercato e si configura come un asset strategico per venture capital, fondi di innovazione e corporate che vogliono posizionarsi nel settore della creator economy.

    Oggi, chi inizia a pubblicare i primi brani, spende in media 2.000 euro l’anno in servizi professionali, ma spesso senza risultati concreti. Con HAT Music, è finalmente possibile avere accesso a un sistema che ottimizza tempo e risorse, garantendo connessioni mirate e sicure.

    «Abbiamo vissuto in prima persona le difficoltà di chi cerca di farsi notare senza una solida rete di contatti – dichiara Emanuele Sanfelici, CEO e co-founder di HAT Music -. Servono sinergie giuste e strumenti efficaci. Per questo abbiamo creato HAT Music: per mettere la tecnologia al servizio della musica e offrire nuove opportunità a chi ne ha davvero bisogno.»

    La piattaforma è già disponibile su App Store e Google Play. Il primo obiettivo? Portare almeno 30.000 artisti e professionisti sulla piattaforma nel primo anno e ridisegnare le dinamiche del settore, mettendo il talento al centro del mercato musicale.

    Per troppo tempo gli artisti hanno dovuto affrontare il proprio percorso senza strumenti adeguati per costruire collaborazioni strategiche e dare slancio alla propria carriera. HAT Music nasce per colmare questa lacuna e offrire un modello più efficiente e sostenibile per chi crea musica e per chi lavora nel settore.

  • Tra meme e maschere, Ruggero Ricci cerca l’amore in un mare di squali, anzi: di “Pescicani”

    «Mi sono svegliato morto, in equilibrio sui binari». Non è un’immagine dark da effetto speciale, ma l’istantanea di uno stato mentale: quello di chi vive sospeso tra il bisogno di sentirsi vivo e la stanchezza di doverlo dimostrare. È così che si apre “Pescicani” (Snow Records/ADA Music/Warner Music Italy), il nuovo singolo di Ruggero Ricci. A metà tra flusso di coscienza e immaginario pop, il brano si muove su ritmi indie-reggae, con suggestioni visionarie e sfumature ironiche, facendo luce sul disorientamento identitario dei venti-trentenni di oggi.

    “Pescicani” è il ritratto, volutamente instabile, di una generazione che galleggia tra scroll compulsivi, relazioni interrotte e una voglia sottile ma feroce di sparire per reinventarsi. Un carosello di emozioni spiazzante, lucidamente caotico.

    Il titolo rimanda a figure ambigue, opportuniste, predatrici. Ma nel mondo narrativo creato da Ruggero, i “pescicani” diventano il simbolo grottesco di una festa in cui si balla per dimenticare, si ride per fuggire e si finge per sopravvivere. Una festa che sembra essere diventata il teatro abituale dei giovani adulti: un luogo di evasione, alienazione, performance.

    «Ho voglia di fingermi un santo, ho voglia di essere un mostro». Un desiderio duplice e antitetico, che riassume bene lo stato d’animo del protagonista: spinto a cambiare forma, identità, linguaggio, senza mai davvero trovare una direzione. In “Pescicani”, non c’è una narrazione lineare: il testo è un quadro frammentato, dove il tempo si rompe, i toni saltano da un’estremità all’altra, e ogni singola parola può diventare una maschera da indossare o un grido trattenuto. Il senso di alienazione si traduce in parole che non cercano coerenza, ma aderiscono al disordine – emotivo, esistenziale, comunicativo -, in cui non è difficile riconoscersi.

    Tra i temi centrali: la crisi identitaria, l’incomunicabilità, il bisogno di evasione. «Navighiamo tra cuori di plastica, se ci sei, tu dimmi che ci sei»: un verso che è la sintesi di legami che sembrano sempre più vuoti, finti, svuotati di senso. Quello di Ruggero è un diario interrotto, fatto di tentativi, fughe immaginate e parole lasciate a metà. Un racconto senza morale né soluzione, in cui la confusione non è un ostacolo ma il paesaggio naturale di chi cresce cercando legami, connessioni, in un mondo fatto di distanze.

    In un tempo in cui l’identità è sempre più uno spettacolo da condividere e i ruoli cambiano al ritmo degli algoritmi, “Pescicani”, prodotto da Massimiliano Giorgetti (Majorizm Lab) e Tia Snow, attraversa il rumore di fondo di una generazione che scorre tra maschere digitali e silenzi mai davvero vuoti, quelli di chi cerca se stesso tra scroll compulsivi, inseguendo un punto fermo in mezzo al caos.

    Il brano gioca con riferimenti alla cultura pop, tra tormentoni e cliché affettivi e linguistici del presente: «Tieniti pronto per entrare a Hollywood», «Dire, fare, baciare, ghostare», «bla bla bla bla pubblicità». Ma sotto la superficie ironica, resta l’amaro di chi si guarda vivere, consapevole di stare sempre un po’ in scena. Si intravede il disagio di un presente in cui tutto sembra recitato — anche la fatica di esserci davvero — e prende forma una domanda implicita: cosa resta di noi, nel rapporto costante con i social, la spettacolarizzazione, il bisogno di interpretare un ruolo?

    «In tutte queste settimane ho avuto voglia di smettere di recitare – dichiara Ricci -. Ho scritto “Pescicani” come se fosse un sogno febbrile: ci ho messo dentro immagini che mi hanno attraversato mentre provavo a capirmi. Non volevo dare risposte, solo far vedere il disordine con sincerità.»

    Nel testo compaiono sogni surreali, come il bungee jumping tra le scuse di una storia finita, e scene quotidiane – «hai parcheggiato fuori mano» – che si mischiano a derive dai toni poetici, visioni che sembrano venire da un dormiveglia inquieto, con uno stile che preferisce la contraddizione alla coerenza. La voce dell’artista diventa quella di molti che, in un presente frammentato, cercano di affermarsi anche quando non sanno chi sono, di esistere anche senza sapere esattamente chi stanno diventando.

    «Mi piace pensare che questa canzone possa essere accolta anche da chi ogni tanto si sente fuori posto, o ha voglia di sparire per poi reinventarsi – conclude l’artista -. Non ho scritto per spiegarmi, ma per condividere quel momento assurdo in cui ti rendi conto che non ti riconosci più.»

    “Pescicani”, accompagnato dal videoclip ufficiale in uscita martedì 13 maggio per la regia di Andrea Artioli e la fotografia di Bronny, è un piccolo caos ragionato, un disordine lucido, un affresco contemporaneo tra malinconia e urgenza di essere ascoltati, capiti. Un ritratto onesto e irriverente di chi si sente perso e lo dice ad alta voce, di chi si vede fuori asse e sceglie di dirlo senza paura. Più che spiegare una condizione, la canzone ne mette a nudo la forma: quella di un presente che sembra sempre sul punto di rompersi, o di ricominciare.

  • Una macchina a diesel col pieno di benzina: Acudo e la metafora della generazione bloccata

    «Scrollando il mondo da lontano, senza un vero scopo». C’è chi passa le giornate così: scrollando vite che non gli appartengono, rimandando tutto a domani, con la sensazione di essere fermo mentre il resto va avanti. È così che ci si sente quando si guarda la vita scorrere da uno schermo, senza parteciparvi davvero. Uno stato d’animo sempre più diffuso, lo specchio in cui si riflette una generazione intera, iperconnessa eppure scollegata da se stessa. Ed è da qui che parte “Fuori dal mondo” (Mendaki Publishing/Orangle Records), il nuovo singolo di Acudo: una canzone che racconta cosa succede quando ti perdi dentro i giorni, e ogni cosa intorno sembra andare avanti senza di te. E quella forza che, quando arriva, non ti chiede nulla: ti prende e ti rimette in piedi.

    L’artista senza volto, nato a Latina e cresciuto musicalmente tra le influenze di Subsonica, Linkin Park, Modà e Pinguini Tattici Nucleari, torna con un brano che non descrive soltanto la fatica di restare a galla, ma suggerisce, senza retorica, che un’alternativa è possibile, lasciando intravedere una via d’uscita. “Fuori dal mondo” attraversa il punto tra isolamento e salvezza, tra una quotidianità vissuta da osservatori esterni e il momento, inatteso, in cui qualcosa o qualcuno ci riporta con i piedi per terra.

    «Mi sentivo in pausa. Bloccato. Come se tutto scorresse troppo in fretta e io fossi rimasto indietro – racconta Acudo -. Questa canzone nasce da lì, da quel vuoto. Poi è arrivata una forza, non so bene cosa fosse, forse una persona, forse solo un momento giusto, ma mi ha svegliato. E mi ha ricordato che anche quando ti senti fuori dal mondo, puoi ancora rientrarci.»

    Il brano segue questo stesso movimento: parte piano, trattenuto, come chi non sa se ripartire o restare dov’è. Poi si apre. E lì cambia tutto. Il ritornello — «E poi arrivi tu che mi svegli dal sonno, forte come una gru, mi sollevi sul mondo» — è la fattura. Il momento che rompe il ritmo, che spezza l’equilibrio e rimette tutto in discussione. Un’immagine che non consola ma spinge. Qualcosa o qualcuno che irrompe e ti rimette in asse, quando meno te lo aspetti. Una visione dirompente che scuote il torpore e restituisce prospettiva.

    In un’epoca in cui, secondo i dati ISTAT, quasi un giovane su due in Italia si definisce spesso solo, “Fuori dal mondo” intercetta un’esperienza che molti riconosceranno, senza indulgere in facili consolazioni. Il protagonista del brano si rifugia dietro lo schermo del cellulare, osserva la vita degli altri senza parteciparvi, rinvia le decisioni, resta fermo al “primo step”, eppure, qualcosa cambia. Ed è in quel cambio di passo, in quella fessura di luce, che si gioca il senso del pezzo. Non quando tutto si risolve, ma quando si riapre lo spazio per ripartire.

    «Una macchina a diesel con il pieno di benzina», canta Acudo nel primo verso, raccontando con amara ironia la dissonanza tra ciò che siamo e ciò che il mondo ci chiede di essere. Una corsa continua che lascia indietro chi ha bisogno di tempo, di silenzio, di una tregua. Ma anche chi ha solo bisogno di qualcuno che lo guardi davvero.

    Con “Fuori dal mondo”, Acudo prosegue la direzione intrapresa con “TRS”, mantenendo la scelta radicale dell’anonimato. Nessun volto, nessuna identità pubblica. Solo musica e parole. Una decisione controcorrente, che oggi appare quasi politica, in un panorama musicale dominato dall’immagine e dalla sovraesposizione. Ma è proprio questa sottrazione a renderlo riconoscibile: una voce che non ha bisogno di apparire per farsi sentire.

    “Fuori dal mondo” è un richiamo sottile ma impossibile da ignorare a non abituarsi alla disconnessione da se stessi e dagli altri. A cercare, anche nei giorni più spenti, quella forza che ci solleva. A credere che, anche quando tutto sembra sospeso, qualcosa o qualcuno può ancora catapultarci nella vita vera.

  • Contro ansia, isolamento e sovraesposizione: Rames risponde con il rap

    «Penso al positivo, mi sento anche più attivo, mentre il mondo intanto è spento come un dispositivo». È da questa strofa, che suona come una piccola ribellione, che prende forma “Positivo”, il nuovo singolo di Rames, artista torinese classe ’86 che ha fatto del rap uno strumento di riscatto personale e sociale. Un brano, ma soprattutto un’idea chiara: in un mondo afflitto da sfiducia, ansia e disillusione, la scelta di pensare positivo può diventare un atto rivoluzionario.

    “Positivo” è un invito a riconsiderare il modo in cui ci rapportiamo alla vita, ai sogni, alle difficoltà quotidiane. Un progetto musicale ma anche culturale, un richiamo a riappropriarsi del tempo, della creatività, della capacità di sognare. Un brano che non indulge nella retorica, ma che incide con precisione chirurgica su un contesto saturo di negatività digitale, alienazione e disillusione.

    Rames non si limita a raccontare i tempi che corrono, ma costruisce un’alternativa. Il suo è un messaggio limpido, diretto, che parla soprattutto alle nuove generazioni, spesso intrappolate in una realtà iperconnessa ma svuotata di senso. Perché pensare positivo non è un vezzo da slogan motivazionale, ma un atto radicale, una scelta che può cambiare le prospettive individuali e collettive. Un cambio di passo che il rapper propone con coerenza, dopo anni di pausa e una carriera musicale che ha sempre mantenuto una forte attenzione al contesto sociale.

    Nel testo, lo sguardo dell’artista si posa su una società disattenta e frenetica: «qua tutto nuoce, tutto è veloce», scrive, sottolineando l’affanno quotidiano, l’incomunicabilità e l’inquietudine latente di una generazione in cerca di senso. Ma poi sposta il baricentro, offrendo un’opzione possibile, una via percorribile che si nutre di creatività, di fiducia, di attivazione personale. Una visione che si contrappone alla passività indotta dallo scrolling compulsivo e dalla sovraesposizione ai social, restituendo centralità all’immaginazione e alla volontà di agire.

    Il disagio contemporaneo viene radiografato in pochi versi, evidenziando come il pensiero critico ceda spesso alla distrazione costante. Ma è proprio da questa consapevolezza che nasce la proposta artistica di Rames: spegnere per riaccendere. Spegnere il flusso negativo e accendere l’energia creativa. Un’inversione di rotta che si fa pratica quotidiana e, auspicabilmente, contagiosa.

    «Con questo brano voglio proporre un cambio di rotta rispetto al clima di apatia che ci circonda – racconta Rames -. Sento che pensare positivo è un atto rivoluzionario, perché ci aiuta a non mollare, a progettare, a costruire qualcosa anche quando il contesto sembra dirci il contrario.»

    Il tema della canzone trova riscontro diretto nei dati attuali. Secondo l’ultimo report UNICEF Italia, 1 adolescente su 3 si sente inadeguato o solo a causa del confronto continuo con modelli irraggiungibili imposti dai social. È un malessere che si manifesta in forme silenziose ma pervasive: isolamento, ansia, perdita di motivazione. In questo scenario, un brano come “Positivo” si pone come risposta educativa e culturale, potenzialmente replicabile nelle scuole, nelle carceri minorili, nei centri giovanili, ovunque serva riaccendere la fiducia.

    Non un inno all’ottimismo facile, ma una chiamata ad alzare lo sguardo, ricalibrare la rotta, scegliere la presenza anziché la distrazione. Un messaggio che nasce da un vissuto reale, trasformato in parola, suono e presenza.

    «Mi sento vivo quando scrivo e condivido la mia visione del mondo – aggiunge l’artista -. La musica mi ha salvato, mi ha dato una direzione, mi ha aiutato a restare in piedi anche nei momenti più complicati. Se qualcuno ascoltandomi trova la forza di credere in se stesso, allora tutto questo ha davvero senso.»

    Dopo una lunga pausa di dieci anni, Rames è tornato sulle scene nel 2022 con l’album “Playrames Deluxe”, seguito dai singoli “Non Darti Mai uno Stop – Remix”, “Un Giorno Come un Altro” e “Non Avere Paura”. Un percorso coerente, fatto di passi silenziosi ma solidi, che oggi culmina in un progetto maturo, capace di unire parola e azione. Il suo rap si distacca dai cliché di genere per costruire una narrazione alternativa, dove la forza non è ostentazione, ma consapevolezza. Dove la positività non è leggerezza, ma resistenza. E così, in un’epoca in cui spesso “dire qualcosa” sembra meno importante del “farlo sembrare”, “Positivo” si impone per quello che è: un invito a rimettersi in cammino. A immaginare. A ricominciare.

    Rames non propone solo una canzone, ma un’intera filosofia di vita, in cui la musica diventa linguaggio di attivazione. Il rap, spesso associato a narrazioni tese e conflittuali, qui inverte il suo asse, senza perdere forza comunicativa, per diventare veicolo di nuova energia. Lo dimostrano le sue barre, precise, taglienti, capaci di sintetizzare il paradosso contemporaneo in nitide immagini: «ma questo nuovo tratto a me mi ha già distratto e mi ha portato indietro tutto quello che ho contratto».

    Il punto di forza di “Positivo” è la sua semplicità solo apparente: un messaggio chiaro, una spinta all’azione, un invito a riprendersi la responsabilità di scegliere. Un brano che parla ai giovani, ma non solo, e che può diventare l’inizio di una nuova forma di attivismo musicale.

    E in un mondo che è “spento come un dispositivo”, un mondo che ha perso la connessione con se stesso, Rames ci ricorda che ritrovarla è possibile: basta un gesto semplice quanto rivoluzionario – cambiare prospettiva, anche solo per un attimo. Perché decidere quando riaccenderlo, in fondo, spetta a noi.

  • Un défilé per la solidarietà: l’alta moda al Fashion Roses Imperial Show

    Doppio appuntamento da non perdere a Milano, martedì 6 Maggio 2025 presso la Società Umanitaria in via San Barnaba 48.

    “FASHION ROSES IMPERIAL SHOW”

    Il primo, con inizio dalle ore 12, organizzato da Larissa Yudina, soprano di fama internazionale, fondatore e presidente dell’associazione “Stravinsky Russkie Motivi”, propone sfilate di moda dal titolo “Fashion Roses Imperial Show” (che vanta il patrocinio del Municipio 1 del Comune di Milano, dell’associazione culturale Armonia e Tota Pulchra), cui seguirà cui seguirà un cocktail party, l’intermezzo musicale con i finalisti del concorso canoro “Giovani cantanti d’Italia” (con partecipanti dai 7 ai 20 anni) e il dj-set di Principe Leone. Coordinatore Maurizio Nicchi, presentatrice Vicky Princess, sosia ed imitatrice di Belen Rodriguez. In passerella gli abiti dello stilista brasiliano Antonio Oliver e défilé di alta gioielleria di Scavia.
    Per info e prenotazioni basta contattare i recapiti 338-5624180 oppure 391-7375595, mail stravinskyrusskiemotivi@gmail.com.

    “GRAN BALLO IMPERIALE”

    Dalle ore 19, invece, sempre con l’organizzazione dall’associazione “Stravinsky Russkie Motivi”, fondata e presieduta dal soprano Larissa Yudina, i riflettori sono puntati sul “Gran Ballo Imperiale”. Un evento sarà dedicata alla Pace e alla solidarietà tra i popoli. L’intento è di creare una giornata all’insegna della fratellanza, dell’arte e della cultura, delle tradizioni e dell’identità nel territorio: questo è lo spirito con il quale creare sinergie positive.

    Protagonisti dello spettacolo musicale, con la voce narrante che introduce i partecipanti e il pubblico nell’atmosfera che ha visto protagoniste due importanti figure del primo Novecento italiano, entrambe di grande valenza cultura per Milano: Eleonora Duse e Sergej Djagilev, grande impresario teatrale dei balletti russi. Eleonora Duse, della quale si è iniziato a celebrare il centenario della morte nel 2024, è una figura importante per Milano, dove si è svolta parte della sua vita personale e professionale, peraltro legata da un filo sottile ma significativo a Gabriele D’Annunzio, a sua volta grande estimatore dei “Balletts Russes” di Sergej Djagilev. Quest’ultimo, impresario teatrale geniale ed innovativo che ha fatto dei “Balletts Russes” una sintesi perfetta tra danza, musica e pittura, concluse la sua ultima tournée proprio al teatro Alla Scala di Milano, grazie alla contaminazione tra le cultura russa e le sperimentazioni artistiche delle avanguardie europee degli Anni Venti.

    «Con questo evento – spiegano l’organizzatrice, la soprano Larissa Yudina – la nostra associazione vuole celebrare tali geniali e visionari innovatori delle arti per aver favorito l’incontro tra diverse forme artistiche ed averne cercato una sintesi. Promuovo la musica classica dei grandi compositori russi, italiani ed internazionali, creo le sinergie tra diverse forme d’arte promuovo la collaborazione, l’amicizia tra le culture diverse nel mondo. Sostengo i giovani talenti e li aiuto ad approfondire lo studio musicale. Inoltre è consolidato il nostro impegno nella beneficenza e la collaborazione con le seguenti associazioni dal 2020 Ariel, Irma Meda, Beteavòn, City Angels, tutto nel nome della pace, della musica e della cultura. Tutto questo perché unisce le persone con il cuore».

    GLI ARTISTI

    Larissa Yudina, soprano; artisti del balletto; Quartetto d’archi “Stravinsky Russkie Motivi” composto da Xhiliola Kraja (1° violino), Tatyana Fedevych (2° violino), Gianfranco Messina (viola), Alessandro Ziumbrosky (violoncello). Voce narrante Stefania Romito (scrittrice); ospite Giuseppe Barletta (sassofono); dj-set a cura di Francesco Pedone.

    IL PROGRAMMA MUSICALE

    Pas de deux (Piotr Ilic Tchaikovsky); Danza dell’uccello di fuoco (Igor Fedorovic Stravinskij); artisti del balletto; quartetto d’archi
    Paolo, datemi pace (Gabriele D’Annunzio, a cura di Francesca da Rimini)
    attrice in veste di Eleonora Duse
    Interpretazione lirica di un brano dell’omonima opera di Riccardo Zandonai
    soprano e quartetto d’archi
    Artista del balletto in veste di Isadora Duncan, grande amica di Eleonora Duse
    Givelle – atto 1 variazioni (Adolphe Charles Adam)
    artista del balletto e quartetto d’archi
    Petrushka (Igor Fedorovic Stravinskij)
    artista del balletto e quartetto d’archi
    A vucchella (Gabriele D’Annunzio), musica di Francesco Paolo Tosti
    soprano e quartetto d’archi
    Notte bianca (Gabriele D’Annunzio), musica di Francesco Paolo Tosti
    soprano e quartetto d’archi
    Il bacio (Luigi Arditi),
    soprano e quartetto d’archi
    Polonaise (Piotr Ilic Tchaikovsky) dall’opera Eugenio Onegni

    ASSOCIAZIONE “CITY ANGELS”

    Madrina della serata, e dell’associazione “City Angels”, è Daniela Javarone, presidente dell’associazione “Amici della Lirica”. Si tratta di una giornata interamente dedicata a cultura, musica, eleganza, beneficenza, collaborazione ed amicizia. La serata si concluderà con la lotteria di beneficenza il cui ricavato sarà donato all’associazione “City Angels”.

    OPERE ESPOSTE DI IMPORTANTI ARTISTI

    Nel corso dell’evento saranno esposte opere dello scultore Lucia Albertini, architetto ed artista che realizza sculture e dipinti. Le sue opere in equilibrio tra presente e passato interpretano la bellezza della figura umana in chiave contemporanea attraverso una visione classica. Non mancherà la presenza del pittore Andrea Leonardi con opere realizzate in acrilico e plexiglass e la pop art di Svetlana Nicolik.

    PARTNER DELL’EVENTO

    L’evento è organizzato in collaborazione con i partner Comune di Milano Municipio 1 (Patrocinio gratuito); Pasticceria artigianale “Chicchi D’autore”; Studio legale “Sutti”; Ristorante “Veranda”; Cantina “Caleffi”; Pellicceria “Emmegi”; Compagnia di danze russe e di carattere “Russiyana”; Istituto di formazione professionale “Club Beaute”; Azienda Agricola “Crosio”; Macelleria gastronomia catering “Specialità gastronomiche”; Azienda “VG Illumina”; A.DI.MA.SRL (Trade mark “Inarredo”); B-For-D SRL (Trade mark “Lud^An); Gioielleria “Scavia”; Azienda “Pure”.

  • Non è una canzone da skip, è una canzone che resta: “Pupille d’alabastro” di Spectrum Vates

    C’è qualcosa di controtempo, quasi ostinato, nella scrittura di Spectrum Vates. Fin dal primo singolo “Prosopagnosia”, passando per l’album d’esordio “EsseVu” e la dichiarazione d’identità “Non sono Lucio Battisti”, il rapper aretino ha costruito un percorso fuori dai meccanismi dell’hype, scegliendo parole e sonorità che non si consumano in 15 secondi ma restano oltre e fuori dal tempo. Con il nuovo singolo “Pupille d’alabastro” (PaKo Music Records/Believe), quella direzione si fa ancora più chiara: un brano che racconta l’amore come scelta quotidiana, non come scintilla da esposizione.

    In un panorama in cui il rap è sempre più spesso packaging – hit pensate per l’algoritmo, strofe adattate ai trend – Spectrum Vates fa una scelta di campo netta: scrivere come se ogni verso fosse destinato a durare. Non inseguire il momento, ma costruire senso. E in un’epoca in cui l’identità è sempre più un contenuto da distribuire, non un linguaggio da curare, Spectrum Vates sembra voler riportare il rap alla sua radice: una forma di espressione prima che una performance. Mentre il mercato musicale si piega sempre più spesso alle logiche dei reel, della viralità istantanea e delle strofe da una manciata di secondi, Spectrum Vates continua a scrivere pensando a chi resta. Non a chi scorre.

    Classe 1999, toscano, pochi filtri e nessuna scorciatoia, Spectrum Vates – all’anagrafe Giacomo Cassarà – ha scelto di stare dalla parte delle parole. Non come ornamento, ma come necessità. “Pupille d’alabastro” è l’ennesima prova di un percorso che punta alla sostanza e scarta l’effetto speciale. Dopo anni trascorsi nello sport agonistico, sceglie di fermarsi. E di scrivere. Prima la raccolta di poesie Spectrum Interior, nel 2022. Poi le prime pubblicazioni rap, indipendenti, essenziali, senza filtro. È lì che prende forma la sua voce: un “conscious emotional rap” come ama definirlo, che non insegue formule, ma cerca una vera e propria connessione, un punto di incontro con chi ascolta. Scrive come se stesse cercando qualcosa. O forse come se volesse proteggere ciò che ha trovato. Il resto lo racconta con un tatuaggio, inciso sul braccio e sulla pelle delle sue canzoni: Caduto in un quadro di sogni sospinto. Coraggio è il colore con cui l’ho dipinto.

    E dentro “Pupille d’alabastro” tutto questo ritorna: l’attenzione alla parola, la fedeltà a se stessi, lo sguardo che sa fermarsi prima di parlare. «Noi siamo due cuori rotti al centro e poi aggiustati, giochiamo a far la guerra senza armi e carri armati»: in una scena affollata da cliché, questa è una linea che ha il coraggio di restare sospesa. Una dichiarazione di umanità che fa della fragilità un linguaggio. E della poesia, un luogo.

    Il brano si apre su un’immagine precisa: una giornata di sole, Perugia gremita, uno sguardo che si incrocia tra la folla. Da quel momento – raccontato come un piccolo cortocircuito emotivo – si snoda una narrazione fatta di gesti e convivenza quotidiana. L’amore non è idealizzato, ma reso possibile giorno dopo giorno. Un sentimento che cresce nei vuoti e nei dettagli, nella routine e nella cura. «Mi sveglio al mattino e t’osservo dormire, sdraiata lì, accanto al mio corpo indifesa»: non è romanticismo di maniera, ma adesione alla realtà di un legame che evolve senza bisogno di proclami.

    Il titolo, “Pupille d’alabastro” suggerisce uno sguardo che non si dimentica, che resta impresso anche quando si chiudono gli occhi: l’alabastro richiama e sintetizza delicatezza e resistenza, luce e opacità, diventando la metafora perfetta di un amore che non ha bisogno di esibirsi per durare.

    L’equilibrio tra scrittura e suono è evidente e calibrato: il piano di Diego Fabbri accompagna senza mai invadere, lasciando al testo il ruolo centrale. Il mix e il master, curati da Atomic, sottolineano questa scelta estetica, rendendo ogni parola nitida, respirata, misurata. È un lavoro che si muove con discrezione, ma con una direzione chiara.

    «Ho sempre pensato che certi incontri siano come collisioni tra galassie lontane. Non puoi prevederli, ma quando succedono, cambiano la traiettoria di tutto – racconta Spectrum Vates -. Questo brano non è nato per spiegare l’amore, ma per restituirne il peso. Quel silenzio che si crea quando due sguardi si incastrano per la prima volta, e tutto il resto sfuma.»

    Ancora una volta, Spectrum Vates dimostra che si può fare rap senza inseguire mode, e che si può parlare d’amore senza cadere nella retorica. Scrive come se stesse parlando solo a chi ascolta davvero. E in una società in cui la velocità è la regola, scegliere la lentezza diventa un atto radicale.

    Ma non è solo una questione di stile musicale. In “Pupille d’alabastro”, come nell’intero universo di Spectrum Vates, il tempo non è mai un sottofondo: è materia viva, tema implicito, compagno narrativo. C’è un’idea precisa dietro ogni strofa: che le parole abbiano bisogno di tempo per sedimentare. Che il rap possa ancora permettersi di rallentare. Non è un caso che ogni verso sembri scolpito, incasellato con cura, come se scrivere fosse un atto artigianale, e non un processo da automatizzare. Ogni pausa, ogni attesa nel brano, è parte del significato. Non c’è urgenza di riempire, ma esigenza di dire.

    Anche per questo motivo, “Pupille d’alabastro” non è un singolo che punta al picco, ma alla traccia. Non cerca la viralità: cerca chi ascolta. Non si chiede “quanto suonerà?”, ma “quanto resterà?”. E in questo restare c’è tutta la forza del progetto: uno sguardo fermo in un mondo che scorre veloce, troppo veloce. Una voce che non si impone, ma si fa ascoltare. Un nome che, senza alzare la voce, sta trovando il suo posto. Con coerenza, delicatezza e determinazione. In un sistema che premia la rapidità, la sua lentezza è un gesto quasi politico. In un panorama dove il tempo è rumore, la sua musica sceglie il silenzio. E lo rende necessario.

  • Contro la dittatura dello skip, per la libertà espressiva: nasce “BoicottIAmo lo Streaming”

    Nel cuore dell’hinterland napoletano, in una città che ha sempre fatto della musica una forma di resistenza culturale e sociale, sabato 10 maggio prenderà vita il primo evento italiano che mette in discussione l’egemonia delle piattaforme di streaming. “BoicottIAmo lo Streaming” è un titolo provocatorio, ma anche un punto di rottura: ripensare il rapporto tra artista, pubblico e tecnologia, in un momento in cui i numeri contano più della sostanza e il valore creativo viene misurato a colpi di skip.

    Organizzato da Artisti Adesso, l’accademia fondata da Gabriele Aprile che ha già formato centinaia di cantanti, musicisti e creator in cerca di un modello sostenibile e indipendente, l’evento nasce come risposta concreta a un sistema musicale che sembra premiare più l’adattabilità agli algoritmi che l’identità e l’urgenza espressiva. Non un semplice talk, né un altro workshop su come “funzionare meglio su Spotify”: BoicottIAmo lo Streaming è un laboratorio esperienziale dove l’Intelligenza Artificiale diventa un alleato e non un nemico, e dove si torna a parlare di connessioni effettive, di creatività condivisa e di strategie a lungo termine.

    Dalle 15:30 fino a tarda sera, il CAM di Casoria (NA) ospiterà confronti, live performance e momenti di networking. Tra i relatori:

    – Gabriele Aprile, cantautore e digital strategist, con l’intervento “L’AI e il futuro della musica”

    – Ælba & Mel, duo indipendente impegnato nella costruzione di un nuovo modello di carriera musicale

    – Andrea De Luca, che presenterà il caso studio di un artista interamente generato con l’AI

    – Evrint Bless, esperto di strategie musicali alternative, con un panel su come ritrovare autonomia, uscendo dalle logiche penalizzanti delle piattaforme digitali

    Quattro voci diverse, unite da una visione: restituire agli artisti il controllo del proprio percorso.

    La giornata si concluderà con il live “Camera Indie”, uno showcase di talenti indipendenti che stanno costruendo il proprio pubblico al di là degli algoritmi.

    “BoicottIAmo lo Streaming” non è un invito all’isolamento, ma una spinta alla consapevolezza. Pubblicare musica senza una direzione, inseguire i trend e misurare il proprio valore in stream rischia di diventare una trappola che confonde le priorità. Una trappola difficile da riconoscere, e ancora più difficile da spezzare.

    L’Intelligenza Artificiale – spesso vista come un pericolo – sarà invece protagonista come alleato per sviluppare contenuti visivi, concept narrativi e asset promozionali capaci di attirare attenzione reale, non effimera.

    «Non è un boicottaggio delle piattaforme, ma del loro potere assoluto – spiega Gabriele Aprile -. L’obiettivo è ridare agli artisti la possibilità di scegliere, di sperimentare, di parlare a un pubblico vero senza piegarsi alle logiche dell’industria. La tecnologia ci ha tolto qualcosa, ma oggi può anche restituircelo.»

    Informazioni pratiche:

    📍 CAM | Casoria Contemporary Art Museum – Via Calore snc, Casoria (Napoli)
    🗓️ Sabato 10 maggio 2025 – Dalle 15:00 alle 23:00
    🎟️ Biglietti a partire da 47€, con opzioni avanzate per mentorship, produzioni AI e strategie personalizzate
    🌐 Info e ticket: www.boicottiamolostreaming.com

    L’evento è aperto a tutti gli artisti, producer, content creator e addetti ai lavori che vogliono immaginare un modo nuovo – più libero, più diretto, più consapevole: per fare musica fuori dalle metriche, dentro le relazioni. Iniziando da oggi.